Ciò che è insopportabile per la politica dello status quo, sia essa quella ammantata dell’ipocrisia di Minniti e soci, sia l’attuale sguaiata e fascista del governo gialloverde, è la realizzazione concreta avvenuta a Riace di una rivoluzione che non si può combattere con misure sicurtarie di ordine pubblico perché i suoi protagonisti, con a capo un Sindaco dai modi franchi e bonari, non bruciano cassonetti e non rompono vetrine.
Mimmo Lucano nella sua attività portata avanti con tenacia e senza troppi clamori giorno per giorno, ha dimostrato che è possibile un nuovo modello di convivenza che parte dal rinnovamento profondo delle coscienze. C’è voluto coraggio all’inizio a proporre questo vivere fianco a fianco a persone venute da Paesi diversi per tradizioni culturali e religioni, ognuno con un dramma, un dolore conficcato dentro,ancora di più nel bel mezzo di un territorio dove la presenza della malavita organizzata è endemica e quella dello Stato di diritto quanto mai anemica.
Questo esempio è diventato col tempo una mala pianta cresciuta velocemente che può contagiarne altre, quindi assolutamente da estirpare per il potere. Contro il Sindaco è scattata la Santa Allenza di chi lucra sui soldi per la falsa assistenza ai migranti abbandonati a se stessi con due euro al giorno e senza prospettive d’integrazione e di chi trova insopportabile l’esempio di un Comune del baratto che ha esiliato il denaro proponendo così una via di uscita dal capitalismo asfittico che ci attanaglia senza fornire valide via di uscita. Quindi, con poche eccezioni sincere tra cui le voci di Don Ciotti e di Alex Zanotelli, è l’intero apparato dello Stato che tifa per il fallimento di un modello che dimostra che un altro mondo è possibile.
Dopo aver passato per anni al setaccio ogni atto del Sindaco, si arriva alla fine a formulare l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e irregolarità negli appalti per il servizio di raccolta rifiuti, cadute le più pesanti accuse che volevano dimostrare che Lucano si è arricchito lucrando sui fondi per l’immigrazione, che è un corrotto peggiore di tanti altri che sono corrotti e non fanno la morale. Il metodo usato è quella della demolizione della persona seminando falsità, calunnie, sospetti con campagne d’odio orchestrate meticolosamente, passando attraverso la ridicolizzazione di tutti i “buonisti” che sarebbero, in quanto tali, tonti e cialtroni. Non importa il seguito della vicenda: una volta lanciato l’hastag, il post o il video il missile ha colpito il bersaglio e nella frenesia bulimica dei social, a pochi interesserà veramente il seguito.
Delineata la vicenda di cronaca e quella giudiziaria che farà il suo corso, vorrei soffermarmi su una parte del discorso pronunciato dal Sindaco agli arresti domiciliari, alla folla dei manifestanti che hanno invaso pacificamente le strade di Riace sabato 6 ottobre:
“Vi porterò per tanto tempo nel cuore. Non dobbiamo tirarci indietro, se siamo uniti e restiamo umani, potremo accarezzare il sogno dell’utopia sociale.
Vi auguro di avere il coraggio di restare soli e l’ardimento di restare insieme, sotto gli stessi ideali.
Di poter essere disubbidienti ogni qual volta si ricevono ordini che umiliano la nostra coscienza.
Di meritare che ci chiamino ribelli, come quelli che si rifiutano di dimenticare nei tempi delle amnesie obbligatorie.
Di essere così ostinati da continuare a credere, anche contro ogni evidenza, che vale la pena di essere uomini e donne”.
Nelle parole e negli atti del Sindaco ho colto le tracce di un grande italiano dimenticato dai più.
Si tratta di Aldo Capitini (23/12/1899 – 19/10/1968), filosofo della nonviolenza e fondatore del movimento non violento, che appartiene a quella che Norberto Bobbio ha chiamato “Italia civile”: un’Italia diversa da quella cialtrona e senza memoria che sembra maggioritaria oggi. Il 1933 è una data chiave della sua biografia: Capitini rifiuta di prendere la tessera del partito fascista, nonostante che quella fosse la condizione posta da Giovanni Gentile per conservare il suo ruolo nella scuola pubblica. Sceglie di seguire l’esempio dell’amico Claudio Baglietto che si era rifiutato di tornare in Italia, rinunciando alla carriera universitaria pur di non sottostare all’obbligo del servizio militare obbligatorio. La scelta antifascista poggia soprattutto sul metodo gandhiano della non collaborazione col male.
L’idea politica di Capitini emerge nel suo grande impegno nel periodo 1944-48, dedicato prevalentemente alla nascita del Centro di orientamento sociale (COS), fondato a Perugia nel 1944 e, in seguito, esportato in altre città dell’Umbria e della Toscana. Il COS deve essere una sorta di riproposizione in chiave moderna dell’antico arengo, il luogo dove si riunisce l’assemblea dei cittadini del libero comune medievale. Il COS, a differenza dell’arengo non ha poteri deliberanti, ma si occupa sia di questioni amministrative locali, sia di problemi politici e sociali. La sua è una funzione interna in quanto luogo di “formazione di una solidarietà democratica anti-tirannica”, che prefigura uno spazio nonviolento, “ragionante, non menzognero, aperto” e una funzione esterna, in quanto viene ad aggiungersi ai partiti come una specie di terz’ordine, “cioè tale da comprendere tutti”. Infatti il motto del COS è “Ascoltare e parlare” che dovrebbe essere l’atteggiamento fondamentale dello spirito democratico: tenere conto degli altri ascoltandoli, prima di tutto. Ascoltare significa qui non soltanto lasciare parlare (ascolto passivo), ma soprattutto apertura alla diversità delle idee e dei sentimenti dell’altro (ascolto attivo). E’ l’anticipazione della “cultura della cura” sviluppata poi dal movimento delle donne.
