Le lingue sono dispettose come capre
/ fanno impazzire pastori e accademie / …/
Mario Bellizzi, (“La lingua rizoma”)
Sorprende non poco (e in senso proficuo) leggere dei testi di poesia del XXI secolo – “La lingua rizoma”, scritti sia in lingua italiana che in lingua “arbëreshë” (albanese straniato), e trovarvi pure certe coincidenze significanti (corrispondenze enunciative) che hanno affinità di pensiero e di condensazione semantica con alcuni topoi (e tropos) della visione cinese del III e II a. C. (enunciati dialogici che si trovano in “Congiunzioni di eventi”, “Il classico taoista della perfetta virtù del vuoto”, Urra/Feltrinelli, 2014, pp.167-69). Come dire, a questo punto, che la produzione poetica di Mario Bellizzi ci pone qualche spunto di riflessione. Diciamo subito che il riferimento è quello che ci porta a parlare dei testi della raccolta “Lo specchio e l’ombra”. Le poesie pubblicate nel n. 14 de “La macchina sognante. Contenitore di scritture dal mondo” [1].
Il primo riguarda il fatto che la “versione” in lingua italiana e in arbëreshë ci pone davanti all’interrogativo di quale (fra le lingue) sia la lingua madre, considerato il fatto che una seconda lingua (quella in cui si traduce) si apprende a partire dalla materna (che è prioritaria e responsabile del modello di mondo che ognuno di noi si costruisce). Per di più, nel caso del nostro poeta, l’arbëreshë sarebbe una variabile dell’albanese standard e, come tale, crediamo, un altro punto di vista complessificato sui rapporti con le cose e gli altri. Un ulteriore passaggio traduttivo che, fra le altre cose, rafforza sia il concetto della poesia come linguaggio che sottrae forza omogeneizzante a quella standard, sia la convinzione che la traduzione oggi sia diventata un ponte indispensabile per comunicare con le alterità che fluttuano e migrano nella globalità (odierna) pluringuistica e polimorfa.
Il secondo è che le lingue e gli elementi che la individuano (come il clima che non ha barriere) si muovono come flussi carsici e in divenire. Una processualità di eventi che, ab ovo (fra i punti cardinali dello sferoide terrestre), ha caratterizzato la storia e gli incroci tra i modi di pensare, vivere ed essere delle comunità umane (non ultima la sfera occidentale e orientale). Cosa che, nonostante lingue e grammatiche diverse, ha permesso l’uso di stesse unità semiotiche per comunicare concetti, significati e senso.
Nel caso dei testi poetici di Bellizzi, per allacciarci al richiamo cinese di cui avanti (“Congiunzioni di eventi”, “Il classico taoista della perfetta virtù del vuoto”) poniamo l’attenzione sul portato materiale, metaforico e analogico che la parola “capra” riveste nei versi del Poeta Bellizzi.
Dal testo di Mario Bellizzi:
Le lingue sono dispettose come capre / fanno impazzire pastori e accademie / che si affannano a chiuderle nell’ovile del Vocabolario. / Invece io amo le parole latitanti del dogançe* / che oltrepassano le frontiere come clandestini /“Nasconditi, ragazzo, chè ti prendono i gendarmi!” / Con esse sogno simmetrie e linee di fuga / abissi e misteriosi abbracci fra genti. / Le lingue nei crocicchi della storia / generosamente si scambiano parole / senza violenza le incastonano / nella geografia del silenzio della notte. / Alle volte compiono attentati in una guerriglia / che lascia corpi e parole nelle aie, vicino i confini. / […]
Dal dialogo cinese:
Un vicino di Yang Zhu aveva perso una capra. Inviò tutti i suoi servitori a cercarla e chiese a Yang Zhu di prestargli alcuni dei suoi. Yang Zhu rise e gli disse: “Hai perso solo una capra, perché mandi tanta gente a cercarla?” Il vicino rispose: “Perché ci sono tante biforcazioni nei cammini.” Quando i cercatori tornarono, Yang Zhu chiese: “L’avete trovata?” “No, la capra è perduta”. “Come mai è perduta?” “Perché ci sono biforcazioni e biforcazioni nei cammini. […]
Un’immagine, la “capra”, che, secondo noi, metonimicamente, designa simbolicamente il concetto di “biforcazione”. Il termine che il nostro poeta usa per parlarci della lingua e della comunicazione plurivoca come moto processuale; i processi semiotici che, in uscita ed entrata lungo le vie dei canali discorsivi, entrando in collisione e correlazione termodinamica, rompono certe simmetrie semantiche e fanno nascere transizioni innovative (tener presente la teoria delle catastrofi di René Thom e di Henri Poicaré, in tal senso, esteticamente, potrebbe essere un ausilio?). Un quid transitivo comunque comune e tale da permettere percettivamente visibile e dicibile il divenire intrecciato/mescolato delle lingue, mentre (similmente) le loro vie rimangono instabili quanto imprevedibili, come i percorsi delle capre in cerca di sostentamento. Gli eventi linguistici cioè si intrecciano e si biforcano in sentieri variegati e significazioni sempre aperti (differenziali).
