Black Mediterranean o la geografia razziale del Mediterraneo africano (Timothy Raeymaekers)

cavallucciomarino

 

Black Mediterranean – o la geografia razziale del Mediterraneo africano

 

Di recente il crocevia culturale sulle sponde del mar Mediterraneo si sta dotando di una nuova terminologia per descrivere gli ultimi sviluppi al suo interno. A spingere questa manifestazione linguistica c’è da un lato la prossimità e l’ibridazione crescente tra culture europee e africane nella musica, nel cinema e nella letteratura nella zona del Mediterraneo e dall’altro certe esperienze di lotta antirazzista e anticapitalista. Dai margini in cui si trovano, tutti questi fattori si rivelano come nodo importante nella realizzazione di una nuova soggettività politica diasporica. In una serie di post sul mio blog Liminal Geographies ho iniziato a descrivere questo crocevia denominandolo Black Mediterranean, o Mediterraneo nero. Le seguenti riflessioni costituiscono un tentativo di collocare questa zona di confine sia nella geografia della subordinazione razziale che gli africani neri in Europa, e particolarmente in Italia, continuano a subire; e sia nell’arena delle mobilitazioni dei migranti contro lo sfruttamento e per una liberazione identitaria.

 

Almeno in parte il termine Black Mediterranean deve la sua ispirazione al concetto di Black Atlantic di Paul Gilroy. Nel suo famoso omonimo libro del 1983 l’autore nota che il suo interesse per l’Atlantico come sistema culturale e politico è stato ispirato soprattutto dalla matrice socio-economica della schiavitù afro-americana.

 

Gilroy prende nota di una importante trasfigurazione dell’espressione culturale nera nelle piantagioni dell’epoca schiavista che comincia con il rifiuto di base di accettare il politico come sfera autonoma. Il desiderio fondamentale di una controcultura nera implica “l’invenzione e la realizzazione di nuove modalità di amicizia, felicità e solidarietà che conseguono al superamento dell’oppressione razziale sulla quale hanno fatto affidamento la modernità e il suo paradosso di razionale progresso occidentale, come eccesso di barbarismo”, scrive lo studioso (pp.37-8). Mentre da un lato la piantagione rappresentava una forma di morte sociale (era “il capitalismo messo a nudo,” scrive Orlando Pattern) nel contempo la coscienza stessa dell’oppressione serviva anche a far considerare la violenza causa necessaria dell’emancipazione nera e della protesta aperta.

 

Le similarità e le differenze rispetto a questa esperienza storica fondamentale della schiavitù afroamericana mi ispirano a lanciare il termine Black Mediterranean come nodo di riflessione più ampia sulla possibilità di una ‘altermodernità’, o la modernità come campo conteso ed eterogeneo – similare a quella che Sandro Mezzadra lanciava nel 2011 in Postcolonial Studies.

 

Da un lato condivido con Gilroy il senso onnicomprensivo di rottura catastrofica che caratterizza le vite degli africani neri in Europa e particolarmente in Italia in questi giorni – ma simultaneamente metto l’accento sulle esperienze del “middle passage” afroamericano delineate sopra. In sintonia con Gilroy vorrei esplorare la temporalità diasporica che cerca di comprendere la controcultura africana nera negli interstizi dello sviluppo moderno del capitalismo. D’altro canto, però, vorrei collocare queste espressioni culturali nere contemporanee nell’Europa meridionale all’interno del contesto di una lotta più ampia per la legittimità politica. Ispirato al lavoro dello studioso camerunese Achille Mbembe sul ‘governo privato indiretto’, e più specificamente sulla sua osservazione che quando lo stato – il grande ‘ghostwriter’ della nostra vita – perde la sua capacità di regolare e di arbitrare i conflitti che sorgono nella sfera pubblica, la sua crisi di legittimità allude anche a lotte più ampie “che hanno come finalità quella di stabilire nuove forme di dominio legittimo come formule graduali di ristrutturazione di un’autorità costruita su altre fondamenta” (2002:76).