Per Capitini, quindi, è possibile un’altra politica, che porta con sé un’altra legge e un’altra economia. Secondo il suo pensiero la liberazione politica e sociale passa non soltanto e attraverso una rivoluzione politica e sociale bensì attraverso una riforma “religiosa” che assorbe dal cristianesimo la corrente che si rifà al suo originario spirito evangelico: è una sorta di “post cristianesimo”. Con Capitini viene invertito il celebre detto crociano: dall’incontro tra la tradizione religiosa occidentale con altre tradizioni diverse emerge la convinzione non tanto che “non possiamo non dirci cristiani” (Croce), quanto una nuova consapevolezza che “non possiamo più dirci cristiani”. Il suo discorso non si esaurisce nell’ambito religioso ma si allarga ad un più generale confronto tra laicità e religiosità: a suo giudizio si rivelano inadeguate sia le religioni tradizionali, sia le varie prospettive laiche (l’illuminismo, il comunismo, ecc). La nuova religione prefigurata da Capitini è la “religione aperta” che si propone di far sì che “il paradosso si attui”, qui, ora e subito, che si realizzi, qui, ora e subito la “rivoluzione” che vuol dire cambiamento della realtà fattuale, liberazione, rinascita come persone liberate e unite. Sfumati nei mesi successivi alla Liberazione le speranze di un rinnovamento politico e di un profondo risveglio religioso, si fa più urgente l’altro grande impegno di Capitini: portare nella politica la dimensione ulteriore della nonviolenza. Suscita sorpresa in quegli anni l’attivismo capitiniano sui temi della pace, della nonviolenza e dell’obiezione di coscienza. Gli obiettori di coscienza sono “i persuasi di un’opposizione assoluta alla guerra. Obiezione di coscienza non significa rifiuto di soffrire e di morire, ma rifiuto di uccidere”.
Capitini vede quindi con favore l’impegno educativo e religioso di Don Milani che nel ’65, con il famoso libretto “L’obbedienza non è più una virtù” difese gli obiettori di coscienza. Capitini ideò e realizzò le prime marce per la pace in Italia: la prima di cui si ebbe un eco consistente fu quella del 24/09/1961, anno in cui fonda il Movimento non violento. In lui la non violenza non è un approdo tranquillo, ma è attiva tensione, aspirazione continua a evitare l’odio, il sopruso, la violenza in tutte le sue forme.
Oggi 7 ottobre 2018 proprio dalla marcia della pace, è emersa la proposta di candidare al Premio Nobel per la pace il modello Riace, in continuità con questa eredità storica.
Nell’azione politica la scelta dei mezzi si deve sempre coniugare con i fini perseguiti e i fini sono quelli della “non-collaborazione”, della “non-menzogna” e della “non-uccisione” degli essere umani (e, più in generale, di tutti gli animali). I mezzi sono azioni vere e proprie: chi usa certi modi nell’affermarsi fa suoi quei modi, li approva e di diffonde.
Analizziamo i tre fini dell’azione politica. La “non-collaborazione”: se la legge esterna discorda da quella intima, che specialmente nelle questioni importanti, appare assolutamente superiore, bisogna seguire quella intima, quella di cui si è convinti. Per spiegare meglio questo concetto Capitini ricorre all’espressione di “resistenza passiva”, che esclude di dare il proprio aiuto all’attuazione di una cosa che non si accetta. Scrive in modo chiaro: “colui che non intende collaborare non si reca in montagna, si sottopone alle sanzioni, spiega i suoi motivi e dimostra che la sua azione non è ispirata dal fine di sottrarsi ad un peso”. La sua non-collaborazione si rivela, alla fine, una forma di collaborazione più autentica per offrire nuovi elementi al legislatore, per “collaborare con la storia”. La “non-menzogna”: chi sceglie questa pratica si sente impegnato a parlare sempre come se gli altri fossero presenti in un determinato contesto, anche se assenti, quindi trasparenza assoluta. Tutto quello che noi facciamo o pensiamo secondo questo principio acquista un particolare valore perché sentito nella “compresenza” degli altri. La “non-uccisione”: l’atto primo della non-violenza è evidentemente il non-uccidere e il fondamento primo della non-violenza è il rispetto assoluto della vita. “Non violenza è non opprimere, non tormentare, non distruggere nemmeno gli avversari, cioè apertura alla libertà e allo sviluppo di tutti”. Da questi concetti si può sintetizzare che Capitini oppone alla massima del politico realista “se vuoi la pace prepara la guerra” e a quella del pacifista “se vuoi la pace prepara la pace”, il pensiero del “persuaso” (come si autodefiniva): “se vuoi la pace prepara la liberazione”. Il suo pensiero, non a caso, viene considerato una speranza profetica, la proposta complessa e affascinante di una realtà che potrà divenire se si lavorerà qui e ora nella direzione in cui egli ritiene si debba lavorare perché, questo è il suo imperativo, la realtà così com’è è inaccettabile e deve cambiare.
Bartolomeo Bellanova