ARLECCHINO AL SERVIZIO DI TRE ATTORI – Ferruccio Soleri intervistato da Walter Valeri

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Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni, per la regia di Giorgio Strehler e maschera ricreata da Donato Sartori per il viso di Ferruccio Soleri è in scena da oltre cinquant’anni e ha solcato i palcoscenici di mezzo mondo. E stata una metamorfosi costante, piena di conferme e novità che si sono susseguite nel corso degli allestimenti prodotti dal Piccolo Teatro di Milano. Mentre sono ben trecento e settantaquattro gli anni che ci separano dalla prima edizione, quella del 1647. Tanti i cambiamenti, le platee,  gli applausi; tanti gli attori e le recite, occasioni d’ascolto per il pubblico fornite dai suoi oltre tre secoli di storia. Il primo Arlecchino, con tante effe dentro, si chiamava diversamente. Era Truffaldino, interpretato al ritmo di un mirabolante scioglilingua di Antonio Sacchi, virtuoso della parola. Capace di esercitare sul pubblico una sorta di fono-ipnosi introducendo nel linguaggio indicato dal testo improvvisazioni composte di onomatopee e nonsense. Questo attore, di cui è rimasta memoria negli annali dei Comici dell’Arte, infarciva il testo goldoniano, ancora sotto forma di canovaccio, coi pensieri di Seneca, Montaigne, Machiavelli, Cicerone, etc. Come facevano quasi tutti gli attori professionisti d’allora affinché i potenti potessero tonificare la propria ignoranza, mettere al guinzaglio o alla berlina il sapere dei chierici: artisti, sapienti e intellettuali mantenuti a corte come istruttori dei figli o come veri e propri status-symbol del  potere politico. Un’apparente contraddizione che trova una valida spiegazione nell’uso sociale che spesso si è fatto del rito teatrale cortigiano, del teatro per uso interno. Le città stato del Rinascimento sostituivano in qualche modo il vasto dominio imperiale sulle terre con lo sconfinato e metaforico possesso delle varie arti e del sapere. Fatta salva la Repubblica di Venezia che, per un certo periodo,  lo aveva sia in forma reale che immaginaria. Ma venendo ai nostri giorni, in ordine di tempo, l’ultimo grande interprete della ‘maschera principe’ della Commedia dell’Arte  è indiscutibilmente Ferruccio Soleri. Un Arlecchino rinato nel dopoguerra ad opera di Marcello Moretti, in un clima di slanci e autentico rinnovamento. Moretti ha recitato il suo Arlecchino per la prima volta il 14 luglio del 1947 poi la  maschera, dopo essere tornata grande e importante per milioni di spettatori, è passata nelle mani dell’allievo  Soleri che, indossandola, l’ha a sua volta modificata nei gesti e nei tempi comici. Fra tutte le cose dette di Arlecchino a proposito dell’edizione dell’addio voluta da Strehler, colpiscono le ultime parole pronunciate dall’ Arlecchino-Soleri,  dal palcoscenico di via Rovello: “…no’ sarò più servitor de’ do’ padroni, ma sarò servidor de chi me sente.” Sono parole che Goldoni aveva scritto per  Cupido e che Strehler ha trasferito sul proprio Arlecchino come epigrafe e destino della maschera  indossata splendidamente per anni da Ferruccio Soleri, oggi passata nelle mani dell’altrettanto bravo Enrico Bonavera, per quelle ombre che abitano  scena e regia pensata come un’ incisione a punta secca. Essenziale e perentoria, risaputa e in qualche modo esangue, fatta di lampi estremi, silhouette disossate, continue citazioni estetiche che vengono dal passato di un dopo guerra eroico, fertile di sogni e utopie.

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Quand’è che ha indossato per la prima volta la maschera di Arlecchino?

Per sostituire Marcello Moretti in Servitore di due padroni nel 1960; era già la seconda edizione. Fu una sostituzione temporanea in occasione di una tournée americana. Secondo le leggi del sindacato americano il protagonista doveva essere sostituito per almeno recita alla settimana. E così fui ingaggiato dal Piccolo.

