Ripreso da aEl Tecolote, 13 luglio 2018
Segue un resoconto in prima persona del poeta e rivoluzionario di San Francisco Tongo Eisen-Martin che ha passato tre giorni al confine tra Stati Uniti e Messico a fine giugno di quest’anno per dimostrare solidarietà ai bambini dell’America Centrale detenuti e separati dalle famiglie dal governo di Trump
Il mio primo giorno a Mcallen in Texas sono davanti all’Ursula Detention Center, soprannominato “Il frigorifero” da chi vi è stato recluso. Partecipo a una manifestazione davanti a questo centro di detenzione che finisce per fondersi con i vari complessi di sedi aziendali. Direttamente alla sua sinistra vi è la “DanHil Containers- Produttori di scatole di cartone ondulato”. Osservo un autobus pieno di bambini uscire dal centro di reclusione e costeggiare la fila di manifestanti muniti sì di cuore, ma non di poteri soprannaturali. Viaggio con Sean Tanner, un organizzatore di San Francisco. Dopo un paio di settimane passate a guardare bimbetti terrorizzati strappati alle madri dal cuore spezzato e dopo aver letto dei 1500 bambini ‘persi’ dal sistema, siamo qui a dare una mano agli sforzi degli attivisti di opporsi e a fare passare l’informazione su quanto vediamo in prima persona. Sean si tuffa subito nella protesta cercando di risollevare le energie in via di esaurimento dei manifestanti provvisti di cartelli e petizioni, a volte in contraddizione tra di loro. Le rivendicazioni variano dalle più radicali a pie proposte di riforma in salsa tipicamente statunitense. L’autobus è seguito da un altro furgone dai cui finestrini cui si intravedono testine . Non so se per cause strategiche o poetiche, ma il furgone esce proprio nel momento in cui la coda del presidio di manifestanti si lascia alle spalle il cancello. A questo punto alcuni dei manifestanti ritornano indietro a passi affrettati, con una disperazione palpabile, per raggiungere i bambini, ma ormai è troppo tardi.
Storie unilaterali di guerra abbondano all’interno della manifestazione, secondo le quali il sistema detiene la supremazia e il potere assoluti rispetto alle persone. Per ognuno dei rappresentanti del congresso ammesso dentro il centro di reclusione, altre migliaia di persone non sono state autorizzate a entrare. Il massimo che si può fare è di offrire servizi ai rifugiati che vengono rilasciati o partecipare a interventi simbolici, per protestare il “business as usual” (lo svolgimento normale delle attività) nel contesto aziendale/militare
I manifestanti continuano a fare interventi al megafono. Una ragazza eroica e senza paura afferra il megafono e dichiara che anche lei è clandestina (undocumented) e non la zittiranno. Rivendica la liberazione di tutti i detenuti, sia piccini che grandi, e l’abolizione di ICE (Immigration and Customs Enforcement, la famigerata agenzia federale e polizia che si occupa di immigrazione e sicurezza).
Un agente di un qualche corpo di polizia o rappresentante del governo se ne sta davanti al centro di detenzione fotografando i manifestanti con un obiettivo che sembra essere lungo almeno 30 cm. Cioè 30 cm di obiettivo per zoomare su un campo di attività di 18 metri. “Chi non era mai stato schedato prima ora lo è di sicuro” è il sentimento che il fotografo sta cercando di suscitare, immagino. Accanto all’agente federale fotografo ci sono ufficiali della polizia di frontiera che si sentono così sicuri nella loro routine al punto di dimostrare una relativa benevolenza nei confronti dei manifestanti. Uno di questi soldati ci esorta addirittura a non esitare a chiedere il loro aiuto qualora dovesse scoppiare un temporale. Mi fa venire in mente un brano da un saggio di James Baldwin intitolato “Uptown”:
La loro stessa presenza (cioè quella dei poliziotti) è un insulto e lo sarebbe anche se passassero tutto il tempo a distribuire caramelle ai bambini. Rappresentano il potere del mondo bianco e le intenzioni reali di quel mondo, sono semplicemente, volte a favorire l’estrazione criminali di profitti e della propria comodità, quindi a tenere l’uomo nero al suo posto, dentro il recinto.”
La ragazza viene ripresa dai media e appare nei telegiornali. Un manifestante che voleva cantare l’inno nazionale degli Stati Uniti alla bandiera (o meglio al filo spinto che la protegge) viene fotografato e appare in prima pagina in un giornale.