 

Questo mio approccio devia leggermente dalla lettura del Black Mediterranean proposta da Alessandra di Maio e da altri (vedi per esempio la serie di convegni intitolati Black Italia che sono stati organizzati a Villa La Pietra della New York University nel 2014 e 2015). In uno dei suoi interventi, la studiosa italiana afferma che “il termine si focalizza sulla prossimità che esiste, ed è sempre esistita, tra l’Italia e l’Africa, separate (…) ma anche unite dal Mediterraneo (…) e che è documentata nelle leggende, nei miti, nella storia, perfino nelle tradizioni culinarie, nelle arti visive e nella religione.” Citando vari testi critici recenti, come ad esempio, la trilogia africana del regista Andrea Segre (A sud di Lampedusa, 2006, Come un uomo sulla terra, 2008, Sangue verde, 2011) e 18 Ius Soli del regista ghanese-italiano Fred Kwornu, la di Maio pone l’accento sul crescente scambio tra Africa e Italia che scaturisce dal boom della migrazione e che contraddistingue l’identità culturale non solo italiana ma anche quella di altri paesi del Mediterrraneo. In un contributo per la rivista Social Identities, Esther Sanchez Pardo, per esempio, scrive: “La Spagna, paese storicamente omogeneo e di emigrazione si sta trasformando in un luogo di interazione multiculturale in quanto diventata destinazione di diverse diaspore, molte delle quali con i propri retaggi di colonialismo e razzismo”.

 

Di Maio e Sanchez Pardo fanno parte di una fiorente letteratura postcoloniale sulle rive settentrionali del Mediterraneo, che cerca di capire questa nuova coscienza ‘Afropean’ che si muove nella zone di confine tra memorie coloniali e nuove lotte post-coloniali. Effettivamente, come scrive Anna Frabetti, si nota una netta evoluzione tra la letteratura diasporica africana dei primi anni 1990 –con titoli come Io venditore di elefanti, di Pap Khouma, Immigrato di Saleh Methani, e La promessa di Hamadi di Moussa Ba, che tipicamente narrano l’esperienza postcoloniale a un pubblico di italiani e scrivendole con l’aiuto di italiani– e le sempre più coscienti (auto-) biografie degli inizi del 21esimo secolo. Libri come Regina di fiori e perle, di Gabriella Ghermandi, pubblicato nel 2007 (che offre la reinterpretazione dell’autrice della lotta coloniale etiope) e Timira (la biografia della figlia di un generale fascista italiano e di una madre somala, scritta dal figlio Antar Mohamed Marincola), e il romanzo Il comandante del fiume, scritto da Ubah Cristina Ali Farah, rappresentano in maniera più attiva le esperienze personali degli autori nel contesto della coesistenza problematica del paese con le sue ex colonie, e confrontandosi con i lettori italiani cercano di uscire dal punto di vista marginale e subalterno[1].

 

Dopo la letteratura postcoloniale un’altra sorprendente evoluzione è stata la nascita di un’industria del film africano su suolo italiano. Dal momento in cui i registi nigeriani di Nollywood hanno iniziato a essere riconosciuti dall’altra parte del Mediterraneo, hanno fatto da apripista con alcune produzioni degne di nota, scrive Alessandro Jedlowski nel volume da lui curato sull’Italia postcoloniale. Alcune di tali produzioni quali Italian runs, si riducono semplicemente a menzionare l’esperienza di migranti nigeriani in Italia e sono filmati in Nigeria. Ma con la svolta geografica cambiano anche le modalità del racconto dei film Nollywoodiani basati in Italia. Akpegi Boys per esempio, appartiene ai tipici gangster movies di Nollywood, con personaggi violenti che combattono per mantenere il proprio territorio. Questi film continuano a fare riferimento ai meccanismi tipici del genere, come le love story, le soap opera e la Magia nera. In contrapposizione, il film Blinded Devil è stato citato come esempio di “guerrilla cinema” per il suo realismo sociale e impegno. Il cast misto comprende importanti attori italiani come Pif (che ha recitato nel film La mafia uccide solo d’estate ed è ex giornalista di Le Iene) e Vincent Omoigui, il co-fondatore di GVK productions. Andando oltre agli obiettivi di un semplice giallo, Blinded Devil analizza come le politiche di immigrazione italiane effettivamente costruiscono l’illegalità e affronta le modalità spesso di sfida con cui i criminali nigeriani cercano di piegare a proprio favore questi regolamenti discriminatori. A questo riguardo, Jedlkowski scrive che è interessante notare come l’ emergente industria dei film Nollywoodiani in Italia in realtà fornisca una prospettiva davvero originale rispetto ai punti di vista dominanti in Italia sulla marginalità e sull’esotismo, in quanto l’Italia stessa in questi film occupa una posizione marginale rispetto al settore delle pellicole di Nollywood. In seguito all’influenza afroamericana a Napoli dopo la seconda guerra mondiale, la città è diventata il centro della scena musicale e filmica Afro-Mediterranea. Il regista Fred Kuworno, attualmente impegnato nella produzione di un documentario dal titolo Blaxploitation sulla presenza nera nella tradizione filmica italiana, racconta anche altri esempi, meno conosciuti, del cinema black  negli anni del dopoguerra in Italia.

