Bambina Mia (Azzurra De Paola)

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Amina arriva dall’Etiopia su uno di quei barconi per profughi ma quella che porta con sé non è una storia di fuga. È bagnata e ha freddo, si stringe nella coperta bevendo una zuppa calda. Ci racconta di essere partita di mattina presto, all’alba, con la bambina avvolta dentro una grande coperta e chiusa in uno zaino come fosse un marsupio portatile. Dormiva ancora quando hanno lasciato la casa. Ha toccato la strada con le mani e preso un po’ di terra perché quel vialetto l’aveva vista nascere crescere e diventare mamma, e si fa sempre un po’ di fatica a lasciare il terreno dove abbiamo messo radici. Ha tenuto la terra in mano stretta nel pugno e non ha avuto voglia di parlare con nessuno. Non ha fatto amicizia e non ha domandato come comportarsi una volta dall’altra parte. Ha pagato il prezzo del viaggio, è salita, ha trovato un posto scomodo ed umido dove poter riparare sua figlia e si è rannicchiata là senza mai perdere di vista la bambina. Le ha accarezzato i capelli finché non ha sentito più le dita. A quel punto ha messo la terra in tasca. Forse c’è una sorta di destino in tutte le cose. Un equilibrio di forze che va rispettato. Perché le è sembrato che, non appena infilata la terra in tasca, la barca abbia iniziato a dondolare. Dondolare di più. La bambina si è svegliata e ha pianto per minuti interminabili. Il vento era davvero freddo e gli schizzi d’acqua rimbalzavano dalle pareti della barca fin sopra le loro facce. Acqua salata sulle labbra e sulla pelle. Si sentiva le mani tirare e le braccia indurite dal sale. La bambina non ha smesso di piangere finché non l’ha attaccata al seno, benché avesse già tre anni e da tempo aveva smesso di prendere il latte. Il problema è che su queste navi della salvezza non ci sono tutti i comfort e di ciucci o biberon non se ne trovano. Non ci sono neanche pannolini o gabinetti e se uno deve andare al bagno gli tocca farsela addosso, nei pantaloni, oppure sporgersi e farla in mare. Che a dirlo è una cosa e a farlo è tutt’altra. Amina non è andata al bagno fino a che non ha raggiunto il centro di accoglienza. Ha tenuto stretta la bambina al petto per darle calore e lei continuava a svegliarsi e addormentarsi svegliarsi ed addormentarsi senza staccarsi un attimo. Le manine attorcigliate nei capelli, i piedini appoggiati sull’avambraccio della madre. Sono così i bambini: piccoli. La barca ha dondolato per ore, alcuni vomitavano girandosi verso l’acqua, altri vomitavano a terra e poi con le mani lo buttavano fuori. Persone che non si conoscevano stavano abbracciate sotto la stessa coperta, sdraiati con i corpi vicini per non morire di freddo. Era uno di quei giorni senza sole. Era uno di quei giorni in cui ogni cosa sta per succedere all’insaputa di tutti. Amina sta andando a Malta da suo marito. Vuole raggiungerlo perché sono tre anni che non lo vede e le manca, le manca un padre per sua figlia e un marito che le dia altri bambini e altre attenzioni. Le manca qualcuno che le ricordi quant’è bella la sua pelle. La pelle di Amina è lucida e scura, sembra una lastra di bronzo ma nessuno gliel’ha detto più da quando suo marito se n’è andato, con la stessa barca della speranza, diretto verso un futuro migliore. Non si erano domandati cosa ci fosse dall’altra parte del mare, non avevano fatto previsioni o paragoni. Non avevano valutato. Semplicemente dove erano non c’era niente e ovunque sarebbe andata meglio. Prima di partire, Amina ha fatto l’amore con suo marito perché non la dimenticasse e non smettesse di aspettarla. Sua figlia è la promessa che si sarebbero rivisti. Così, tre anni e tanti dollari dopo, Amina si imbarca per essere di nuovo toccata. Per sentire che ha ancora venticinque anni, che è giovane. Cosa che, da dove viene lei, non significa niente. Avere venticinque anni è come averne cinquanta. Non esiste il tempo. Non esiste l’età. Nel senso che ogni giorno sono già tutti pronti a morire. La bambina di Amina non ha un nome. Lei la chiama Bambina Mia perché vuole che suo marito la veda prima di decidere come chiamarla. È importante avere un nome, deve avere un significato unico e pertinente. Per questo ha voluto aspettare, perché è cosa da decidere in due. È qualcosa che sua figlia si porterà addosso tutta la vita e deve avere un senso. Deve darle un senso. È la sua forma. Perciò, mentre la accarezza, le dice Bambina Mia come sei bella. Glielo ripete più volte in modo che se ne convinca per il resto della vita. Bambina Mia ha gli occhi verdi, come suo padre e la pelle di bronzo come sua madre, ha i piedini nudi e i capelli corti, intreccia nel sonno le manine tra i capelli e si succhia il pollice. Ma la barca dondola e il dondolio sfinisce. Dondola da ore. Sale in cima