Come dire che non sussistono interpretazioni e significazioni uniformi, lì dove le dimensioni (misure) sono di diversa natura e livello, come le cose e i segni che le denotano e connotano. Nei crocicchi della storia – scrive il poeta Bellizzi –, come per la teoria delle catastrofi (René Thom), sorgono sia simmetrie che linee di fuga e misteriosi abbracci (biforcazioni nei cammini). Sono gli incontri e gli urti cioè che chiunque vive nelle relazioni con sé stesso, gli altri, l’ambiente e il mondo che lo fa mentre ne pre-figura la/e forma/e. La forma cioè che l’intellezione costruisce e conquista mediante le conoscenze e le azioni (sia contestuali quanto individualizzate) come insieme di parti che, contemporaneamente, nei concatenamenti di una lingua e dei suoi rapporti con gli altri elementi eterogenei e vitali coniugano simultaneità, successioni e ripetizioni con mutazioni stocastiche.
Colpisce – aggirandoci fra gli incroci di questi testi poetici di Mario Bellizzi – come il linguaggio e i suoi nomi, come il vento o i movimenti sismici, non siano ostaggio delle gabbie spazio-temporali standardizzate (identità fisse e irrigidite). Ci sono, infatti, stratificazioni lemmatiche che migrano in latitudine e longitudine in adeguate risonanze (vedremo avanti il testo “Il Sud e le forme degli eventi”); risonanze elettromagnetiche che coniugano sincronia testuale e diacronia socio-storica. Il testo poetico (discorso simbolico singolare), come scrive Frederick Jameson, è dentro un ambiente storico collettivo e, in esso, aperto a delle attese attraversate da antagonismi e conflitti che incrociano incontri e distanze. La scrittura poetica, diversamente detto, non ha geometrie e itinerari necessariamente lineari. Dalla lingua madre-matrice, le linee di fuga hanno una logica irriducibile ai modelli del calco (semmai lo schema è quello delle mappe dei punti disseminati; i punti che stanno al posto delle cose e le probabilità che le ombre proiettate e riflesse che irradiano senso come un attivo campo radioattivo dall’oscuro). Man mano che si dirada, infatti, l’ombra lascia posto alla luce, alla chiarezza e alle forme-contenuto connesse al contorno che si contrae e dilata divenendo altro. Una cosa infatti è la lingua come matrice (sistema di segni vuoto e di grande potenza), un’altra cosa sono la facoltà di linguaggio (la disponibilità che ogni individuo ha di usare in proprio la stessa lingua con i termini che essa propone) e l’ambiente dinamico (interno-esterno) degli “attrattori”, come onde gravitazionali ed elettromagnetiche che migrano e si mescolano innovando i rapporti tra le parti (i “tratti” – segni, sillabe, radici, desinenze, derivazioni, mutazioni, presupposizioni… – che compongono le parole, le proposizioni, le frasi, i discorsi, le espressioni …).
