ARMANDO TEJADA GOMEZ, CANTORE D’AMERICA (di Anna Fresu)

Armando Tejada Gomez mural

Il mio sogno è che un giorno, camminando per queste strade, un altro uomo passi, con una mia canzone nella voce e sulle labbra. Allora sentirò di aver assolto al mio compito di tenerezza e amore per la gente. Quest’uomo non camminerà da solo. Forse io sì, ma lui no, perché camminerà cantando… E questa… questa è la gloria.

Armando Tejada Gómez appartiene alla cosiddetta “Generazione del ‘50”, il cui limite è considerato fra il 1947 e il 1953. I poeti di questa generazione cominciano a scrivere appena ventenni o poco più. Sono i poeti del dopoguerra, periodo in cui nella poesia argentina si riafferma all’interno del discorso poetico la centralità dell’uomo, considerato non solo come individuo ma soprattutto nel suo rapporto con la società, con la comunità d’origine, con gli avvenimenti dell’epoca, con la Storia. Si tratta essenzialmente di una poesia tesa alla ricerca della libertà, in cui l’individuo non si oppone alla collettività né la fantasia alla coscienza. È una dichiarazione di appartenenza alle classi popolari, alle loro vite dure e semplici. Le tematiche saranno quindi popolari, quotidiane, calate nel territorio ma anche radicate nelle cosmovisioni, espresse con un linguaggio adeguato che si fa lineare, incisivo, a volte colloquiale, legato all’oralità, al linguaggio quotidiano e metaforico, a volte surreale, di quel surrealismo popolare che, ironicamente, Tejada Gómez attribuisce al popolo prima ancora che ad André Bréton. Caratteristiche che si accentueranno nella decade degli anni ’60.

Questi principi sono ben evidenti nell’opera poetica di Armando Tejada Gómez, espressione sempre di una grande libertà sia interiore che esteriore che si manifesta come assenza di paura, coraggio di affrontare il rischio di vivere e cantare in un mondo non facile e disponibile; libertà che è anche quella di usare le convenzioni letterarie, di superare i confini fra i generi letterari, fra la lirica e il dramma, fra il colto e il popolare, fra la poesia e le altre arti, nella ferma convinzione che la poesia “es para todos”, è per tutti e non un esercizio specialistico e esclusivo; sono la centralità del quotidiano e l’accettazione della vita nella sua interezza, luci ed ombre, piccole felicità e dolori; la localizzazione geografica che affonda saldamente le sue radici in terra americana – quell’America rivendicata dagli Argentini come Patria comune.

È lo sguardo del poeta che riesce a trasmutare tutte le situazioni, a renderle Poesia.

Il suo sogno è essere un cantore del popolo:

perdere la mia identità individuale per guadagnare un posticino nella memoria del popolo, ritornare attraverso il cammino dei miei versi.

Armando Tejada Gómez nasce il 21 aprile del 1929 a Mendoza, in Argentina da una famiglia di discendenti degli huarpes, popolo originario del nord ovest argentino che popolavano la regione di Cuyo di cui Mendoza è la capitale.

Penultimo di ventiquattro figli, di lavoratori rurali di scarse risorse, a quattro anni resta orfano di padre e la madre si vede costretta a ridistribuire i figli presso altri parenti e conoscenti per poterne garantire la sopravvivenza. Armando viene allevato da una zia che gli insegna a leggere sulle pagine del catechismo ma non ha la possibilità di andare a scuola ed è costretto a lavorare a soli sei anni come venditore di giornali per le strade della città e come lustrascarpe.

Armando Tejada Gomez retrato

99999La lettura a quindici anni del Martín Fierro, il poema epico di José Hernandez, pubblicato nel 1872 e considerato il romanzo di fondazione della cultura argentina, suscita in lui la passione per la letteratura e per la poesia unita alla preoccupazione per le ingiustizie sociali che lo avviano all’impegno politico.

Nel 1950 comincia a lavorare come speaker alla LV10, la radio di Cujo; lavoro che alterna con quello nei cantieri edili. In quello stesso periodo comincia anche a comporre canzoni con il musicista Oscar Matus, anche lui di Mendoza, che diverrà poi marito della cantante Mercedes Sosa. Con entrambi dà inizio a un lungo sodalizio attraverso composizioni come Los hombres del río, Coplera del viento, Tropero padre, fra tante altre.​

Nel 1954 ottiene il secondo premio nel V Concorso Letterario Municipale di Mendoza per il suo primo libro di poesie Pachamama: poemas de la tierra y el origen, dedicato a sua madre, e ispirato alla cultura huarpe dei suoi antenati che egli stesso definisce “cosmogonia americana dell’Universo” maturata fra le assemblee degli anziani e le riunioni intorno al fuoco e i valori che caratterizzano la cultura huarpe di cui si sente figlio.