 

Infine, la presenza africana nel Mediterraneo europeo si nota sempre in maniera crescente nella musica. A parte Pino Daniele, che si descriveva “nero a metà” per la grande influenza esercitata dalla musica afroamericana sulla sua produzione, Enzo Avitabile, che ha suonato in molti gruppi africani come Africa Bambaata e Mori Kante, uno dei musicisti che ha più spesso accompagnato Pino Daniele è stato James (‘giamicello’) Senese. Nato nel 1944, figlio di un soldato statunitense nero e di una giovane napoletana, come Pino, anche James era cresciuto nel Rione Sanità di Napoli, cercandosi un equilibrio in una società in cui lo stato era praticamente assente, e la micro-società multiculturale era strangolata da un’abietta povertà e dalla emarginazione urbana, come spiega James in una delle sue poche interviste. Fermandoci ancora a Napoli non si può dimenticare l’enorme ispirazione di Raiz, la cui band Almanegretta non soltanto ha introdotto il club cross-over nella scena musicale italiana (erano una delle poche band che ha suonato insieme a Tricky’s Massive Attack) ma ha anche esercitato una grande influenza sui gruppi rap italiani. Un’altra tendenza che costituisce la fusione della musica tradizionale del sud Italia con i ritmi e gli strumenti africani (principalmente quelli dell’Africa occidentale) è rappresentata da Rocco de Rosa, che ha prodotto diversi CD combinando queste diverse tradizioni musicali (compresa una collaborazione di lungo corso con Martin Kongo). Organizzatore su base annuale di un festival a Castiadas in Sardegna, egli invita i musicisti dell’Africa occidentale a condividere e unire i propri talenti (nel 2014 scorso per esempio è stato invitato il gruppo Chadal, una band sardo-senegalese). Anche grazie a incontri e agli sperimenti di cross over diffusi nel sud Italia, la scena culturale di quella parte del paese si sta rapidamente trasformando in un vivace incontro tra tradizioni culturali situate sulle sponde nord e a sud del Mediterraneo.

 

Soggettività emergente

 

Queste espressioni –letterarie, cinematografiche, musicali – si intrecciano però a una forte presa di coscienza da parte di certi esponenti delle diaspore africane in Italia, che, come scrive Salvatore Palidda nel suo libro La criminalizzazione razziale dei migranti nel 21 secolo,per gli ultimi 20 anni sono state all’avanguardia, come bersaglio, della discriminazione razziale in Europa: “Indubbiamente il paese che è avanzato maggiormente sulla traiettoria neoconservatrice, l’Italia ha seguito e riproduce, ormai da 20 anni, la trasformazione dei migranti in clandestini, sia come formidabile risorsa per l’economia del paese, sia come capro espiatorio di grande valore per promuovere l’agenda razzista del Crime Deal della destra, con il suo corollario di sindaci-sceriffo sia di destra che di sinistra e degli homini novi delle cosiddette Seconda e Terza Repubblica (…) L’Italia è diventata il primo paese europeo in guerra contro rifugiati e migranti.”