Le forze cioè che, cambiando morfologia (senza tuttavia perdere il nucleo semantico della lingua di provenienza) nella traduzione si incrociano e si sovrappongono lasciando così che le parole, lungo il percorso della scrittura, sconfinino le composizioni dietro-avanti nella geografia dei segni della ragione e delle ombre. Un intreccio che si riflette nello specchio come immagini ibride. I segni che hanno caratterizzato la lingua dei popoli nei luoghi e nei tempi del loro esser-ci (faremo un solo esempio: il bagaglio completo ci difetta!).
Sul versante della scrittura poetica di Mario Bellizzi schematicamente tocchiamo così un altro aspetto, la “traduzione” con i suoi possibili agganci filologici. In tal senso, e relativo alla lingua albanese, tipico è il caso del verbo “θáλλω”: «“θáλλω” (sono rigoglioso), modellato sul greco “θáλ” di “θáλλaσσa” (mare, umido, acqua), è verbo che (corsivo nostro) richiama però la stessa base semitica tal– che fu connessa con l’armeno e l’albanese dal (sorgere)»[2]. Il sorgere dal mare (e nel mare) che troviamo anche nella stessa poesia “Il Sud e le forme degli eventi”. Nello specifico il mare Mediterraneo e gli eventi delle migrazioni attuali e dei conflitti antagonistici socio-razziali.
Un secondo aspetto è la ri-configurazione degli eventi (quel che accade) entro i confini mobili e temporalizzati del sistema simbolico che prova a sperimentarsi con i bisogni della traduzione e dei bi-sogni ivi intenzionati. In una comunità qualsiasi, come in un individuo qualsiasi, cultura, lingua e parole non hanno, infatti, identità compatte. Ci si trova davanti a una com-posizione di forze eterogenee e limitate (ma ricombinabili). I loro limiti, infatti, si com-pongono realizzando rapporti, relazioni comunicative storico-temporali mobili e innovativi (la comunicazione gergale …); sì che – si può dire – che i soggetti (qualunque sia l’ambiente) si trovano sempre davanti a una lingua-paesaggio che è “traduzione” e inferenza complessa (passaggio di segni da una dimensione ad un’altra). Un paesaggio che l’uso delle nuove parole – offerte alla società da una comunicazione singolarizzata – implementa e modifica la cultura e le condotte individuali e sociali degli appartenenti. Una nuova mistura aperta che, pur conservando qualcosa del mondo precedente, rinnova la comunicazione intra-personale e inter-personale innescano nuove linee di soggettivazione e gemmazione di nuove attese all’orizzonte degli eventi (interni ed esterni). Un fare e dei passaggi che danno origine a connessi rapporti secondi e realtà quanto-qualitative di nuovo conio (uno specchio e delle forme riflesse, reale o metaforica la figura dell’oggetto, o idealizzata l’osservazione e l’attenzione analitica). È quello che accade nelle poesie della raccolta “Lo specchio e l’ombra” di Mario Bellizzi è una vera oscillazione di corpi e di rimandi in gioco. Qui, fermo lo stesso “tema”, espresso in lingua italiana e “arbëreshë”, grazie al rimescolamento dei tratti, l’identità originaria dell’oggetto, come rapporto dinamico tra cosa e immagine, non si perde se non che per ritrovarsi avanti. Si intensifica infatti di connotazioni sfaccettate, di qualità percettive ideo-simbolico-linguistiche rappresentative e sentite (sembra) alla stregua di un’esperienza mentale – un quasi Gedankenexperiment – che aspetta una verifica prismatica.