Il premio e la pubblicazione del libro lo portano a una notorietà sempre crescente. Nel 1957, con la poesia La verdadera muerte del compadre, vince il premio del 75º Aniversario del Diario de los Andes, importante quotidiano locale.​

Per la sua opposizione alle tendenze autoritarie del governo peronista (1946-1955) e per essersi rifiutato di portare il lutto in occasione della morte di Eva Perón (1952), che pur ammirava, Tejada Gómez viene perseguitato dal regime. Nel 1954, in seguito all’intervista al pittore Juan Carlos Castagnino di ritorno dalla Cina comunista, viene licenziato dalla radio e, allo stesso tempo, si proibisce di citare il suo nome quando si mandano in onda le sue canzoni.​

Nel 1955 scrive il suo secondo libro Tonadas de la piel. Nel mese di settembre di quello stesso anno un colpo di stato fa cadere il governo peronista, costringendo Perón all’esilio.

La caduta del regime peronista, produce una svolta sia nell’arte del poeta che nella sua posizione politica. Egli stesso racconta che a provocare questo cambiamento nel suo modo di scrivere è stato un commento del fratello muratore che gli riferisce che i suoi compagni di lavoro dicevano che “scrive cose che nessuno capisce“. Questa osservazione influenza notevolmente Tejada Gómez, che decide di orientare la sua poesia verso la problematica sociale e i temi popolari. Una delle prime poesie di questa nuova fase è Hay un niño en la calle.

La poesia è inclusa nel suo terzo libro Antología de Juan, pubblicato nel 1958. Da allora i suoi libri diventano popolari e di ognuno si vendono non meno di 10.000 esemplari.​ Tejada Gómez ricorda che:

A partire da questi versi apparvero il premio e il castigo. Per molti ero un diavolo comunista, un sovversivo… il diavolo dai denti rossi che voleva mangiarsi le ragazze della buona società.

Nel 1958 Tejada Gómez partecipa attivamente alla campagna per le elezioni presidenziali sostenendo l’Unione Civica Radicale il cui leader è Arturo Frondiz, con un orientamento popolare di centro-sinistra. Frondizi viene eletto Presidente della Nazione e Tejada Gomez deputato provinciale. L’anno dopo tuttavia, in contrasto con il concetto di sviluppo portato avanti da Frondizi che favoriva le multinazionali, si iscrive al Partito Comunista. Nel 1960, al termine del suo mandato, riprende il suo lavoro alla radio.

Nel 1961 pubblica Los compadres del horizonte, premiato al Secondo Concorso Latinoamericano di Letteratura “Casa de las Américas”, a Cuba.

Nel 1963, con Oscar Matus e Mercedes Sosa forma un importante trio artistico che porta alla creazione del Movimento del Nuevo Cancionero che nel suo Manifesto si pone come programma la ricerca di una musica nazionale di contenuto popolare, espressione di tutte le anime dell’Argentina e veicolo per la presa di coscienza del suo popolo attraverso il rifiuto di ogni finalità mercantile che ne sottovaluti l’intelligenza e la morale; alla ricerca della comunicazione, del dialogo e dello scambio fra tutti gli artisti e i movimenti simili nel resto dell’America Latina; in trasformazione permanente e integrata allo sviluppo creatore del popolo per accompagnare il suo destino, i suoi sogni, le sue allegrie, le sue lotte e le sue speranze.

Lo sapevo già che cosa volevo comunicare: la mia solidarietà, il mio amore per la gente, per la giustizia, per l’amore. Sapevo anche che la poesia scritta da sola non poteva arrivare a tante persone che, essendo analfabete, non avrebbero avuto accesso ai miei libri. Mi mancava il verdetto di tantissima gente che legge con le orecchie e attraverso la propria cosmovisione. La canzone, come mezzo di comunicazione immediata si è rivelata lo strumento più idoneo per esprimermi: chi canta, stampa all’aria aperta. Ho capito allora che con ogni canzone nasce in America un nuovo Gutenberg, perchè la canzone è la nuova stampa.

Però la parola da cantare non è la stessa destinata alla lettura, il successo di una canzone popolare dipende dal grado in cui riflette la nozione che il prossimo ha della vita, che i giri, le inflessioni e la respirazione del testo siano i giri, le inflessioni e la respirazione della parlata della gente.