 

Dalla pubblicazione nel 1977 del libro States of Grace, etnografia dei migranti senegalesi a Torino, di Donald Carter, quello che è stato considerato il problema principale è il rapporto problematico, perfino schizofrenico, con i migranti dell’Africa subsahariana. Casi emblematici, come gli insulti continui contro Cécile Kyenge, che nel periodo in cui è stata ministro per l’Integrazione è stata paragonata da alcuni esponenti del partito populista Lega Nord ad un babbuino ed è stata perfino oggetto di incitamenti allo stupro, sono indici, secondo alcuni studiosi,  di un certo ‘razzismo democratico’, in quanto tali aggressioni rispecchierebbero atteggiamenti diffusi e implicitamente razzisti ben radicati nel contesto politico italiano.

 

D’altronde però, è chiaro che non solo gli italiani a riprodurre o a resistere a questo modello culturale. In un suo post Pina Piccolo nota che gli africani subsahariani sono stati frequentemente in prima linea nell’organizzazione di proteste collettive contro regimi lavorativi di sfruttamento nelle campagne e nelle industrie italiane. Tale protagonismo si è espresso a largo raggio, sia che si tratti di denunce contro i lavoratori sfruttati nel settore del riciclaggio dei rifiuti, come è avvenuto nella città di Imola, sia nell’invenzione di forme nuove di resistenza, come la spettacolareprotesta contro la fabbrica Carlo Erba a Brescia, durante la quale diversi africani si sono incatenati per protesta nell’abitacolo di una gru, come spiega Vittorio Longhi nel libro Immigrant War. Tra gli episodi che hanno suscitato maggior clamore, anche le manifestazioni collettive di Rosarno (Calabria) e di Nardò (Puglia) del 2009-2011, in cui migliaia di lavoratori africani sono scesi in strada sfidando lo sfruttamento sistematico che subivano da parte della criminalità organizzata e della popolazione italiana. Aldilà delle trascurabili conseguenze di tali proteste in termini di legislazione contro la mafia e il lavoro ‘nero’ – che finora hanno avuto scarso impatto nelle campagne – queste lotte sono state importanti per la presa di coscienza da parte degli africani neri del fatto che la loro presenza è indispensabile al mantenimento dell’economia di welfare dell’Italia, e di conseguenza, dell’Europa (vedi ad esempio il libro Ama il tuo sogno, sull’organizzazione delle proteste collettive scritto dal camerunese Yvan Sagnet che si è in seguito affermato come sindacalista). Se questo significhi, come sostiene Antonello Mangano, che Gli africani salveranno Rosarno, e forse l’Italia rimane ancora da vedersi. Il fatto è che gli africani neri occupano un ruolo preponderante nell’organizzazione di proteste collettive in settori che finora erano stati considerati periferici alle tradizionali lotte operaie nel paese, più precisamente il settore della logistica e dell’agricoltura ma che in maniera crescente si situano in un nodo centrale nella lotta anticapitalista del 21 secolo (per maggiori informazioni vedere i numeri di gennaio 2015 di South Atlantic Quarterly con gli eccellenti contributi di Maurilio Pirone e di Domenico Perrotta). Inoltre è proprio dagli stessi margini in cui si è abituata a muoversi una nuova generazione di africani neri in Italia che spesso vengono organizzate le lotte,  spesso  a causa dell’indietreggiamento sempre più evidente dello stato nazionale in termini di welfare e garanzia dei diritti.