alle onde e poi riscende ma siccome è piccola e gracilina, si sente ogni movimento amplificato. Imbarca acqua. È umida. Non c’è riparo. Una signora anziana arrivata a piedi dalla Turchia fino all’Egitto muore nel sonno. Sua figlia piange e si strappa l’Abaya di dosso, strattona la madre in una lingua che Amina non conosce ma tanto il dolore ha un linguaggio universale. Nessuno muove un dito, nessuno fa niente. Restano tutti stipati come cani di paglia per paura di perdere il posto. Per paura di morire congelati. La figlia che a sua volta ha una figlia, si rannicchia vicino al corpo della madre che va via via indurendosi e si stringe vicino a lei perché ha pagato per una speranza che le è stata tolta prima di toccare terra. Un ragazzino dice al traghettatore che se la vecchia è morta devono buttarla in mare, che può essere infettiva, che occupa spazio. Ma la figlia non parla la lingua del ragazzino e quindi non reagisce. Lui ripete Buttiamola via. Ma nessuno lo ascolta e le sue parole cadono in mare. Il mare è una cosa viva. Amina pensa che lo spirito del mare ascolti tutta la cattiveria e la sofferenza che ci sono su quella barca, quante vite spezzate, quante vite interrotte per essere riprese chissà da che punto, quanti viaggi della speranza che non hanno nessuna speranza di farcela. E le onde si alzano quando in cielo è quasi buio. Reclamano qualcosa, vogliono mangiare. La fame delle onde non si può domare. La barca quasi si spezza a metà e cavalcare l’onda è sempre più difficile che scendere dall’altra parte. Il mare è un pozzo buio. Non si vedono luci all’orizzonte. Intorno niente e nessuno. Amina e Bambina Mia sono sole, perché stare insieme a duecento persone senza capire o conoscere nessuno è come essere soli. Quando la barca le fa cadere in acqua, la bambina piange e lei la tiene stretta. Si aggrappa ad una sbarra di metallo spuntata da chissà dove. Tutti cadono, tutti fanno voli enormi e poi giù nell’abisso nero. Amina si tiene forte finché ogni persona della barca non sia tornata a galla, viva o morta. La signora turca affonda come un sacco di patate avvolta nel suo nella sua Abaya pesante. Dopo averla accompagnata tutta la vita, è diventata la sua bara. Il mare è la bara di tante persone. Le onde sono così fredde e Amina guarda intorno per vedere se arrivi qualcuno, qualcuno che si accorga che una barca si è rotta, che le persone sono cadute e hanno freddo, e stanno morendo. Pensa che deve continuare a muovere i piedi per non affondare. Quando sorge il sole non si sente più le mani né le gambe né la faccia. Non è neanche sicura di avere ancora un corpo, forse lo hanno mangiato i pesci. I soccorsi arrivano a bordo di una barca come quella che li trasportava, solo più grande. Mettono le mani in acqua per toccare i corpi, per vedere chi sia ancora vivo. La volontaria le tocca la spalla e lei muove gli occhi, li sente stridere nelle orbite, sono congelati. Due bulbi di ghiaccio che ci si potrebbe fare il sorbetto. Quando provano a tirarla su non riesce a staccare le mani dal ferro. Sono attaccate. Le viene via anche uno strato di pelle. Ed è a quel punto che si accorge che Bambina Mia non c’è più. Che lo spirito del mare l’ha portata dove dormono i bambini che non cresceranno più. Cinque anni dopo, Amina vive a Malta. Suo marito la ama ancora e si sono incontrati al molo dove ogni giorno lui la cercava tra i nuovi arrivati. Hanno fatto l’amore e vive in un paese dove può avere venticinque anni e una vita davanti. Ha due figli e un terzo in arrivo. La sua casa è bella e accogliente, calda. Vive in città e ha imparato l’inglese. Manda perfino soldi alla sua famiglia. Sta bene, non ha più niente di quella donna che viaggiava con i profughi verso il futuro. Solo ogni tanto la si intravede quando cammina sulla spiaggia, ancora bagnata e mezza morta, che guarda il mare aperto in cerca di una bambina che non ha avuto il tempo di trovare il proprio nome.

 

Inedito di Azzurra de Paola, per gentile concessione dell’autrice

 

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Azzurra de Paola nasce a Roma nel 1983 e vive in Svizzera. Ha pubblicato Benedizione per la bassa moltitudine con Le voci della Luna (2012) e La verità è un mondo terrificante con L’Arcolaio Edizioni (2014). Estratti de La verità è un mondo terrificante sono usciti per Le Courrier di Ginevra con traduzione in francese a cura di Lepori Pierre e per Le monde diplomatique di Parigi a cura di Mia Lecomte. Il peso minimo della bellezza è uscito con Liberaria Edizioni nel 2016.

 

 

 

 

 

Foto dell’autrice a cura di Azzurra de Paola

La foto in evidenza è della nostra webmaster, Micaela Contoli, di OpenMultimedia

 

 

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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