…..

Così come cantare non è scrivere, ascoltare non è leggere. C’è nell’atto del cantare una generosità e una vastità simili solo a quelle della messa.

….

Il cantore, il giullare compiono un atto sacro davanti alla gente: un atto di fede, di amore, possibile solo se si sta in ciò che io chiamo “stato di canto”, uno stato spirituale che permette a chi canta di arrivare direttamente al centro di chi ascolta, per restare con lui. E anche se a molti può sembrare sacrilego, questa comunione ha anch’essa l’intensità del mistero sacro.

…9999

L’enfasi della poesia ricade sul testo stesso, mentre per la canzone ciò che importa è chi ascolta.

Quello stesso anno Tejada Gómez pubblica il suo quarto libro, Ahí va Lucas Romero. Nel 1964 si trasferisce a Buenos Aires, dove presenta al Teatro IFT, con Mercedes Sosa, Oscar Matus e Tito Francia, il suo primo spettacolo letterario-musicale secondo le linee tracciate dal Nuevo Cancionero. In quel periodo appaiono le prime incisioni discografiche prodotte da Nelson Montes-Bradley par i Discos Qualiton: “Poeta de la legua” “Cantoral de mi país al Sur” e “Poemas del Horizonte“. In queste incisioni Tejada Gómez cerca di esprimere una poesia capace di arrivare al gusto popolare, integrandola alla musica ma non esclusivamente, facendo del recitativo e della narrazione orale un arte a sé. In questo suo percorso il poeta coinvolge sempre più giovani musicisti provenienti da stili ed esperienze diverse, dal folklore al tango, al rock nazionale.

Armando Tejada Gomez foto599Nel 1968 pubblica Profeta en su tierra, una selezione dei primi libri. Nel 1974 riceve il premio di poesia Casa de las Américas per il suo libro Canto popular de las comidas, un percorso cronologico e geografico dell’alimentazione in America, dall’epoca precolombiana fino al XX secolo.

 Nel 1976, la dittatura militare lo include fra gli autori proibiti e vengono interdette le sue presentazioni, la pubblicazione dei suoi libri e la diffusione delle sue canzoni. Il 3 novembre del 1992, muore a Buenos Aires. Nel 1994 viene pubblicata la sua raccolta poetica Telares del Sol.

FRAGMENTO FINAL

Estar.

Permanecer.

Vertical.

Estar para el amor, simplemente,

creando

el camino del hombre que estamos aguardando.

Me pierdo por los besos,

la canción,

los abrazos:

las brújulas brillantes, universales,

blancas.

Llamo desde mis hombros las grandes resonancias

con un vaso de vida chorreándome las manos.

Nunca más de rodillas,

nunca más a pedazos,

nunca más a la muerte

sin haber respirado.

Nunca más como topos,

nunca más acosados.

El hombre por sí mismo

hasta él mismo lanzado,

hasta su envergadura,

hasta el hombre soñado.

Nunca más a las armas,

nunca más al soldado.

Proyectarse hasta el otro,

hasta el mejor logrado.

Búscate por tu rostro,

lávate con mi canto.

Estoy en la esperanza.

Despertarás conmigo.

Con un pan y una estrella,

alumbrando los siglos.

FRAMMENTO FINALE

Esserci.

Rimanere.

Verticale.

Esserci per l’amore, semplicemente,

creando

il cammino dell’uomo che stiamo aspettando.

Mi perdo attraverso i baci,

la canzone,

gli abbracci:

le bussole brillanti, universali,

bianche.

Chiamo dalle mie spalle le grandi risonanze

con un bicchiere di vita che gocciola sulle mani.

Mai più in ginocchio,

Mai più a pezzi,

Mai più alla morte

Senza avere respirato.

Mai più come talpe,

Mai più perseguitati.

L’uomo da solo

verso se stesso lanciato,

fino alla sua grandezza,

fino all’uomo sognato.

Mai più alle armi,

Mai più al soldato.

Proiettarsi nell’altro,

Fino a ottenere il meglio.

Cércati nel tuo volto,

lávati col mio canto.

Vivo con la speranza.

Ti sveglierai con me.

Con un pane e una stella,

illuminando i secoli.

HAY UN NIÑO EN LA CALLE

A esta hora, exactamente,

hay un niño en la calle.

Le digo amor, me digo, recuerdo que yo andaba

con las primeras luces de mi sangre, vendiendo,

una oscura vergüenza,

la historia, el tiempo,

diarios.