 

Prendiamo ad esempio Ahmed, un uomo somalo che incontrai l’estate scorsa a Bologna in un palazzo occupato da  alcuni mesi  da ASIA-USB. L’edificio, che un tempo era stato sede di uno studio dentistico, all’epoca ospitava da 100 a 120 persone, quasi tutte provenienti dal Corno D’Africa. Insieme ad altri sindacati di base, l’ASIA-USB è una delle poche organizzazioni che sono accorse a difendere i migranti in Italia costretti ad arrangiarsi da soli in un quadro istituzionale caratterizzato da negligenza sistematica. Dopo aver ricevuto dal governo italiano un permesso di soggiorno temporaneo nel 2009, Ahmed ha tentato varie volte di lasciare l’Italia e di fuggire verso la Svezia, la Finlandia, i Paesi Bassi e la Norvegia proprio per quel motivo. Dopo ogni tentativo però Ahmed veniva sempre rimandato in Italia in seguito all’esame delle impronte digitali (i paesi europei condividono i dati riguardanti migranti in arrivo da un database centralizzato chiamato EURODAC). Ahmed ha viaggiato per varie strutture ufficiali e non ufficiali in lungo e in largo per l’Italia. Per un po’ è rimasto nella caserma Francesco La Marmora di Torino, che era stata ristrutturata per ospitare migranti durante l’emergenza Libia. E’ vissuto in diverse strutture occupate, compresa quella di via Slapater a Firenze – conosciuta anche con il nome di “Piccola Mogadishu” – , per la provenienza dal Corno d’Africa della maggior parte degli occupanti. Come la maggioranza dei suoi compagni rifugiati africani, ha lavorato in nero in diversi lavori, compreso come bracciante nei campi vicino Torino, e come lavoratore temporaneo nella logistica.

 

Per certi versi il viaggio di Ahmed ricorda il lavoro di Heather Merrill sugli spazi neri (vedi l’articolo in ACME in una raccolta che ho curato): i rifugi, i centri di detenzione, i palazzi inagibili e altri siti che, pur facendo parte delle società occidentali moderne e delle economie che le sostengono, rappresentano quelli che, in virtù del loro status di facenti domanda d’asilo e per l’associazione ai territori africani sono resi spazi non cittadini. I migranti neri africani come Ahmed, che sono stati espulsi dallo status ufficiale di rifugiato, frequentemente lavorano nei settori agricoli e della logistica organizzati secondo strutture di caporalato per soddisfare esigenze di consegne just in time. La crisi economica e le esigenze neoliberiste sono servite da pretesto per disintegrare i diritti storici del lavoro iscritti in una sistema di cooperative e sindacati. Le multinazionali e le aziende internazionali di logistica come TNT e SDA adesso preferiscono subappaltare il lavoro a catene di entità economiche spesso oscure difficili da tracciare. Come un sistema di scatole cinesi, le imprese più piccole sono in grado di soddisfare le esigenze di manodopera in perenne fluttuazione delle imprese transnazionali di logistica sia nel nord che nel sud del paese.

 

Memorie spaziali

 

Allo stesso tempo, questa esperienza di viaggi e ritorni attraverso i confini Afroeuropei, attraverso centri di asilo improvvisati, insediamenti temporanei e lavori precari “illegali” suggerisce anche l’importanza di specificare la geografia dello sfruttamento subita dai migranti. Concretamente,  è necessaria una riflessione più ampia sulla costruzione spaziale dell’illegalità, cioè la questione di come le distinzioni tra cittadini legali e “fuorilegge” illegali si iscriva consapevolmente nei retaggi di subordinazione razziale ed imperialismo che caratterizzano tali invenzioni geografiche (vedi ad esempio questo splendido video documento di Alison Mountz https://vimeo.com/54823509). Una sosta importante nel viaggio di Ahmed, per esempio, è costituita dal suo soggiorno nella caserma Alessandro la Marmora a Torino. Situata nel centro, su una collina che guarda sul fiume Po, è un’ironia della storia che questa caserma sia stata costruita a fine Ottocento, durante la prima presenza coloniale italiana nel Corno d’Africa, nel periodo in cui gli ufficiali dell’esercito italiano concludevano i loro accordi con i sultanati somali. Durante la seconda guerra mondiale la caserma fu utilizzata come prigione, luogo di interrogatorio, tortura e uccisione degli oppositori politici del regime fascista, che comunque continuava a combattere la sua guerra sempre nel Corno d’Africa.