La militarizzazione della Vallata del Rio Grande (RGV)
Nella vallata del Rio Grande, il complesso militare /industriale si sente proprio a suo agio. Il Texas del sud è simile alla zona demilitarizzata coreana, un po’ più soft e meno cerimoniale e unilaterale. Anche 200 o 300 miglia a nord della frontiera c’è un check point dove i soldati bene armati ci interrogano sulla nostra cittadinanza. Dappertutto sembra aperta la stagione di caccia contro i Latinx, cioè gente, di sesso maschile e femminile, che ha l’aspetto di persone provenienti dall’America centrale o meridionale. È il confine (una realtà militare) a stabilire il tono culturale, mentre gli altri aspetti della vita si svolgono in una specie di sottotono.
Nella città di Brownsville, in Texas, che ospita il centro di reclusione per bambini Walmart c’è anche un community college (una università di serie b destinata a preparare chi non si può permettere le tasse universitarie a fare i primi due anni di studio prima di tentare di essere ammessi a un’università statale). Il campus è alloggiato in un vecchio centro commerciale un po’ malridotto. E sebbene, ad essere giusti, il campus dell’Università Statale di Brownsville , abbastanza vicino al confine, invece fosse tenuto proprio bene, e avesse l’aspetto curato, da solo non ce la faceva proprio a scalfire l’aspetto militarizzato del paesaggio.
Il ponte ‘internazionale’ di Brownsville non spicca particolarmente. Si può scattare qualche foto a caso di un generico cavalcavia, in una giornata piovosa, in una qualsiasi città degli Stati Uniti, farne un mazzo e metterci dentro anche la foto del viadotto di Brownsville per poi proporre ai giocatori di indovinare quale di essi segni il confine con il Messico. Tutto questo per dire che qualsiasi cosa può essere designata come confine. Basta aggiungere del filo spinato, qualche soldato, e un nemico permanente di colore. Gli edifici militari al confine (e le migliaia di persone che ci lavorano) sembrano insensibili alle urne. Volevo tornare indietro di corsa a dirlo agli attivisti bianchi a Mcallen che (insieme ad altri che manifestavano) erano convinti che il Texas sia uno stato blue in divenire (cioè che sarebbe passato da maggioranza repubblicana a maggioranza democratica) semplicemente se grazie ai nostri sforzi fossimo stati in grado montare e un’accorta campagna elettorale dal basso.
Dar da mangiare agli incatenati
Nel sud del Texas c’è una tattica di gioco piena di zelo, costruita sui servizi per i bambini vittime di brutalità. Catholic Charities fornisce alimenti, provviste, e sollievo a centinaia di donne che, dopo essere state rilasciate dalla reclusione, alla caviglia devono portare un bracciale di monitoraggio. I volontari lavorano senza sosta. Un ragazzo che ogni giorno prepara da mangiare per i rifugiati si emoziona e non riesce a raccontarmi la sua storia personale, quando da bambino attraversava la cosiddetta frontiera. Il docente che insegna a quell’università di serie b di cui vi dicevo, e che alla manifestazione davanti al centro di reclusione ha dato indicazioni, a me e a Sean, per come trovare Catholic Charities, riappare adesso con addosso la sua camicia di volontario. È tutta la giornata che lavora, da quando ha lasciato la manifestazione stamattina e smetterà solo la sera per andare a insegnare i suoi corsi al community college.
I richiedenti asilo sequestrati sembrano esausti a sotto shock.
Non avevo un interprete e il mio spagnolo è scarsissimo. Nei miei tentativi di parlare con la gente mi arrivano frammenti di immagini ed effetti sonori. Bambini che piangono tutta la notte. Persone che hanno fatto traversate di due mesi nel deserto per subire poi gli abusi della polizia di frontiera. Persone a cui non viene permesso di fare domanda di asilo in maniera legale e che vengono spinti sotto dal ponte per finire in mano a soldati che li chiamano clandestini.
RGV – La vallata del Rio Grande -Località ideale per campi di concentramento
Alla fine il temporale non è scoppiato, ma la vallata del Rio Grande si stava ancora riprendendo da un’inondazione precedente. Alcuni membri dell’associazione di attivisti che assiste i rifugiati, LUPE (La Union del Pueblo Entero), fondata dallo storico sindacalista di origine messicana Cesar Chavez, ci dicono che è difficile organizzare i rifugiati quando anche gli organizzatori hanno difficoltà a trovare casa in maniera stabile. La Vallata del Rio Grande è la casa di tante belle persone, perennemente destabilizzate. Un posto perfetto per erigere e mantenere campi di concentramento. La sede di LUPE si riempie di persone in cerca di servizi, che cercano di sopravvivere. Anche il rivoluzionario più inflessibile, incline alla teoria e renitente al riformismo, dovrà pure ammettere che le persone hanno un bisogno immediato di cambiarsi i vestiti, necessitano di traduttori, avvocati per riuscire a strappare le proprie famiglie dalle fauci del complesso militare industriale, ormai così accorpato al complesso industriale della reclusione in questo crimine contro l’umanità da far sorgere il sospetto che in verità siano sempre state un tutt’uno.