Com’è nata in lei la scelta di diventare attore?

 Facevo teatro già quand’ero all’Università a Firenze e mi ci sono appassionato, ottenendo degli ottimi risultati. Allora ho interrotto l’Università e mi sono iscritto all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma. Già durante il periodo dell’Accademia avevano capito che io ero un possibile Arlecchino. Difatti, in un saggio, mi assegnarono il ruolo d’ Arlecchino in un altro testo di Goldoni La figlia ubbidiente, indipendentemente dalla mia volontà. Ricordo che doveva venire Moretti ad insegnarmi come fare, perché non ne sapevo nulla, e oltretutto ero fiorentino. Ma non fu così perché lui era troppo preso dal lavoro del Piccolo. Quel primo Arlecchino l’ho fatto senza maschera. O meglio, con una maschera dipinta sul viso perché non c’erano soldi. Non potevano comprare le maschere e allora ce le siamo disegnate.

Quindi non pensava alla maschera quando decise di diventare attore?

Fu un ruolo drammatico che mi spinse alla scelta definitiva. Gli altri e soprattutto il caso, in qualche modo, hanno deciso per me.

Quali conflitti sono nati dal momento in cui, come attore, si è messo al servizio della maschera?

Beh, la prima impressione è quasi drammatica, perché si sente un muro che ci separa dal pubblico e dagli altri attori. Poi in breve tempo si scopre che il viso non serve più. Da quel momento tutto ciò che passa sul viso dell’attore, quel viso che si osserva attentamente e sempre, anche se l’attore è a una certa distanza dal pubblico, diventa inutile. Questa scoperta è drammatica. Perché l’attore comincia ad interrogarsi, a chiedersi come fare per sostituire quello strumento che è la sua faccia. Cerca con la voce, ma non è sufficiente. Questo primo momento di panico però comporta anche un certo sollievo.

Perché sollievo?

Sollievo perché improvvisamente il pudore sparisce. E’ come recitare dietro un paravento. Da una parte c’è una limitazione, ma dall’altra si liberano nuove possibilità, completamente impreviste, nuove dimensioni espressive. Tutto questo col tempo, naturalmente. Perché all’inizio è drammatico e basta.

Quali sono i percorsi attraverso i quali l’attore si impossessa della maschera?

La scoperta vera e propria della maschera, per me, è avvenuta solo dopo il 1963. All’inizio, le prime volte che l’ho indossata, dovevo semplicemente imitare quello che faceva Moretti. Tutti i movimenti dovevano portarmi ad essere uguale a lui. Ero un suo doppio. Invece il grosso problema è nato dopo; quando, con la scomparsa di Moretti, ho dovuto affrontare il personaggio di Arlecchino, cercando di farne una cosa mia. Solo in quel momento ho messo in relazione i movimenti del viso, tutto ciò che passa sotto la maschera, trasferendolo sui gesti.

Quando si è reso conto che la maschera di Arlecchino originariamente creata da Amleto Sartori  sarebbe stata il suo personaggio ombra?

Dopo tre o quattro anni che recitavo. Avevo avuto subito delle critiche stupende, resistendo al confronto col grande Arlecchino che mi aveva preceduto. Quindi provavo tutta l’euforia e la gioia che può provare un giovane nel momento del successo. Poi, mi sono reso conto che Strehler mi affidava solo parti d’Arlecchino. E lì è cominciata un po’ la sofferenza e la delusione. Ma poi ho capito che non era una limitazione, ma una straordinaria opportunità.

C’è stato un momento in cui lei ha odiato la maschera di Arlecchino?

Odiato mai. Arlecchino l’ho sempre amato. Era un risentimento nei confronti del teatro, di quel momento particolare in cui si assegnano le parti, questo sì. Ma Arlecchino, in quanto maschera, porta con sé gli obblighi e le “servitù” dell’attore del passato; anche se è un passato presente, tutt’ora accreditabile. E d’altra parte non si può indossare la maschera di Arlecchino se non la si ama, non la si accetta sino in fondo.

Che cosa scopre un attore che usa la maschera rispetto a chi non la usa?