Un prisma che dà luce e spazio sia alle componenti soggettive che oggettive del rapporto con le cose e gli eventi di una storia non sempre predicativa. Una storia che così non si ossifica. Con la luce infatti viaggiano anche informazioni non sempre al netto delle distorsioni, anzi. Basterebbe pensare ai fotoni fossili – sintagma paradossale – che nei termini della teoria del Big Bang (o di altre teorie, come quella della cosmogenesi del non-equilibrio o della complessità biforcante) ci danno conoscenze sulla nascita dell’universo, sulle sue diramazioni simmetriche e non simmetriche, o sulle sue evoluzioni tradotte in forme simboliche variamente connotate e raccordate. Del resto non c’è lingua (formalizzata o meno che sia) che non sia traducibile, e che, non priva di logos e foniche risonanze (tradotti in segni e scrittura riposizionati), non decostruisca e si riterritorializzi cammin facendo. Partendo da quella dei movimenti mescolati sorge così una nuova lingua che, come una linea di fuga, via via pone in essere un nuovo mondo e modi che ne rivelano la ragione. Partendo da un primo punto/evento (dato o potenziale carico d’indeterminazioni e di informazioni), si arriva così a un secondo, un terzo… mondo (retificato) di cose, effetti, affetti, azioni, passioni, giudizi e attese insorgenti e pluribiforcanti.
La lingua – scrive Bellizzi – diviene “rizoma”. Si connette e riconnette dando da pensare (anche per individuare il valore semantico e funzionale delle parole che compongono un dato enunciato) sul come districarsi in mezzo alle concentrazioni e alle densità semantica messe in gioco dalle espressioni in uso. Nell’enunciato “La lingua rizoma” (ad esempio) non è indifferente capire se l’espressione tende più a dirci la ‘parole’ o la ‘langue’, o se il termine “rizoma” sia in veste di sostantivo o verbo. Sarà compito del lettore dare un senso o un altro alla equivocità e alla polisemia del dettato in versi. L’interpretazione dovrà scegliere nell’amalgama. Le direzioni (come le biforcazioni delle capre) non sono scontate (l’alogos non è assente!). Il movimento può essere legato alla posizione delle parole in assetto di “diafora”, o di inversione sintattica e trasgressione grammaticale. Valgono anche le posizioni fono-vocaliche, consonantiche e quelle dei rapporti di equivalenze fono-semantiche, i segni diacritici (specie nella versione arbëreshë), le connessioni e le inferenze, le lettere maiuscole e le parole emblematiche che ci informano sulla memoria culturale e storica dei testi della raccolta poetica di Mario Bellizzi che circolano fra le pagine web de “La macchina sognante- Contenitore di scrittura dal mondo”.
Non c’è stato di quiete (nella lingua) che non sia di moto, di articolazione sintagmatica e di vincoli condizionanti. I rapporti sono evolutivi. In ogni testo di poesia, ogni parola acquista una funzione mai scontata. L’assenza di punteggiatura, un vuoto, o degli sbalzi orbitali o l’incidenza di una lettura ritmico-tonale particolare possono mettere in moto meccanismi di significazione e risignificazione impermanenti. Un modo d’essere per cui non è accettabile standardizzare la divisione tra lingue maggiori e lingue minori, specie, come dice Gilles Deleuze, se “lingua minore” è quella in cui uno, pur straniero nella propria lingua, mina la lingua maggiore, il suo potere e i suoi stereotipi. Una lingua che sottrae potere alla lingua maggiore e dominante (non è un caso, come in sua nota ricorda lo stesso Bellizzi, che il suo “io poetico” ama «le parole latitanti del dogançe» (gergo inventato e atto a preservare i segreti della capacità di eludere i controlli dei gendarmi ai confini territoriali: “Nasconditi, ragazzo, chè ti prendono i gendarmi!”). Una linea di fuga che sminuisce il potere di controllo e di chiusura sia per ciò che pertiene i processi fra le cose che l’ordine simbolico che li rapporta differenziandoli.