Ci siamo fermati a McAllen per parlare con una donna con cui avevo fatto amicizia in una stazione di servizio. Per noi casa sua era diventata una seconda base. Durante la manifestazione davanti al centro di reclusione di Ursula, Sean ed io ci eravamo fermati per comprare acqua per tutti nella stazione di servizio dove lavorava, e chissà per quale ragione cosmica mentre ero al banco a pagare ci siamo messi a chiacchierare e ho scoperto che suo figlio faceva il dottorato in letteratura, era un grande ammiratore dei poeti Beat e quindi della libreria e casa editrice City Lights, e che, di conseguenza, conosceva ed amava il mio lavoro. A suo parere, il sequestro dei bambini non costituiva una escalation (di quanto accadeva da decenni nella vallata del Rio Grande) non si trattava di un cambiamento talmente profondo da giustificare il suo essere considerato un nuovo sviluppo. Siamo ritornati poi alla manifestazione anche per vedere se ci fosse ancora il pediatra che si era messo lì fisso davanti al centro di reclusione pretendendo il diritto di esaminare i bambini. Oltre a poche persone fornite di videocamere, la strada era quasi vuota, eccezion fatta per degli impiegati comunali che stavano verniciando di giallo il cordolo del marciapiedi per indicare il divieto di parcheggio, e costringere quindi eventuali manifestanti a fare più strada a piedi per raggiungere il centro di detenzione.
La lotta continua
Potrebbe invece esserci una escalation di resistenza. Alcuni attivisti di LUPE, compreso il direttore, sono pronti a impegnarsi in azioni dirette. Varie persone appartenenti a organizzazioni diverse hanno raccontato che i ponti che si formano a livello internazionale sono quelli dove l’azione si rivela più efficace. Ma ci vorranno più persone, molte di più di quelle si sono mobilitate fino adesso, specialmente perché quelle attive finora sono estenuate dalle lotte che portano avanti ormai da molto tempo.
Mentre eravamo lì, ogni giorno eravamo o noi a fare uno squillo per far sapere che stavamo bene o erano quelli che ci ospitavano a farlo. I genitori di uno dei miei amici in quel periodo si accertavano costantemente che non ci mancasse niente. Hanno nutrito la nostra fiducia nel popolo e nella liberazione, per la quale dobbiamo continuare a lottare.
Quello che ho visto nel Texas del sud è stato soprattutto il dolore e la normalizzazione della violenza di stato.
Gli Stati Uniti sono in guerra contro i popoli del Sud globale. Una guerra senza quartiere. Le politiche neoliberali, le conseguenze del surriscaldamento globale e la distruzione politica e militare diretta contro le forze politiche che combattono in difesa del popolo, come pure per resistere al capitalismo hanno prodotto un ambiente sociale talmente mortifero che la gente preferisce affrontare gli abusi che sono consapevoli di dover subire andando al nord piuttosto che trovare modi di sopravvivere nei loro paesi repressi e sfruttati. Sono convinto che ormai nessuno creda più che gli Stati Uniti siano il Paese della Cuccagna (se mai l’abbiano creduto). Semplicemente la gente vuole evitare che gli si spari addosso. La violenza imperialista non conosce frontiere e lo stesso deve essere per la nostra resistenza. Deve essere internazionale e avere la chiarezza politica sull’intera contraddizione tra gli oppressori globali e gli oppressi globali
Per gentile concessione dell’autore, ripreso dal giornale El Tecolote del 13 luglio 2018.
Tongo Eisen-Martin vive a San Francisco è attualmente uno tra i più acclamati giovani poeti afroamericani. La sua raccolta più recente heaven is all goodbyes pubblicata da City Lights nel 2017 ha ricevuto il prestigioso Griffin Poetry Prize per il 2018. La sua prima raccolta someone’s dead already (2015) è stata nominata per il premio California Book Award, e sue poesie sono state pubblicate in Harper’s magazine. E’ anche attivista per la giustizia sociale ed educatore ed ha insegnato in carcere dalla prigione di Rikers Island a New York alle carceri californiane. Ha insegnato all’Institute for Research in African American Studies alla Columbia University e ha elaborato “We Charge Genocide Again” tutto un percorso di studio inerente alle uccisioni extragiudiziarie di neri negli Stati Uniti utilizzato in numeroso scuole nel territorio nazionale statunitense.