Come prima cosa scopre che la maschera è molto più efficace del viso. La maschera non può ingannare. L’espressione di un viso qualche volta può essere equivocata. In presenza di un sorriso abbozzato è legittimo chiedersi se è un sorriso di divertimento, oppure di compiacimento. Parlo del sorriso ma potrebbe essere anche un’espressione truce, una qualunque espressione. Qualsiasi espressione non ha mai una sola chiave interpretativa; quanto meno .ha delle sfumature psicologiche. Invece la maschera è precisa, è netta. Il significato dell’espressione di una maschera non può essere che quello. Ecco perché il pubblico impazzisce quando vede una maschera; naturalmente quando viene interpretata bene, con la tecnica giusta. Perché diventa tutto facile, tutto chiaro. Il gesto non può essere equivocato, se è equivocato è l’attore che sbaglia nell’esprimersi.

Può fare un esempio?

Se un attore a viso scoperto dice una battuta, e mentre la dice si distrae o viene attratto da un gesto automatico e lancia una breve occhiata ai pollici delle mani che muove in quel momento, in circolo, quell’occhiata e. la sua interpretazione, sarà affidata al pubblico delle prime quattro file. Per gli altri sarà un particolare di nessun rilievo. Ma se la stessa occhiata, e il suo significato, sarà eseguito da un attore con la maschera (per renderla percepibile dovrà muovere la testa come le dita) sarà un gesto chiaro per tutti e anche per l’attore stesso.

Qual è stato il suo rapporto col regista Strehler?

L’indirizzo per scoprire Arlecchino viene certamente da Strehler, come ho già detto. Lui ad esempio che mi ha indicato cosa fare per quanto riguardava la mia voce. Dovevo trovare una voce per Arlecchino che non poteva essere la stessa di tutti i giorni. Essendo un personaggio popolaresco non potevo avere dei toni troppo eleganti o fini; così ho cominciato con gli esercizi per acquistare i toni gravi. Soprattutto mi ha spinto a degli esercizi per attivare ed abbassare il diaframma. Poi leggere il giornale tutto d’un fiato, senza considerare i punti, in modo monotono, appiattendo tutto il suono e schiacciando le tonalità alte; per abituare le corde vocali ad un lavoro diverso dalla normalità. Sempre guardandomi fisso allo specchio, perché la voce deve rispecchiare la maschera. Da un punto di vista gestuale poi, avendo fatto danza classica, a volte rischiavo di diventare un po’ troppo prezioso; allora lui mi ha aiutato a prendere terra.

Trattando l’argomento e ricordando Moretti, alcuni affermano che l’Arlecchino di Moretti fosse più vicino allo  Zanni e a Ruzante, perché meno raffinato, meno aereo di come lo rappresenta lei.

Io sono più acrobatico, certo, ma entrambe le nostre interpretazioni restano di area goldoniana. Le situazioni teatrali sono goldoniane. Anche Moretti era abbastanza mobile e il costume, d’altra parte è rimasto immutato.  La voce forse era diversa. Questo sì. Lui aveva per sua natura una voce greve, spessa, un timbro profondo che contrastava con la sua bassa statura. In questo forse poteva ricordare qualcosa degli Zanni; così come oggi si immagina che fossero. Moretti era quasi naturalistico, come gestualità intendo dire, a parte alcuni passettini che a tratti accennava. Quindi era più statico. Ma tra questo e la corposità di uno Zanni credo che ce ne passi.

 

Che esperienza ha ricavato dal recitare con la maschera di Arlecchino?