Porque es cuando recuerdo también las presidencias,

urgentes abogados, conservadores, asco,

cuando subo a la vida cantando la inocencia,

mi niñez triturada por escasos centavos,

por la cantidad mínima de pagar la estadía

como un vagón de carga

y saber que a esta hora mi madre está esperando,

quiero decir, la madre del niño innumerable

que sale y nos pregunta con su rostro de madre,

qué han hecho de la vida,

dónde pondré la sangre,

qué haré con mi semilla si hay un niño en la calle.

Es honra de los hombres proteger lo que crece,

cuidar que no haya infancia dispersa por las calles,

evitar que naufrague su corazón de barco,

su increíble aventura de pan y chocolate,

transitar sus países de bandidos

y tesoros,

poniéndole una estrella en el sitio del hambre,

de otro modo es inútil ensayar en la tierra

la alegría y el canto,

de otro modo es absurdo

porque de nada vale si hay un niño en la calle.

Dónde andarán los niños que venían conmigo

ganándose la vida por los cuatro costados.

Porque en este camino de lo hostil ferozmente

cayó el Toto de frente con poquita sangre

con sus ropas de fe, su dolor a pedazos.

Y ahora necesito saber cuáles sonríen,

mi canción necesita saber si se han salvado,

porque si no es inútil mi juventud de música

y ha de dolerme mucho la primavera este año.

Importan dos maneras de concebir el mundo.

Una, salvarse solo,

arrojar ciegamente los demás de la balsa

y la otra,

un destino de salvarse con todos,

comprometer la vida hasta el último náufrago,

no dormir esta noche si hay un niño en la calle.

Exactamente ahora, si llueve en las ciudades,

si desciende la niebla como un sapo del aire

y el viento no es ninguna canción en las ventanas,

no debe andar el mundo con el amor descalzo

enarbolando un diario como un ala en la mano,

trepándose a los trenes, canjeándonos la risa,

golpeándonos el pecho con un ala cansada,

no debe andar la vida, recién nacida, a precio.

la niñez arriesgada a una estrecha ganancia,

porque entonces las manos son dos fardos inútiles

y el corazón, apenas, una mala palabra.

Cuando uno anda los pueblos del país

o va en trenes por su geografía de silencio,

la patria

sale a mirar al hombre con los niños desnudos

y a preguntar qué fecha corresponde a su hambre,

qué historia les concierne,

qué lugar en el mapa,

porque uno Norte adentro y Sur adentro encuentra

la espalda escandalosa de las grandes ciudades

nutriéndose de trigo, vides, cañaverales,

donde el azúcar sube como un junco del aire,

uno encuentra la gente, los jornales escasos,

una sorda tarea de madres con horarios

y padres silenciosos molidos en las fábricas,

y hay días que uno andando de madrugada encuentra

la intemperie dormida con un niño en los brazos.

Y uno recuerda nombres, anécdotas, señores

que en París han bebido

por la antigua belleza de Dios, sobre la balsa

en donde han sorprendido la soledad de frente

y la índole triste del hombre solitario,

en tanto, sus señoras, tienen angustia y cambian

de amantes esta noche, de médico esta tarde,

porque el tedio que llevan ya no cabe en el mundo

y ellos son accionistas de los niños descalzos.

Ellos han olvidado

que hay un niño en la calle,

que hay millones de niños

que viven en la calle

y multitud de niños

que crecen en la calle.

A esta hora, exactamente,

hay un niño creciendo.

Yo lo veo apretando su corazón pequeño,

mirándonos a todos con sus ojos de fábula,

viene, sube hacia el hombre acumulando cosas,

un relámpago trunco le cruza la mirada,

porque nadie protege esa vida que crece

y el amor se ha perdido

como un niño en la calle.

C’È UN BAMBINO PER STRADA

A quest’ora, esattamente,

C’è un bambino per strada.

Gli dico amore, mi dico, ricordo che io andavo

con le prime luci del mio sangue, a vendere,

un’oscura vergogna,

la storia, il tempo,

giornali.

Perché è quando ricordo anche le presidenze,

urgenti avvocati, conservatori, schifo,

quando vengo alla vita cantando l’innocenza,

la mia infanzia triturata da scarsi centesimi,

dalla quantità minima per pagare la sosta

come un carro merci

e sapere che a quest’ora ora mia madre sta aspettando,

voglio dire, la madre di bambini infiniti

che escono e ci chiedono con il loro volto di madre,

che avete fatto della vita,

dove metterò il sangue,

che farò col mio seme se c’è un bimbo per strada.