Se il linguaggio è poi quello della poesia che, contraendo o dilatando il visibile-dicibile quanto l’invisibile figurato, mina i bordi delle costruzioni dei versi, come se fosse un calcolo differenziale-anomalo fra potenze di grandezza evanescente e di spinte lontane dai sistemi dell’equilibrio meccanico, la “minorità” è d’obbligo. In tal senso, fra le poesie di Bellizzi, ci piace il rimando (incrociato: lingua italiana e lingua arbëreshë) a “Il Sud e le forme degli eventi”). Un testo – si sintetizza – in cui la solita immagine stereotipata del Sud (immobilismo, o altre passività…) viene rovesciata. Allusi echi mitici e non mitici, lasciato libero corso alla poiesis delle vibranti funzioni psico-antropologico-sociologico-politico-culturali del passato e del presente, il poeta, scegliendo (sembra) un’epoché husserliana, fa parlare e agire il Sud sia con il neutro “si/se ne” (“… se ne sta placido al solo”), sia con l’impersonalità del pronome egli (“Egli agisce da solo”). Il pronome “egli”, crediamo, non è solo un articolo grammaticale. È un soggetto, potremmo dire una metafora (perché no!), che si premura di dirci quanto e quale sia il suo essere sociale, soggettivo e oggettivo, e che la sua epoché non va letta nei termini di una sospensione passiva ma nella direzione di un giudizio fenomenologico che valuta il momento opportuno per dare guerra ai pregiudizi di un “Sud” inerte. Il Sud è irriducibile agli slogan delle identità stereotipate. Qui l’identità è invece quella di un’intenzionalità trasformativa; un’identità cioè volta a lasciare le incertezze e ad usare le soglie e le ombre come un passaggio che porta ai tagli rivoluzionari; i momenti delle svolte come quelli che possono seguire a “una eclisse di luna”, o all’arsura dello “scirocco che brucia le rose”, o alla “rabbia”, o al “morso del tafano” (memoria socratica?) o alle “Tavole dell’Armonia” (memoria taletiana e anassagorea?) e alla giustizia di “Dike”. Dike (la giustizia) non è separata dal tempo (gli altri debbono sapere che “ lo sguardo del Sud / è capace di incenerire trame ed Arcolaio”). Nessuno sfugge alle “Moire” (Cloto fila la tela della vita; Làchesi governa le sorti; Atropo, l’inesorabile, infine taglia il filo e segna un altro tempo). Certo è che il lessico, che amoreggia (non nostalgicamente!) col mito, è lì a ricordarci che è vivo il senso di una tradizione che non rinuncia al tempo della “giustizia” e alla sua insopprimibile forza di rivendicazione e ribellione. Un risveglio che anima il tempo attivo e teso a lottare contro le colpe (memoria anassagorea?) delle diseguaglianze sociali e politiche (le disarmonie generati dai sistemi di classe), e nel contempo della duratività – il “mentre” – erosiva della “Realtà” (il modello in atto).
Mentre la Realtà si sgretola il Sud se ne sta placido al sole come le lucertole sulle colonne dei Templi di pietra adagiate a terra. Maestoso, contempla. Guarda e scrolla le spalle a chi vuol recintare il Mediterraneo.[…]Sono molte le forme degli eventi, altrettante le risoluzioni degli déi contro ogni nostra attesa; ciò in cui si credeva non s’avvera e un dio trova sempre la strada per l’impossibile.
