Gli occhi di Sofia, in questa raccolta poetica, sono quelli attraverso i quali l’autrice vede il mondo, lo traccia, lo straccia, lo definisce, lo perde e lo continua a cercare in tutte le pagine. Sofia è il suo eteronimo che: “Muore ogni giorno più o meno alla stessa ora / sulle scale del condominio / inerme a Milano / dentro un cono gelato / al cemento / sfogliando resti di margherite / al Parco Nord. […]È quella che si ferma a fotografare le nuvole / a pioggia sui grattacieli, respira / col fiato di chi ha sempre 11 anni, / rincorre farfalle ai limiti del cielo. / Tutta la vita a cercare di appartenere a qualcos’altro / oltre che a sé stessa”.
In questo incipit si trovano diversi spunti che ricorreranno nei testi successivi. Vi è lo sguardo perennemente bambino della poeta che, come i fanciulli, non accetta ipocrisie, giri di parole e falsità. Il linguaggio usato nella raccolta è apparentemente semplice e quotidiano, ma si coglie dietro l’uso di un certo sostantivo o di un determinato aggettivo invece di possibili sinonimi, l’attenzione dell’autrice nella creazione di un verso armonico. Verusca riesce a creare all’improvviso uno spostamento di significato rispetto al senso comune delle cose, riesce a realizzare cortocircuiti, opposizioni e contrapposizioni giocando con i cinque sensi. All’animo rimasto fanciullo si deve anche l’invenzione di neologismi come “Disperdimondo”, “Nuvolefa”, “Strappacasa” e “Tornaterra”.
Altro tema dichiarato dall’incipit è la ricerca di appartenenza, di identità che passa attraverso il viaggio. Ci sono, infatti, alcune poesie scritte a Dallas nel 2009 e 2010, in altre appaiono nomi di città quali Beirut, Venezia, Londra e Mestre, infine c’è il ritorno a Firenze, città d’elezione della poeta. Nei versi di “La fine della città” l’autrice, dopo tanto viaggiare fisicamente e coll’anima, percepisce il rovesciamento dei termini del problema: la sua difficoltà nel trovare una propria dimensione spaziale in cui fermarsi dipende dal fatto che: “La città è finita / non c’è più / se ne è andata / scappata / migrata / città migrante / stanca di raccoglier gente / e speranza in cambio niente …”.
Il rapporto con la dimensione di una “stabilità”, della quotidianità di un menage con un ipotetico partner, viene vissuto da Sofia in modo problematico: “Casa che va, casa che resta. / Casa ce l’hai, casa manca. / Casa dimora di riti autistici inchiodati al pianto del ricordo”. Convivono nella Sofia – Verusca la ricerca della dimensione del “nido” e il terrore di restarne schiacciata. Si alternano addii e ritorni, amarezza e consapevolezza di quanto sia difficoltosa questa ricerca di sé stessa condotta con trasparenza estrema.
L’uso dell’inglese e del francese in auto traduzione rientrano in questa identità composta dell’autrice, in questa sua lunga ricerca che intravvede nel finale una ricomposizione: “E dentro sé lei pensava / polvere / alla polvere / ritorno / al ritorno / ci disperdiamo infinite volte / ma è solo una, / la terra a cui si torna”.
Sofia
Sofia si veste al contrario
e ha gli occhi sulla luna.
Muore ogni giorno più o meno alla stessa ora
sulle scale del condominio
inerme a Milano
dentro un cono gelato
al cemento
sfogliando resti di margherite
al Parco Nord.
Muore
di attese e ritorni spalmati di miele
invischiati nel sapore di un ricordo.
È quella che si ferma a fotografare le nuvole
a pioggia sui grattacieli, respira
col fiato di chi ha sempre 11 anni,
rincorre farfalle ai limiti del cielo.
Tutta la vita a cercare di appartenere a qualcos’altro
oltre che a sé stessa.
Andata
La strada verso casa
era latte-scremato-bambino
all’alimentari del centro
e gambe-sottili-bambine
su piazza degli Scacchi
a rincorrere sogni e colline.
Poi fu tempo di donna
e la strada verso casa
si fece di scogli di mare
di baci rubati a una canzone di Elton John
di piedi strisciati su piazza dei Martiri
a rincorrere maschi sguardi
a ripetere il tuo: “Io da qui non me ne andrò”.
E quante volte invece te ne saresti andata.
Ibridismi
Nella valigia racchiude resti di fuso orario,
e di giorno risciacqua l’identità con acqua di rosa.