È onore per gli uomini proteggere quel che cresce,

preoccuparsi che non ci sia infanzia sperduta per le strade,

evitare che naufraghi il suo cuore di barca,

la sua incredibile avventura di pane e cioccolata,

attraversare i suoi paesi di banditi

e tesori,

mettendogli una stella al posto della fame,

altrimenti è inutile provare sulla terra

l’allegria ed il canto,

altrimenti è assurdo

perché a niente serve se c’è un bimbo per strada.

Dove saranno andati i bambini che stavano con me

guadagnandosi la vita in ogni dove.

Perché su questa strada ostile ferocemente

cadde Toto in avanti con il suo poco sangue,

con i suoi vestiti di carità, col suo dolore a pezzi.

E ora ho bisogno di sapere chi di loro sorride,

la mia canzone ha bisogno di sapere se si sono salvati,

perché se no è inutile la mia gioventù di musica

e che quest’anno mi farà molto male la primavera.

Contano due maniere di concepire il mondo.

Una, salvarsi da soli,

buttare ciecamente gli altri giù dalla zattera

e l’altra,

un destino di salvarsi con tutti,

impegnare la vita fino all’ultimo naufrago,

non dormire stanotte se c’è un bimbo per strada.

Esattamente adesso, se piove nelle città,

se scende la nebbia come un rospo dall’aria

e il vento non è nessuna canzone alle finestre,

non deve andare il mondo con l’amore scalzo

sventolando un giornale come un’ala nella mano,

arrampicandosi sui treni, scambiandosi sorrisi,

battendosi il petto con un’ala stanca,

non deve andare la vita, appena nata, a prezzo,

l’infanzia messa a rischio da uno stretto guadagno,

perché allora le mani sono due pesi inutili

ed il cuore, soltanto, una brutta parola.

Quando uno va in giro per il paese

o attraversa in treno la geografia del silenzio,

la patria

esce a guardare l’uomo con i bambini nudi

e a chiedere che data corrisponde alla sua fama,

che storia lo riguarda,

quale luogo sulla carta,

perché dentro un Nord dentro un Sud trova

la spalla scandalosa delle grandi città

nutrendosi di grano, viti, canneti,

dove lo zucchero sale come un giunco nell’aria,

uno trova, i pochi giornali,

un sordo compito di madri con orari

e padri silenziosi stremati nelle fabbriche,

e ci son giorni in cui camminando all’alba trova

il maltempo addormentato con un bambino in braccio.

E uno ricorda nomi, aneddoti, signori

che a Parigi han bevuto

dall’antica bellezza di Dio, sopra la chiatta

dove la solitudine gli si è fatta davanti

e la natura triste dell’uomo solitario,

intanto, le sue signore, si angosciano e cambiano

amanti la notte, e il medico la sera,

perché la loro angoscia non c’entra con il mondo

e sono loro azionisti di ogni bambino scalzo.

Loro han dimenticato

Che c’è un bimbo per strada,

che bambini a milioni

vivono per la strada

e miriadi di bimbi

che crescono per strada.

A quest’ora, esattamente,

C’è un bambino che cresce.

Io lo vedo che stringe il suo cuore piccino,

guardandoci noi tutti coi suoi occhi di favola,

viene, sale su fino all’uomo che accumula le cose,

un lampo tronco gli incrocia lo sguardo,

perché nessuno protegge questa vita che cresce

e l’amore si è perso

come un bimbo per strada.

EL LIBRO DEL VIENTO

Mi canción es un libro

que se escribe con el viento

y una imprenta indeleble

-la guitarra del pueblo-,

a lo largo de América

lo imprime a cielo abierto.

Después, de boca en boca,

santo y seña del sueño,

va entre los hombres, cruza

las fronteras del miedo

y nombra al sometido

en su padecimiento.

Las muchachas azules,

los rudos marineros,

el labrador de pámpanos,

el quieto, el andariego,

andan con mi canción

sin posible sosiego.

Mi canción no le teme

al tumulto ni al fuego.

Todos pueden cantarla

y llevársela lejos.

Yo sé que cuando vuelva

tendrá un sonido nuevo.

¿Qué dice mi canción?

De todo en su momento:

asuntos de casados,

asuntos de solteros,

dolores, alegrías;

juglaría del viento.

Y si a veces estalla

en un grito violento

es porque al pueblo acallan

¡y duele ese silencio!

IL LIBRO DEL VENTO

La mia canzone è un libro

che si scrive nel vento

e una stampa indelebile

-la chitarra del popolo-,

lungo tutta l’ America

lo stampa all’aria aperta.