Gli altri non sanno che lo sguardo del Sud
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Gjithëçka sfaret por si hardhël Jugu theket në diell mbi shtyllat të Tempujve(t) prej guri të shtrira për tokë. Jugu rri.Përgjon dhe rrudh 1 supet për kufijtë ç’duan të vendosin(jn) në Mesdhe.[…] Po ndryshojnë fytyrat e ngjarjeve,
Të tjerët s’e dinë se shikimi i Jugut
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Il Sud, per dirla con lo stesso poeta Mario Bellizi, ha una lingua che ‘rizoma’(nel senso di un verbo attivo e un movimento che non ha per modello la metafora dell’albero (il modello che gerarchizza e ideologicamente recinta gli spazi dei rapporti etici, sociali e politici rimanendo fisso). La storia, del Sud, ha ibridato e creolizzato lingue, forze di rotture e mescolamenti. Un flusso che ha mescolato, filtrato e curato una propria fisionomia di scarto e scatto. Ciò ha permesso la creazione e l’uso di nuove lingue (come nel caso dell’arbëreshë, la lingua dell’etnia albanese insediatasi nell’Italia meridionale nel XV secolo), e di nuove parole come “gjitonia” (comunità), o “dogançe” (parola d’ordine per sfuggire ai controlli). Del resto le discipline formalizzate sono posteriori all’uso in corso d’opera dei segni socializzati; un itinerario rispetto a cui (per inciso), analogicamente, prendendo in prestito Derrida o Foucault, il nuovo può essere il luogo di una “decostruzione”, o di una “eterotopia”. Direzioni e diramazioni, o biforcazioni che si voglia dire, la lingua dei poeti ha uno stato di quiete e moto inarrestabile e di ripetizione a spirale. Un movimento che lega futuro, presente e passato come una temporalità instabile e divenire nella contingenza della necessità degli eventi. In questo movimento le astrazioni sono vitali quanto le metafore, o le similitudini, etc. Nel caso di Mario Bellizzi (poeta), concludendo, piace ricordare l’immagine e l’intuizione della “capra” per dirci dell’instabilità, dell’imprevedibilità dei processi linguistici quanto della memoria culturale che vede gli esempi e le analogie ancorate al mondo orientale. Il Sud e il Mediterraneo sono un “ornitorinco”, l’animale che non rispetta la classificazione di genere e specie…
Un’immagine (metafora), quella della “capra”, che, fra mescolanza e filtro, il poeta usa per sottolineare ulteriormente il cammino pluri-biforcante o non-lineare delle lingue e dell’intreccio dei “tratti” specifici. I segni che, partendo dallo stesso terreno, coagulano nuove sintesi e creano nuove sentieri segno-linguistici. Sono le “capre” che fanno impazzire i custodi. Nel caso, dice Bellizzi, i pastori e custodi sono gli accademici; i sacerdoti del tempio immobile che curano la “purezza” di una lingua inesistente, o i bibliotecari di corte che classificano e fanno recinti per determinare poteri discriminanti ed escludenti. Altro è il segno dei poeti (non di corte) che, dal divenire delle lingue, imparano il conflitto disarmato, le chirurgie e gli innesti che vivono le contingenze rifiutando la “Realtà” – il modello dominante (Jacques Lacan direbbe che non è il “Reale”) –, il modello che chiude le esistenze entro gli steccati identitari dell’esclusione e del bando.
Antonino Contiliano
Marsala, dicembre 2021
[1] Mario Bellizzi, http://www.lamacchinasognante.com/da-lo-specchio-e-lombra-poesie-in-versione-bilingue-arberesh-e-italiano-di-mario-bellizzi-con-estratto-dallintroduzione-dellautore/
[2] Giovanni Semeraro, Talete, in L’infinito: un equivoco millenario–Le antiche civiltà del vicino Oriente e le origini del pensiero greco, Bruno Mondadori, Milano, 2001.
Antonino Contiliano è nato a Marsala nel 1942. Ha conseguito la laurea in Pedagogia presso l’Università di Palermo. Ha insegnato storia, filosofia, pedagogia e psicologia nei Licei e gli Istituti Magistrali. È stato preside di scuole medie superiori di primo grado. Redattore della rivista «Impegno 80» e del trimestrale «Spiragli», negli anni ’70 e ’80 ha fatto parte del movimento culturale, letterario e poetico dell’Antigruppo siciliano. Numerosi i saggi, anche a carattere filosofico, in riviste e pubblicazioni varie. Ha introdotto e curato anche numerosi volumi. Come poeta la sua presenza è accolta in numerose antologie. Suoi testi sono stati tradotti in lingua croata, greca, francese, inglese, macedone, spagnola, catalana e rumena. Fra le sue ultime opere di poesia si ricordano: ‘El Motell Blues (2007), Tempo spaginato. Chiasmo (2007), Il tempo del poeta (2009), Ero(S)diade. La binaria de la siento (2010), We are winning wing (2012), L’ora zero (2014) e la sua ultima opera Futuro Eretico (Fermenti 2016).
Immagine di copertina: Foto di Mario Bellizzi.