In un interessantissimo video-documentario intitolato “Stanze”, Gianluca e Massimiliano de Serio rievocano questo ricordo storico con la collaborazione della scrittrice e attrice italo-somala Suad Omar, facendo un consapevole uso delle voci di migranti somali in quel momento sfrattati da quella stessa fatiscente struttura militare. Nel modo più sentito dai protagonisti e facendo uso di una particolare tradizione poetica somala, quella della catena poetica, i soggetti del film di de Serio prendono in mano le redini della loro storia e di quella dell’Italia rielaborando attivamente nel contempo l’esperienza di sradicamento dal proprio paese di origine attraverso lo strumento della cultura orale e della poesia (vedi https://vimeo.com/30915050, un brano più lungo del film con scene girate dall’alto).

 

L’esperienza di questi migranti africani riesce in qualche misura a mettere al centro del tessuto urbano italiano la propria marginalità postcoloniale. Piuttosto che una frontiera ordinata, una linea netta tra popolazioni incluse ed escluse attraverso una qualche forma di territorialità stigmatizzata, come la chiamerebbe Loic Wacquant, le varie località attraversate da Ahmed e i suoi compagni migranti africani costituiscono una geografia diffusa, una rete fluida di luoghi mobili e temporanei che aggiungono nuovi interessanti strati di distinzione spaziale a questa presenza postcoloniale nella penisola mediterranea. Via Slapater, Beretta (Bologna), La Peschiera (Torino) e altri edifici a Milano, Roma, Firenze fanno parte di una rete di palazzi occupati, una nuova topologia migrante che rimane connessa attraverso una miriade di organizzazioni culturali, sindacati e altre associazioni, in particolare i centri sociali concentrati nelle metropoli più grandi, che sono diffusi per tutto il paese. A Roma, ad esempio, i migranti hanno occupato interi palazzi, il più importante dei quali, Salaam Palace, possiede perfino un zona di reception e un servizio di pulizia; il Quattro Stelle nel quartiere Tor Sapienza ha al suo interno una scuola e un ristorante (illustrati in questo fantastico documentario web). A Torino l’ExMoi possiede il proprio sito web, una scuola e una sala conferenze che ospita regolarmente discussioni e interventi politici. A Bologna, la mappa e il sito web ZIC (Zero in Condotta) informano i migranti di nuove occupazioni o di quelle imminenti.

 

Solitamente questi nuovi insediamenti migranti sfidano non solo le dinamiche tradizionali del territorio per quanto riguarda la segregazione spaziale tra chi è incluso, cioè i cittadini degni di pieno riconoscimento e gli ‘abitanti’,  i residenti che non detengono esattamente gli stessi diritti di cittadinanza e di lavoro. I migranti sfidano anche le tradizionali divisioni città/campagna. La campagna italiana oggi è costellata di accampamenti improvvisati per lavoratori o ‘ghetti’, un termine che chiaramente rispecchia la rappresentazione ambigua della presenza africana nell’Europa del sud. Tali insediamenti ospitano talvolta fino a 500 persone in maniera semi-permanente (il ghetto di Rignano durante l’estate ne ospita fino a 2500) e devono anche soddisfare esigenze di approvvigionamento di cibo, bibite, vestiti etc. In genere, questi ‘ghetti’ fanno parte di un modello migratorio circolare che hanno come zona d’origine l’Africa sub-sahariana, formando un cerchio, ad esempio, tra Burkina Faso, Puglia ed Emilia Romagna (vedi gli interessanti studi etnografici di Benoit Hazard per la Puglia, e il lavoro di Bruno Riccio sulla confraternita Murid).