 

Si apprende e stabilisce una sorta di linguaggio universale. Persino in Giappone, ad esempio, paese di cultura così diversa da sembrare estraneo a noi, dopo i primi dieci minuti di gelo assoluto, quando il pubblico è entrato nel gioco teatrale. Ha capito come si sviluppa  la vicenda e chi è la maschera che indosso, si ristabilisce il dialogo. Non si sa più se si è in Germania, in Austria, in America o in Africa; in quanto questa gestualità, la vivezza che ha l maschera di Arlecchino è una chiave culturale passa-par-tout. E’ una capacità di comunicare universale. Noi della Compagnia cci stupivamo di come a volte il pubblico ridesse sulle battute. Si scopre così che i comici dell’Arte non erano solo dei virtuosi della pantomima e del movimento, ma erano virtuosi del canto, della recitazione e della comunicazione pura e semplice. Un’altra cosa che si scopre è che la lingua che noi usiamo sulla scena è una lingua soprattutto teatrale; e le situazioni che si sviluppano sono nate anche in previsione del fatto che si sarebbero recitate in presenza di pubblici diversi. Nel mio Arlecchino io do colore e il massimo dell’intenzione alle parole. Il risultato è che il pubblico ride e capisce anche grazie ai suoni, alla comicità intrinseca che è nei suoni che compongono le parole. Tutti i grandi Arlecchini, già dal ‘500, giravano il mondo e venivano capiti proprio per questa straordinaria e semplice ragione. Si potrebbe addirittura procedere ad uno studio etnografico e antropologico a partire dalle reazioni di diversi pubblici in presenza di una medesima situazione teatrale.

 

Cosa intende precisamente?

 

C’è un gesto che io faccio spesso, quello di portare le mani dal basso verso l’alto, compiendo due semicerchi girando le palme in su. Ebbene qui in Europa non succedo nulla. Nei paesi arabi invece impazzivano tutte le volte che lo facevo.

 

Lei è riuscito a capire perché?

 

No di certo. Registravo tutto da un punto di vista teatrale. In presenza della loro reazione cercavo di cambiare ritmo della recita, per non strafare con le risate, ma ancora oggi non ho capito.

 

Che cosa c’è di contemporaneo e di antico nella maschera di Arlecchino?

 

Di antico c’è la sua storia e soprattutto la storia dei teatro italiano. Le radici profonde e anche un poco misteriose del nostro teatro e. soprattutto, del teatro fatto da professionisti. Per quanto  invece riguarda il personaggio particolare del servo, rappresentato da Arlecchino, è chiaro che non esiste più. Il servo di oggi ha la macchina. va in metropolitana. i nei COBAS o nel sindacato, cambia il frigorifero se perde acqua. Non credo che si possa parlare di servo oggi. I sociologi hanno già detto tutto a proposito di queste differenze. Gia l’ultimo vero Arlecchino non portava neppure la maschera, era Charlot. oppure  Totò.

 

E Dario Fo non è un Arlecchino moderno?

 

Dario Fo non è un Arlecchino. Lui non fa la Commedia dell’Arte. Su questo abbiamo anche polemizzato. Perché la Commedia dell’Arte ha tre cose fondamentali: l’improvvisazione, che lui ha e fa. La maschera, che lui solo ultimamente e solo per poche volte senza decidersi, ha usato. La terza cosa che lui non usa mai, ed e la cosa più importante: è il tipo fisso. In ogni commedia lui è un personaggio diverso. Charlot era sempre Dharlot, anche se non aveva, la maschera. E poi viveva ancora nei primi del  ‘900 dove esisteva Io sradicato, ingenuo e non violento. Oggi un tipo del genere va subito visto e collegato alla piccola criminalità metropolitana. Può essere un picaro, ma non Arlecchino.

 

L’ultima maschera della Commedia dell’Arte era proprio fiorentina. E’ nata agli inizi del 1800 e si chiamava Stenterello. Lei ha mai lavorato con questa maschera?

 

No, non ci ho mai lavorato. E la maschera che ho visto diverse volte quando ero ragazzino, ma non l’ho mai usata, né  credo abbia avuto grande successo fuori da Firenze. Era una maschera che comunque- veniva usata più in situazioni farsesche che per la Commedia dell’Arte.

 

Che differenza c’è tra Farsa  e Commedia dell’Arte?