Sono i ritmi del respiro che coglie nel ventre di chi
incontra,
non le differenze,
e quel petto ora batte con lo stesso desiderio.
Non trattiene i dolori del mondo Sofia,
ma sa bene il profumo dei corpi a cui ha stretto
l’anima.
Bellezza al veleno
Dallas, 2009
Ingoia il centro dolce della città
e fluttua in un mare di euforia.
La spinge in basso
la fa crollare a picco
ove l’attende
solo suolo nudo.
Un coro d’uccelli marini nell’azzurro
e sirene smeraldo d’incanto
osservano la sua lenta discesa.
Quando il corpo riappare in superficie
lei è ricolma di bellezza,
e di veleno.
Angeli
I rapporti impenetrabili
le scie dei gelsomini di Mestre
scarpe stanche sul davanzale
e le paure sul comodino.
Quei due non sono angeli
ma gli angeli li attendono sotto casa
taciturni al tavolo di un ristorante
o atterrati ai binari di una stazione.
Dipende sempre dalle circostanze
ma le circostanze fanno la differenza
fanno lei che gli dorme accanto
o lui che si riveste e se ne va.
C’è che a volte l’apparenza urla
il biancore non fa chiarezza
la pazienza sola non basta
e una bocca non porta pace.
Lui sempreverde vincente di partenze scomposte,
lei arresa e rasa a suoli smarriti in attesa di angeli.
Rinascite
Dove cresce lo sbaglio?
Ieri mattina era in cucina
sul davanzale un abbaglio
di luce negata alla credenza.
I figli dormono la verità
delle coperte con cura
le tarme scavalcano inverni
negli armadi dell’imbroglio.
Le ciglia colorano un nero
che sa solo cavarle gli occhi.
Sofia ricama la pazienza
inghiotte sbaglio e sbadiglio
lo regge due secondi sulle dita
a osservarla meglio
la ferita strappa stoviglie
a morsi a saggiarne i contorni,
arretra dal frigo il passo giusto
rinasce
primula dal pavimento.
La fine della città
La città è finita
non c’è più
se ne è andata
scappata
migrata
città migrante
stanca di raccoglier gente
e speranza in cambio niente.
La città sogna il tocco di nuovi piedi
sui marciapiedi
cadere innamorata di nuovi gabbiani
nei cieli lontani
planare dentro i sogni in bilico sui cornicioni
accanto ai gatti sui tetti in calore
prima di addormentarsi sfatta di smog e sonno
sulle punte degli alberi in fiore.
Che fine (l’impossedibile)
Spazi. Sofia gli dice che avranno
sere sfatte di ossa sui divani
al riparo dai venti.
Le loro voci si sazieranno
bastandosi nelle onde tivù, avranno
coperte rinfuse a salvarsi i ginocchi
e gli occhi, lei accenderà luci candele
e lui le spegnerà a risate,
si parleranno bocca in bocca
come parenti ritrovati in un ricordo.
Lui le ricorderà che possiede il mondo
lei gli ripeterà che non possiede
l’impossedibile:
un amore a lunga prova di scadenza
la certezza del sogno
le città che le hanno camminato gli anni.
La tregua somiglia così tanto
al respiro di certe sere salvavita
e quei due ancora non sanno
che fine gli faranno
le mani e i pianti.
Tornaterra
Sofia passava da lui la sera
a fumarsi una sigaretta.
Diceva la primavera da sola
non le bastava.
Lui seduto sul divano
non la guardava,
lei era troppa cosa da sostenere.
Restavano in silenzio anche per ore,
lo sguardo schermo
tra risate Sordi e bronci Pasolini,
lui a innamorarsi dei morti,
lei dei viventi.
E dentro sé lei pensava
polvere
alla polvere
ritorno
al ritorno
ci disperdiamo infinite volte
ma è solo una,
la terra a cui si torna.
Verusca Costenaro (Marostica, 1974), laurea in Lingue e Letterature Straniere (Università Ca’ Foscari Venezia) e dottorato in Linguistica Inglese (Università degli Studi di Padova), vive e lavora a Firenze. Ha pubblicato La misura che non si colma (LunaNera, 2013) e la plaquette Senza il sogno e con la pazienza (Le Murate, 2017). Sue poesie hanno ottenuto menzione speciale al Festival DialogArti, e al concorso “San Domenichino”. Come traduttrice ha curato la raccolta Canto Mediterraneo di Nathalie Handal (Ronzani, 2018).
Foto dell’autrice a cura di Verusca Costenaro.
Foto in evidenza di Tracy Allen.