 

Focalizzandosi sugli studi della diaspora, alcuni autori ci mettono in guardia contro il pericolo di una concettualizzazione reificata della soggettività migrante, o per linee bipolari o per transnazionalismi. Mentre lo spazio transmigrante rimane sempre anche uno spazio di genere, è anche logico fare riferimento alla condizione liminale dei migranti, che si trovano tra vite e mondi africani ed europei, che danno vita a identità ibride e nuove generate dalle costanti contraddizioni economiche tra i due continenti. Tale condizione necessariamente chiama in gioco forme egemoniche di costruzione di appartenenza e dipendenza all’interno della comunità di origine come pure nella nazione di arrivo. È chiaro quindi che queste forme emergenti di auto-organizzazione – i ‘ghetti africani’ – stanno rapidamente riformulando il rapporto tra le politiche ufficiali dello stato e il settore non profit che, insieme ad associazioni varie, tentano di riempire il vuoto lasciato dalla stato. E’ evidente come questa contestazione politica debba fare in maniera crescente i conti con una identità emergente che non segue le tradizionali linee di opposizione della politica europea e italiana. Certamente sbilanciandoci, ma offrendoci potenzialmente anche un contesto di lotta nuova e sicuramente diversa.

 

di Timothy Raeymaekers, traduzione dall’inglese di Pina Piccolo. Il testo comprende ampi stralci dal sito “Liminal Geographies” http://www.timothyraeymaekers.net/ gestito da Timothy Raemaekers.  Potete trovare i 2 post alla base di questo scritto, ed integrati da osservazioni aggiuntive dello studioso,  in http://www.timothyraeymaekers.net/?s=The+Black+Mediterranean&submit=Search.     http://www.timothyraeymaekers.net/2015/01/the-racial-geography-of-the-black-mediterranean/

 

[1] Nel romanzo di Ali Farah c’è un brano particolarmente emotivo che, a mio parere, segnala in maniera efficace tale svolta. Racconta la storia di Yabar, il figlio di un leader militare somalo (o un ‘signore della guerra’ come si suol dire) e di sua madre, entrambi emigrati a Roma. Prima di trasferirsi a Londra, Yabar incontra Libaan (metafora per il Caliban di Shakespeare), un giovane somalo di seconda generazione, che ha perso la madre (non si sa come), mentre il padre, a sua volta, lo ha abbandonato in un collegio. “[Libaan] ha dimenticato tutto quello che sapeva, perfino come pronunciare il proprio nome,” scrive Ali Farah. Quindi Yabar aiuta Libaan a chiamare la madre. Prende il telefono, forma il numero di Mogadishu e fa finta di essere Libaan. Mentre parla con la madre di Libaan dice di vedere “… le parole in fila dentro la testa, le sento e le vedo tutte, scalciano e prendono forma come noci e io le spingo con la fronte e con gli occhi per farle passare. Le parole sono dure, mi tagliano la testa… allora ricomincio a spingere con forza ed ecco che sento le parole venirmi alla gola e tocco la loro forma con la lingua… e ripeto balbettando le sue parole “hooyo waa aniga” e le parole “mamma” “sono” e “io” suonano uguali nella nuova lingua… e io sono la madre e il figlio allo stesso tempo.” (Il comandante del fiume, p.106)

 

 

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Timothy Raeymaekers, è Lecturer nel Dipartimento di Geografia dell’Università di Zurigo. Ha conseguito un Master in Storia dall’Università di Ghent; un Master in Relazioni Internazionali dalla London School of Economics e il Ph.D in Scienze Politiche dall’Università di Ghent. E’ attualmente nel comitato scientifico della rivista Conflict, Security and Development (Kings College) e dell’ African Borderlands Research Network. Si interessa principalmente alle basi di violenza sottese al dominio politico come pure agli effetti che esse esercitano sugli spazi fisici. Da un iniziale interesse per la guerra tra le frontiere degli stati dell’Africa Centrale agli inizi del ventunesimo secolo, ha gradualmente ampliato la sua ricerca verso questioni che riguardano la dislocazione spaziale, il dominio e la territorialità sia nel sud globale che nel nord. Tra i suoi progetti attuali ci sono ricerche nell’Africa Centrale, particolarmente sull’industria mineraria e le migrazioni forzate, in Europa (sull’asilo, le frontiere e i lavoratori migranti). E’ a capo del gruppo di ricerca liminal geographies e cura il blog dallo stesso nome.

Foto in evidenza di Melina Piccolo.

Foto dell’autore a cura di Timothy Raeymeakers.

 

 

 

 

 

 

 

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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