Dopo, di bocca in bocca,

come parola d’ordine,

va tra gli uomini, attraversa

le frontiere della paura

e dà un nome a chi è schiacciato

dalla sua sofferenza.

Le ragazze azzurre,

I rudi marinai,

Il coltivatore di viti,

chi sta fermo, il viandante,

camminano con la mia canzone

senza trovare pace…

La mia canzone non teme

il tumulto né il fuoco.

Tutti possono cantarla

e portarsela via.

Io so che al suo ritorno

avrà un suo suono nuovo.

Che dice la mia canzone?

Tutto al momento giusto:

Affari di sposati,

Affari di scapoli,

dolori, allegrie;

giullarate del vento.

E se a volte esplode

in un grido violento

è perché il popolo

l’hanno messo a tacere

e fa male questo silenzio!

POETA DE LA LEGUA

Cantando por ahí, se ha sentado a mi mesa

el cantor, el rufián, el ángel, el guerrero,

el empresario, el lúcido, el loco, la ramera:

gente de bravas índoles y de modales feos.

Juntos hemos bebido del vino del escándalo

y le hemos bajado los calzones al tiempo.

Alguna vez la copla arde en sus corazones

y recorre sus aguas y sale por sus ojos

con el sigilo junco de un niño abandonado

que ha visto a un dios de sal, pero lejos y solo.

Y yo, que tengo sitio de laurel en mi pueblo,

mientras esto no cambie, bebo y canto con todos.

POETA DI MOLTO ANDARE

Cantando in giro, si è seduto al mio tavolo

il cantore, il ruffiano, l’angelo, il guerriero,

l’impresario, il savio, il folle, la puttana:

gente violenta e di male maniere.

Insieme abbiam bevuto il vino dello scandalo

Ed abbiamo calato al tempo le sue brache.

Talvolta la strofa arde nei loro cuori

E ne attraversa l’acque e ne esce dagli occhi

con il semplice giunco di un bimbo abbandonato

che ha visto un dio di sale, però lontano e solo.

Ed io, che ho un posto d’alloro al mio paese,

finché questo non cambia, bevo e canto con tutti.

CANCIÓN DE UN PESO

Hoy, al salir de casa,

me encontré una moneda.

Un peso. Un sol

mondo y lirondo de metal.

Bueno, yo sé que nada

se compra con un peso:

ni un fósforo

ni un barco

ni una espiga

ni un pan,

pero dije: es mi día

de suerte. Hermoso día!

y con el sol delante

me puse a caminar…

Llamé a todas las puertas

y no encontré trabajo

ni un fósforo

ni un barco

ni una espiga

ni un pan;

el día, como siempre,

retiraba sus redes

y, con la tarde a cuestas,

tuve que regresar.

La gente de mi pueblo

apenas gana un peso.

Un peso. Un sol

mondo y lirondo de metal.

Sabe que poco y nada

puede comprar con eso:

ni un fósforo

ni un barco

ni una espiga

ni un pan.

Sin embargo mi gente,

la gente de mi pueblo,

con todo el sol delante

se ha puesto a caminar…!

CANZONE DA UN SOLDO

Oggi, uscendo di casa,

ho trovato una moneta.

Un soldo. Un sole

pulito e lustro di metallo.

Ebbene, lo so che niente

si compra con un soldo:

né un fiammifero

né una barca

né una spiga

né un pane,

però mi sono detto: è la mia giornata

fortunata. Bella giornata!

E col sole davanti

Mi son messo a camminare…

Ho bussato a tutte le porte

e non ho trovato lavoro

Né un fiammifero

né una barca

né una spiga

né un pane;

Il giorno, come sempre,

ritirava le sue reti

e, con la sera in spalle,

son dovuto rientrare.

La gente del mio paese

Non guadagna che un soldo.

Un soldo. Un sole

Pulito e lustro di metallo.

Lo sa che poco o niente

può comprare con questo:

né un fiammifero

né una barca

né una spiga

né un pane.

Eppure la mia gente,

la gente del mio paese,

con tutto il sole davanti

si è messa a camminare…!

HISTORIA DE TU AUSENCIA

Si ahora digo amor tal vez no diga

que la ausencia me mira del fondo de tus ojos,

que aquí estuvimos juntos, que fue hermoso

y que el sol conocía tu perfil de memoria.

Tal vez sea imposible que alguien sepa lo claro,

la luz que fue llevarte de la mano pequeña

como a un tallo mecido por un viento de música

hacia los territorios donde aguarda el silencio.

