Berlino a sprazzi – Frammenti di vita quotidiana di una italiana divergente, di Irene De Matteis

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Berlino richiama ogni giorno

alla scelta.

Da che parte stai?

Accenderai quella sigaretta?

Prendi il tram o la metro?

Andrai a piedi o in bicicletta?

E poi lungo il fiume

che scorre senza fretta

un respiro celeste

pure sotto il cielo tetro

 

 

 

Tutto è iniziato dal desiderio di apprendere una nuova lingua. Il tedesco. Adesso vivo qui, a Berlino, dove sono concentrati la maggior parte dei casi del Job Center dell’intera Germania. Anch’io sono diventata un loro caso. Sono un numero che compare sui loro computer e in 3 parole hanno definito quello che so fare.

Sala d’attesa. Il Job Center finanzia tutto: affitti, corsi di lingua, trasporti, cultura, tutto tranne la corrente. Dev’essere per questo che la signorina si è arrabbiata molto quando ha visto un telefono attaccato alla presa di corrente. Era il mio. L’indice indicava l’oggetto della colpa e ha detto qualcosa di categorico che concludeva in  – raus! -, ovvero, fuori! fuori il telefono dalla corrente, non è permesso.

Gli altri in attesa di lavoro ridacchiano di nascosto come si fa in classe quando un compagno sfida l’autorità della professoressa. È partita la giostra per me. Questo centro del lavoro ha lo scopo di farti trovare il tuo lavoro. Gli altri disoccupati sospirano molto ed hanno espressioni che vanno dall’incazzato al rassegnato.

Un’altra signorina impiegata fa la sua comparsa, bella, dritta, pulita, pettinatissima e profumata, annuncia un nome, poi guarda con un sorrisetto sadico chiunque si trovi nell’attesa del lavoro, pare dire – non è ancora il tuo turno – ed anche  – ma toccherà anche a te -.

Questo ha prodotto i seguenti risultati: un ragazzo sospira e impreca in una lingua che sicuramente non è tedesco; una signora fruga nella sua borsa, ah ecco, si è messa a mangiare nervosamente; un signore si sistema il cappello e abbassa la testa, io continuo a scrivere. Mi hanno consigliato di mostrare la faccia più inespressiva che ho per giocare a questo gioco. Ascoltare, annuire und so weiter, e così via. Nella sala di attesa ti colpisce un senso di sonnolenza, tutto concorre a questo; la luce, gli odori, i colori, dev’essere tutto studiato apposta e mi chiedo: con tutta questa stanchezza come faremo poi a trovare un lavoro? Il ragazzo che sospira ha definitivamente l’aria incazzata. Ho imparato a guardare attraverso le persone, perché fissare le persone può non essere carino e creare degli inconvenienti, così mi concentro su un punto altrove e il mio sguardo li attraversa: loro si rilassano perché non mostro di guardarli ed io soddisfo la mia curiosità per il genere umano. Non posso che essere riconoscente al Job Center per soddisfare queste mie curiosità.

 

 

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ll mio corpo adesso quando provo a parlare tedesco non sembra più quello di una bambina timida che deve presentarsi davanti ad una platea. Adesso comincio a divertirmi, il tedesco non lo parlo bene ma ho a disposizione un corpo rilassato e un vocabolario base per provare a comunicare. E la comunicazione avviene.  Mi piace buttarmi nella fossa tra i berlinesi, o berlinesi adottivi, in zone non gentrificate, tra  tedeschi che non fanno sfoggio della conoscenza dell’inglese alla prima difficoltà e  accolgono la mia curiosità linguistica.

La parola Landschaft, letteralmente “paesaggio” ha aperto un territorio di ricerca che è arrivata ad una sua momentanea conclusione.

Spiegavo, con quel mio vocabolario base, a quei tedeschi non gentrificati, che per me che sono solita frequentare jam sessions Jazz, era insolito trovarmi ad una jam rock e che è bello cambiare Landschaft.

No! Assolutamente no! La parola Landschaft prevede che ci siano degli elementi naturali, almeno un albero, un cespuglietto o che so io, una diga. Ho provato a spiegare che in Italiano esiste un significato primo della parola, ma è previsto un uso giocoso, traslato, esteso, metaforico.

Poi  il giorno dopo incontro uno yogista che afferma invece la possibilità di un utilizzo metaforico del tedesco  – senz’altro posso dire “dein Korps ist eine schöne Landschaft”, ovvero “il tuo corpo è un bel paesaggio”, connubiando discorsi linguistici e il buttare l’amo, cosa che calzava benissimo visto che ci trovavamo in un paesaggio acquatico.

L’equilibrio l’ho raggiunto quando ho incontrato Rudolf, un ragazzo inglese che ha studiato programmazione informatica come autodidatta in Cambogia e che adesso parla un ottimo tedesco – l’utilizzo metaforico della lingua tedesca è contemplato, ma solo se dimostri prima di conoscere bene il tedesco, altrimenti penseranno che sei fuori di testa-.

Questo mi ha fatto molto ridere, e mi è sembrato l’anello mancante tra le varie teorie.

 

 

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Un ritratto alla città. Da tre giorni l’ordinarietà del tempo viene interrotta da scoppi improvvisi. Bombette agli incroci pedonali, razzi roteanti puntati dritti al cielo dalla finestra di un quarto piano, girandole all’ingresso della metropolitana. Sono i Feurwerke, letteralmente fuoco+opere, come di consueto a porre l’accento sull’efficienza.  Non gli basta sparare due o tre colpi alla mezzanotte del 31 dicembre, qua c’è un gran bisogno di esplodere, di sfuggire all’ordinarietà. Con il permesso delle forze dell’ordine. I Feurwerke li puoi acquistare ovunque, dal grande supermercato al negozio che per 10 giorni si trasforma in armeria, al piccolo trova tutto, persino nei biomarkt puoi trovare Feurwerke equi e solidali che esplodono nel rispetto dell’ambiente.

