APPELLO: racconto della scrittrice argentina Susana Szwarc

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APPELLO

Susana Szwarc

(traduzione di Lucia Cupertino)

 

 

A causa di un brutto colpo di equilibrio, lui, il professore, mi fece incespicare. La sua uscita mi scosse.
Ero
magra io, ancora, per la fame. Non da adesso, ma da quando ero Stachka, bambina, puttana orfana, fragile nuvola. È per questo che mi è rimasta l’abitudine di -gettata ovunque, su una zolla di terra, una banchina- guardare il cielo, ritrovare le spesse nuvole, nutrite e solo così, rivolta a quelle nuvole, ansimo, urlo, il mondo entra nella mia bocca. Credo che quando il professore mi conobbe, io menavo avanti raccontando quelle storie che mia madre ci raccontava durante l’infanzia e che ci facevano ridere fino a farci addormentare… Mia madre era solita dire:

in una piccola città, in Polonia, vivevano due vecchi che una vecchia casetta avevano e delle verdure che seminavano vivevano. Ma quando il freddo rigido segnò i 25 gradi sottozero…

(era qui che mia madre si fermava, non ricordava se l’acqua s’era ghiacciata o, dall’oblio, era rimasta molto fredda, e come se fosse stata in quelle acque, cominciava a respirare male, ad annegare, a tremare. Ma a quel punto le figlie le tendevamo le mani, le tendevamo i vestiti e lei ricominciava a raccontare)

la vecchietta morì. Il vecchietto dapprima pianse molto perché sapeva che non c’era altro nella vita che piangere e ridere, a seconda dell’occasione. Quando smise di piangere, gli venne in mente di metter su una bancarella per vendere caramelle che quasi sempre regalava. Così fece, si sedette all’angolo della strada principale e viveva di questo. Sempre felice, di buon umore, insegnava a guardare la forma delle nuvole. Ma un giorno un vicino venne e gli disse: Devo dirti qualcosa di molto triste. Il vecchietto lo guardò: cosa può accadermi di peggio di quello che mi è successo? Il vicino che strascicava le parole gli disse: la tua vecchia casa è in fiamme. E il vecchio con il suo sorriso gli rispose: ottimo, andranno in fiaame dunque anche le pulci, gli insetti, i didelfi.

Ci piaceva la parola didelfi.
-Che sono i didelfi, signorina? – chiesi l’unico giorno in cui andai a scuola.
La signorina rispose:
-Sono marsupiali, Luci.
Da allora ho iniziato a chiamarmi Luci. Ho anche lasciato la scuola. Il pane che davano era troppo piccolo, il mondo molto grande. La maestra non sapeva spiegare cosa fosse un didelfo.

A volte bisogna tornare su un certo punto della storia per credere d’averla digerita. Il professore era entusiasta della parola didelfo tratta dalla storia di mia madre e del fatto che la citassi. Mi chiese:
-Luci, sai cos’è un didelfo?
-Certo -risposi- è un marsupiale.
Mi applaudiva. Era commosso per la mia magrezza, sapendo che un didelfo era un marsupiale e un marsupiale un didelfo. Gli piaceva anche il mio nome: Luci.


-Luci -disse- sei magra come le ossa ritrovate della prima donna.
-¿Eva?
-No, Luci, l’africana. Nostra madre, mezza scimmia, mezza donna. Le sue ossa furono trovate sparse.

Perlustravo le ossa delle mie mani che, come tutte le mie ossa, sporgevano dalla mia pelle. Portai ognuna delle mie dita alla bocca, felice di trovare quel sapore e lui, il professore, anche lui mi diede le sue dita. Le leccai fino alla nausea.
-Ah, Lula! -disse il professore.
Penso che lì ebbero inizio i malintesi. Per lui, che leccassi le mie dita e le sue, gli provocava quasi
lo stesso ansimare che a me lo sguardo delle nuvole.