Y ya que estás distante,

qué pensarán los árboles

qué dirán las canciones,

cómo verá la noche mi soledad de río;

dónde pondrán su ronda los niños de la tarde,

adónde irán los pájaros sin tu risa y mi silbo

y la calle tan sola con sus puertas inútiles

y las sombras sin besos

y los perros perdidos;

ahora que la ausencia me interrumpe la boca,

ahora que me esperas tan allá de los niños.

Se nos ha muerto el año.

Yo le veo el invierno

hecho de un sólo frío,

de un solo tajo solo

a la mitad de agosto,

de una dura distancia…

larga, definitiva.

Porque de pronto sobran los barcos,

los andenes

y de pronto este rumbo ya no tiene sentido

como si nadie fuera hacia ninguna parte

o alguien hubiera muerto a mitad de camino.

Alguien.

Mi voz. Tu pelo. Las cosas que no dije.

La flor de tu vestido.

Se nos ha muerto el año donde dejé tu nombre

para que recobrara su condición de estío.

Ya no sé,

nunca entiendo estas precarias sílabas

cosas que no recuerdo de pronto me dominan:

¿te dije que tenías la piel como de humo?

¿que de estarme en tus ojos me conozco el origen?

¿te he enseñado el misterio de los árboles solos?

¿sabes ya que tus manos son dos siestas dormidas?

STORIA DELLA TUA ASSENZA

Se adesso dico amore forse non dico

che l’assenza mi guarda dal fondo dei tuoi occhi,

che qui siamo stati insieme, che era bello

e che il sole conosceva il tuo profilo a memoria.

Forse sarà impossibile che qualcuno sappia il chiarore,

la luce che fu prenderti per la piccola mano

come uno stelo mosso da un vento di musica

fino ai territori dove attende il silenzio.

E visto che sei lontana,

che penseranno gli alberi

che diranno le canzoni,

come vedrà la notte la mia solitudine di fiume;

dove faranno il girotondo i bambini la sera,

dove andranno gli uccelli senza il tuo riso e il fischio

e la strada così sola con le sue porte inutili

e le ombre senza baci

ed i cani sperduti;

ora che l’assenza mi interrompe la bocca,

ora che mi aspetti così lontana dai bimbi.

Ci è morto l’anno.

Ci vedo l’inverno

fatto di un solo freddo,

di un ceppo solo

a metà di agosto,

di una dura distanza…

lunga, definitiva.

Perché d’improvviso avanzano le barche,

le banchine

e d’improvviso questa rotta non ha senso

come se niente andasse da nessuna parte

o se qualcuno fosse morto a metà del cammino.

Qualcuno.

La mia voce. I tuoi capelli. Le cose che non ho detto.

Il fiore del tuo vestito.

Ci è morto l’anno dove lasciai il tuo nome

Affinché riprendesse la sua condizione d’estate.

Non so più,

Non capisco mai queste sillabe precarie

Cose che non ricordo d’improvviso mi dominano:

ti ho detto che avevi la pelle come di fumo?

Che non conosco l’origine di starmene nei tuoi occhi?

Ti ho insegnato il mistero degli alberi soli?

Lo sai già che le tue mani sanno di appagante riposo?

EL TELAR DE LOS MAPAS

Las naos abordaron

por distintas corrientes,

milenios tras milenios

las costas de mi sangre,

las bahías azules,

las penínsulas ciegas,

el resuello del mar.

Los hombres no vinieron

de distantes galaxias,

llegaron de la vida,

la misma vida y única

que aquí se vio llegar.

La vida que ya estaba

donde vive la vida.

La vida allende el mar.

La vida aquende el mar.

Al telar de los mapas

los ha borrado el tiempo,

los robos, los naufragios,

el lento deterioro

de toda antigüedad.

¿De dónde vino entonces

esa vida que vino?

¿Y esta vida que estaba

adónde fue a parar?

Nos han llamado Indios

los que iban a las Indias,

obsesos mercaderes,

oscuras faltriqueras,

torpes cartografías,

frailes de íncubo y súcubo

que dieron de narices

con mi tierra opulenta,

se dijeron: no existe.

Y que no se hable más.

Y al telar de los mapas

lo arrojaron al mar.

IL TELAIO DELLE MAPPE

Le navi approdarono

da diverse correnti,

per millenni e millenni

le coste del mio sangue,

le baie azzurre,

le penisole cieche,

il respiro del mare.

Gli uomini non vennero

da galassie lontane,

giunsero dalla vita,

la stessa vita e unica

che qui si vide giungere.

La vita che già c’era

dove vive la vita.

La vita al di là del mare.

La vita al di qua del mare.