Un ritratto alla strada; una strada trafficata. Macchine, tram, autobus, camion, persone. Al semaforo rosso tutti i pedoni stanno in fila, finché qualcuno non decide di attraversare la strada dopo coscienziosa osservazione dell’assenza di veicoli. Allora tutti si muovono, quasi tutti. Qualcuno rimane fermo: un po’ timoroso, un po’ invidioso, un po’ borbottando contro i ribelli, un po’ distratto. Sono ferma ad un tavolino sulla Warschauerstraße. Non so se il nome abbia un qualche senso, ai miei orecchi suona come uno scrosciare d’acqua. Un ragazzo ha imbucato una lettera davanti ai miei occhi. Questa cassetta della posta che sta davanti a me da almeno mezz’ora non l’avevo notata finché qualcuno non l’ha utilizzata. Il ragazzo ha imbucato la sua posta come si getta una cartaccia nel cestino, una cartaccia per cui non si ferma il proprio passo.

I passi che osservo sono tutti affrettati, sembrano molto sicuri della propria destinazione.  Eppure io che camminavo come loro per questo tragitto sarò dovuta sembrare incerta prima di decidere di fermarmi a questo tavolino. Nella loro fretta non riescono a non guardarmi; forse qualcuno con carta e penna fermo in un punto in una strada di passaggio suscita curiosità. Le persone che passano qui, di cui ho perso il conto, suscitano la mia curiosità. Un ragazzo di colore oltre a guardarmi mi sorride ed il tempo per un attimo rallenta.

Riprendo a camminare senza una meta precisa e parlo a lungo con Caterina. La sua voce risuona dall’auricolare per tutto il mio corpo; lei sta concludendo i suoi studi in Storia dell’Arte là in Italia, ed io mi auguro che non debba mettere l’arte da parte; perché Caterina sembra straniera nella propria terra, è piena di fiducia e non si lamenta mai. Rivela sempre grandi verità senza saperlo e per questo colpiscono di più. Continua a parlare ed ignora che l’interlocutore è stato folgorato dalle sue parole.  Alla fine le dico che adesso che ascolto una lingua che non è la mia lingua, ho iniziato ad utilizzare per la prima volta proverbi e modi di dire italiani, così mi riapproprio della mia lingua. Ho compreso il pensiero di Wittgenstein  – il filosofo deve guarire molte malattie della mente prima di abbracciare il senso comune -;. Forse, lontano dall’Italia, sto guarendo.

 

 

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Al party di Romy c’era molto cibo, molto alcool, molti invitati. Io, Marco e Franky eravamo gli unici italiani. Franky, con autoironia e molta consapevolezza sostiene che gli italiani che si trasferiscono a Berlino abbiano un principio di autolesionismo; io dal mio citofono aggiungo un prurito d’idealismo. Mentre sento fisicamente l’effetto depressivo di una terra con poco sole vedo il seme che può trasformare quel principio, cogliendo le opportunità che lo stare qui genera.

Ho colto l’occasione di allenare il mio tedesco, ho attraversato la strada che mi separa da questa lingua emotivamente ansante, con un po’ di vino mi sono buttata nella comunicazione, valorizzando al massimo quella non verbale.

E alla fine, mentre gli invitati stavano scemando, mi sono trovata in solitaria ad insaponare e risciacquare stoviglie accumulate, catapultandomi in ricordi che sembrano appartenere a un’altra vita. Donne che si trovano in cucina, si confrontano col pretesto di mettere in ordine, col pretesto di essere donne felici di non ingaggiare lotte per la parità dei sessi… l’amabile contatto di una mano sotto l’acqua, l’organizzazione dello spazio tra racconti piccanti e riflessioni agrodolci, risate improvvise.

Io, in quella festa nuova conoscenza tra amici storici, io, italiana, caotica e chiassosa, ho il desiderio di vedere quella cucina di nuovo ordinata e lo faccio.

Ho condiviso la riflessione col fratello della festeggiata, spinta da questa mia curiosità; mi pareva che questo rapportarsi alla modalità di rassetto rappresentasse uno scambio culturale di notevole rilevanza. Il fratello si è limitato a puntualizzare che lui ha dato una ripassata all’occorrenza, quando non vi erano più piatti e bicchieri disponibili. Insomma, un’azione orientata al buon funzionamento della festa. Forse il mio tedesco è ancora troppo basilare per lanciarmi in scambi culturali. Certo, una festa funziona se ci si diverte. Ma spesso sento che divergere significa esattamente allontanarsi da un punto. Ed un punto di cui sono piuttosto persuasa è che a nessun festeggiato piace pulire i piatti una volta che si ritrova solo.

 

 

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Irene De Matteis nasce a Prato nel 1985 e attualmente risiede a Berlino. Si laurea in filosofia del linguaggio e compie studi teatrali. Con la sua tesi “filosofia fuori dell’accademia – dialoghi d’occasione” esprime l’esigenza di interrogarsi sul ruolo che la filosofia ha nella società, confrontandosi direttamente con la voce del popolo; così, in ambito performativo, si specializza in interventi che utilizzano l’arte in spazi ed ambiti non convenzionali: supermercati, stazioni ferroviarie, locali, la strada. Attualmente vive a Berlino dove lavora come pedagogista teatrale e performer, ricercando l’incontro tra vari linguaggi: la scrittura, la musica, il corpo, la fotografia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Immagine in evidenza: Foto a cura di Pina Piccolo.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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