Tuttavia saziavo la fame. Quella fame vecchia, della parte animale di Luci. Secoli di fame avevo. Ma in quel frangente non ero né Stachka né Luci né Lula. Il professore trovò altri nomi. A volte mentre stavo mangiando – gli leccavo le dita – lui gridava Cherna e gridava Mara. In seguito, chiesi loro di andarsene.

Per un po’ mi visitò sulle piattaforme, nelle piazze, nei circhi, laddove trovavo un posto per le mie ossa e la mia pelle. Il professore, travolto dalla mia magrezza, cominciò a stringermi i capezzoli, a succhiarli. È più affamato di me, pensai. Pensai fosse necessario dirgli la verità.
– Non ho più latte, professore, ragazzo mio. Ho avuto figlie, avevano fame, le ho allattate molto, tutto. Ricche,
mi hanno abbandonata. E ballano, ballano in tutto il mondo. Questo è ciò che seppi dare.

Per alcuni giorni il professore smise di visitarmi. Mi dimenticai di lui. Ma tornò.
A volte aveva strane idee. Per esempio, diceva che la mia pelle era una sua estensione, quindi ero parte di lui. E sulla mia pelle annotò: “appel“. In seguito seppi che era una parola straniera, significava chiamare, appellare. Ma in quel momento pensavo avesse scritto: “carta” in segreto e che voleva dalla mia pelle, la carta, di più. Soprattutto quando portò a vivere nei dintorni. Una piccola casa, stanza, cucina, bagno, per me, molto vicino a casa sua in città.
Il professore viveva in un edificio alto come una montagna. Dalla sua finestra si vedevano le migliori nuvole e la sproporzione delle stelle. Nella sua cucina il formaggio abbondava.
Iniziai a mangiare, a ingrassare. Affinché in me ci fosse più pelle, più carta, più “appel“. A volte, ero tentata dall’acqua.

Un giorno gli dissi “Non sono più io”. Lui disse:
-È vero, Inés, stai ingrassando.
-Professore, lei mi
fa tenerezza.
Si era abituato ad entrare in me. Le dita nella mia bocca e la lingua. Anche il suo membro quando cresceva raggiungeva la mia bocca e seguiva un percorso
verso la mia morbidezza fino a tutto ciò che era aperto, vuoto. Il suo modo di occuparsi di me, di attraversarmi, ha cambiato il mio tempo, il cielo, i sentieri. Sono tornato a Stachka, la ricordavo appena e mi piaceva camminare in giro per la città, occupare completamente due sole sedie e occupare quasi tutto il letto del professore che, mangiando tanto quanto me, non era né grasso né magro.
Essere grassa mi riempiva di orgoglio. Mi guardò tra le nuvole dall’alta finestra della casa del professore, e io ero una di quelle. Il professore smise di percorrermi, smise di portarmi le dita alla bocca. Ora, a volte, mi stringeva forte i capezzoli. Ho trovato nel suo gesto e nel mio – lui farmi male, io sopportare – una parola. Amore.

Fino a quel momento me n’ero sempre andava dalla sua casa, le sue nuvole, i suoi silenzi, prima del canto dei primi uccelli. Quando trovai quella precisa parola nella mia bocca gli chiesi:
– Portami con te durante una sola notte. La mia fame ora è più forte. Mi mangerei le nuvole che stanno entrando dalla sua finestra.
Mi guardò con gli occhi fissi. Vide una grassa Agnes, morbida. Gli lessi lo sguardo “troppa carta”. Disse:
– Prendere distanza. Adesso è il momento. Le tue ossa, eh? Le tue ossa non sono più visibili.
Dal momento che fui una sola volta a scuola, non
mi era molto chiaro il significato di “prendere distanza”. Suonava alle mie orecchie come didelfo. Così quando mi disse “distanza”, mi avvicinai. Non ho mai assistito ad un gesto così orribile. Né il freddo né la fame fecero scaturire un tale gesto. Sapevo, quasi allo stesso tempo, di amore e paura.
Vidi le nuvole gonfie come me, gonfie come quegli uccelli fregata con le loro sacche rosse, entravano dalla finestra, aderivano a me, piovevano e come il mio ruolo tornava
ad un vecchio stampo. Sapevo, allo stesso tempo, che la gentilezza che emanavo, la mia grassezza, la mia pelle in più, erano state scambiate per un gesto di barbarie.