Il telaio delle mappe

l’ha cancellato il tempo,

i furti, i naufragi,

il lento degrado

di ogni antichità.

Da dove venne allora

questa vita che venne?

E la vita che c’era

Dove è andata a finire?

Ci hanno chiamato Indios

quelli che andavano alle Indie,

mercanti ossessionati,

oscuri tascapani,

cartografie inesatte,

frati esorcisti

che sentirono a fiuto

la mia terra opulenta,

si dissero: non esiste.

E non se ne parli più.

E il telaio delle mappe

lo gettarono a mare.

SEGUNDO INFORME PARA AUSENTES

Es increíble: he muerto

y ando por mi casa.

Vienen amigos. Beben

y, minuciosamente,

se acuerdan del pasado.


Me recuerdan: ¿te acuerdas

de aquello que cantabas?

-¿Cómo era esa del niño?

-¿La del laurel es tuya?

-Yo le oí esa canción

a la Mercedes Sosa.

Hablaba de la tierra…

(puta, si me acordara!)

Era una que decía

que el que no cambia todo

no cambia nada.

Hacé memoria. Dale!

(Puta, mi me acordara!)


Insepulto, le agrego

más brasas al asado.

Pienso en ustedes.

Echo más leña al fuego.

Digo: el humo bombero

me ha mojado esta lágrima.

Pienso a lo lejos. Sé

que no debo llorarlos.

Aunque esté muerto

y ande como Juan por su casa.

SECONDA RELAZIONE PER GLI ASSENTI

É incredibile: sono morto

e vado in giro per casa.

Vengono gli amici. Bevono

e, minuziosamente,

si ricordano del passato.


Mi ricordano: ti ricordi

Di quello che cantavi?

-Com’era quella del bimbo?

-Quella dell’alloro è tua?

-Ho sentito questa canzone

da Mercedes Sosa.

Parlava della terra…

(cazzo, se mi ricordavo!)

Era una che diceva

che chi non cambia tutto

non cambia niente.

Cerca di ricordare. Dai!

(cazzo, se mi ricordavo!)


Insepolto, aggiungo

altre braci all’ arrosto.

Penso a voi.

Butto altra legna al fuoco.

Dico: il fumo pompiere

mi ha bagnato questa lacrima.

Penso a quelli lontani. So

che non devo piangerli.

Anche se sono morto

e vado come Juan in giro per casa.

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foto Anna Fresu

ANNA FRESU Nata a la Maddalena, in Sardegna, si è laureata in Lettere e Filosofia presso l’Università La Sapienza a Roma. Ha seguito numerosi corsi di teatro, tra cui il Teatro Studio, partecipando alla creazione del teatro Spaziozero. È regista, autrice, attrice di teatro, traduttrice e studiosa di letterature africane. Ha condotto numerosi laboratori teatrali nelle scuole di ogni ordine e grado. È presidente delle associazioni culturali “Il Cerchio dell’Incontro” e, fino al 2016, di “Scritti d’Africa”. Nel 1975 ha lavorato in Portogallo come mediatrice culturale nella cooperativa agricola Torrebela. Dal 1977 al 1988 ha vissuto in Mozambico dove ha insegnato e diretto la Scuola Nazionale di Teatro e creato e diretto, col regista e giornalista Mendes de Oliveira, il “Dipartimento di Cinema per l’infanzia e la gioventù” realizzando diversi film che hanno ottenuto riconoscimenti internazionali. Il suo lavoro in Mozambico è stato premiato al Festival del Cinema per lo Sviluppo a Genazzano nel 1991. Sempre nel 1991 ha curato e tradotto dal portoghese con Joyce Lussu le poesie del poeta mozambicano José Craveirinha (Voglio essere tamburo, Centro Internazionale della Grafica, Venezia). Nel 1996 è tornata in Mozambico come collaboratrice RAI per una serie di servizi televisivi e ha realizzato un laboratorio teatrale con i “meninos da rua”, bambini-soldato e vittime della guerra. Nel 2013, ha pubblicato il suo libro di racconti “Sguardi altrove”, Vertigo Edizioni. Sue poesie e racconti sono presenti in diverse antologie. Collabora con alcune riviste on line e blog. In Argentina è stata docente di Lingua e Cultura Italiana presso la Società Dante Alighieri e l’Università di Mendoza e ha partecipato a congressi sulla letteratura italiana e  realizzato diversi spettacoli teatrali. Nel 2018 pubblica il suo più recente libro di poesie “Ponti di corda“, Temperino rosso Edizioni e ha curato l’antologia poetica “Molti nomi ha l’esilio“, Kanaga Edizioni.

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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