 

La Farsa è  uno spettacolo dove si cerca costantemente dì far ridere. Il suo testo è immediatamente e chiaramente comico.  Si cercano unicamente gli effetti comici. Alla fine dello spettacolo si contano le risate ottenute come indice di gradimento del pubblico. E difatti anche solo leggendo una farsa Si può provare un grande godimento. La Commedia dell’Arte no. Nel canovaccio si cerca una storia divertente, plausibile, ma niente di più. E poi, durante la rappresentazione della storia si interviene con le improvvisazioni. Queste improvvisazioni sono già previste negli scenari, ma non stabilite, non almeno nel dettaglio.  Era una storia normale, naturalmente non drammatica, su cui l’attore interveniva introducendo il suo bagaglio personale e modificando certe battute. il ritmo della recitazione, a seconda della serata, del pubblico e della situazione in cui si trovava a recitare. Ogni attore. aveva i suoi lazzi, le sue improvvisazioni.

 

Quindi il lazzo e l’ improvvisazione in qualche modo non devono essere inclusi nella trama e fuori della storia.

 

Nella storia e previsto un momento in cui la genialità, il talento dell’attore può, anzi deve esprimersi, perché la storia possa andare avanti. E’ chiaro che ci vuole una grande fiducia nell’attore e occorre anche che l’attore se la meriti questa fiducia. In Francia la Commedia dell’Arte ebbe un grande successo anche grazie ai virtuosismi degli attori italiani. Basti pensare alla famiglia degli Andreini, al Biancolelli, etc; ma divenne, con la scomparsa degli italiani quasi subito farsa. Pensiamo alle famose farse di Mastro Patelin su su sino a Feydeau.

 

L’attore che da giovane ha recitato l’Arlecchino, con la decadenza fisica, passa  alla maschera di Pantalone, il grande vecchio della Commedia dell’Arte. Lei cosa farà?

 

Ho già cominciato a lavorare su Pantalone e l’ho portato in scena una prima volta. Sicuramente farò ancora Pantalone, ma non credo che li farò con Strehler perché in me lui ormai vede l’Arlecchino e non mi chieder mai di fare un Pantalone. Questo lo farò per continuità e tradizione.

 

Quali sono i suoi legami con la tradizione?

 

Quando ho introdotto qualcosa di nuovo o di particolare nell’uso della maschera di Arlecchino, non l’ho fatto perché radicalmente nuovo, in quanto moderno rispetto alla tradizione. Ma semplicemente perché attraverso le mie ricerche e quelle di altri, naturalmente, ho scoperto che alcune cose del passato non venivano più fatte e non altro. Il teatro in maschera della Commedia dell’Arte non è un teatro traducibile in un’ambientazione moderna. Come può essere per Shakespeare o Sofocle.

 

La fama della maschera  spesso mette in second’ordine l’individualità dell’attore  che l’indossa, per una secolare ed anche epica personalità che ogni maschera porta con sè . Questo l’ha fatta soffrire?

 

Non importa. L’importante è che abbia dato qualcosa agli altri, al mondo.

 

(da) FARFALLE CHE PUNGONO, di Walter Valeri

prossima pubblicazione presso Società Editrice “Il Ponte Vecchio”

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Riguardo il macchinista

Walter Valeri

Walter Valeri poeta, scrittore e drammaturgo è stato assistente del premio Nobel Dario Fo e Franca Rame dal 1980 al 1995. Ha fondato il Cantiere Internazionale Teatro Giovani di Forlì nel 1999. Successivamente ha diretto il festival internazionale di poesia Il Porto dei Poeti a Cesenatico nel 2008 e L’Orecchio di Dioniso a Forli' nel 2016. Ha tradotto vari testi di poesia, prosa e teatro. Opere recenti Ora settima (terza edizione, Il Ponte Vecchio, 2014) Biting The Sun ( Boston Haiku Society, 2014), Haiku: Il mio nome/My name (qudu edizioni, 2015) Parodie del buio (Il Ponte Vecchio, 2017) Arlecchino e il profumo dei soldi (Il Ponte Vecchio, 2018) Il Dario Furioso (Il Ponte Vecchio, 2020). Collabora alle riviste internazionali Teatri delle diversità, Sipario, lamacchinasognante.com Dal 2020 dirige i progetti speciali del Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”. È membro della direzione del prestigioso Poets’ Theatre di Cambridge (USA).

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