Il professore tossiva a causa della pioggia e lo sguardo che mi rivolgeva era di accusa e ripudio. Non mi chiamò. Non mi chiamò per giorni.
Lo spiai. Lo vidi fare dighe contro l’acqua piovana che, senza motivo, si installa
va ovunque. Le mie pareti divennero liquide. E lì, dove molto tempo fa avevano picchiato l’orfana Stachka, crebbe una lacrima violetta, un occhio in una composta.
Raggiunsi la casa del professore. Tremavo di paura perché avevo già dimenticato la magrezza e il camminare da sola con la mia pelle. Inoltre, solo il professore conosceva quella storia della Luci africana. Volevo entrare. Così, magra, non era nemmeno necessario aprire la porta. Ma lui mise sue mani, le sue dita, contro quella porta. Coprì gli interstizi, non mi fece entrare.

Diceva di non ricordare Luci, che qualcuno così magro poteva essere solo un animale. Ascoltai animale, anima, anima.
Volevo combattere, parlare. Gli dissi che quella cosa – la forma delle sue dita nella mia bocca, sui miei capezzoli, la saliva delle nuvole per lui – erano nati prima di noi.
Lui non ascoltava. Gridai ancora una volta – tanto cibo che pensavo mi avesse dato – sono io e non sono io. Ma la sua sordità di professore mi si ribellava contro. Il viola della lacrima divenne
frusta, poi rugiada. Proseguii. Sebbene non ci fosse altro che un punto di partenza.
Riuscì
tuttavia a dire:
-Professore, ogni nuvola che guard
erà, anche i tronchi degli alberi, i loro rami e ogni didelfo che toccherà, saranno me. Vedrà come la guarderanno, su una pelle come questa.
Quando
s’era già allontanato – vicino al dolce rabbioso Stachka – abbastanza lontano da non farci a pezzi, sentii il suo sguardo fisso.

SzwarcSUSANA SZWARC è nata a Quitilipi (Provincia del Chaco, Argentina) nel 1954 e vive a Buenos Aires. Ha pubblicato sia libri di poesia che di narrativa, tra i quali: El artista del sueño y otros cuentos (1981); En lo separado, (poesia, 1988); Trenzas, (romanzo, 1991); Bailen las estepas (poesia, 1999); Bárbara dice (poesia, 2004 e 2005; tradotto in francese e pubblicato in Francia nel 2013); El azar cruje (racconti, 2006); Una felicidad liviana, cuentos (2007); Aves de Paso (poesia, 2009) e El ojo de Celan (poesia, 2014). È del 2014 l’antologia La mesa roja. Ha pubblicato anche libri per l’infanzia, tra i quali: Había una vez una gota (1996); Había una vez un circo (1996); Salirse del camino y otros cuentos (1997) e Tres gatos locos (2010). Ha scritto commedie (rappresentate in vari teatri argentini) e un suo racconto è stato adattato, dal compositore Cristian Varela, per una rappresentazione operistica. Ha curato antologie, tra le quali Cuentos Ecológicos (1996) e Mujeres 3, Visiones en el siglo (1998). Suoi testi (poetici e narrativi) sono stati inseriti in lavori collettivi, sia in Argentina che all’estero, e tradotti in diverse lingue. Dal 1985 coordina seminari di lettura e laboratori poetici. Ha ricevuto numerosi premi letterari, sia per la poesia che per la prosa.

Traduzione di Lucia Cupertino
Foto in copertina di Lucia Cupertino

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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