A luglio di quest’anno a Fermo, il trentaseienne richiedente asilo nigeriano Emmanuel Chidi Nnamdi è stato massacrato di botte e ucciso dall’italiano Amedeo Mancini, noto ultrà, associato anche alla sezione locale di CasaPound. Emmanuel e la compagna Chinyere erano riusciti a fuggire dalla violenza di Boko Haram (avevano entrambi perso i genitori e una figlia durante un attentato) e avevano intrapreso un pericolosissimo viaggio attraverso la Libia e poi il Mediterraneo, arrivando infine a Palermo. Dallo scorso settembre erano ospiti del seminario vescovile di Fermo.
Nel pomeriggio del 5 luglio, Emmanuel e Chinyere camminavano per strada quando due uomini iniziarono ad insultarli, a un certo punto chiamando la donna “scimmia africana”. In risposta al tentativo di Emmanuel di reagire per difenderla, Mancini strappò da terra un segnale stradale iniziando a colpirlo. Emmanuel entrò in coma e morì il giorno successivo. Con un gesto di grande umanità, che dimostrava la sua capacità di andare oltre un ben giustificabile risentimento per quanto era accaduto al compagno, Chinyere generosamente tentò di fare la donazione degli organi per l’espianto (è in corso anche una campagna per fare intitolare una sala di medicina all’Università di Bologna alla memoria di Emmanuel, (vedi appello su Change e vedi articolo di Riflessioni nel numero 4 de lamacchinasognante.com )
In Italia, il movimento anti-razzista esprime un’impostazione compatibile con una tendenza più ampiamente presente in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale secondo cui poiché la razza non esiste a livello biologico, ed è quindi un concetto non scientifico, è meglio evitare i suoi effetti nocivi cercando altrove le cause della violenza, per essere esatti nella sfera dei sentimenti, come ad esempio la paura. Nel tentativo di sbarazzarsi del termine “razza” molti nel movimento antirazzista in Italia hanno preferito utilizzare termini quali “xenofobia”, che mette in risalto la paura dello straniero, o hanno trovato conforto in concetti come “differenza” “alterità”, non badando al fatto che entrambi presuppongono uno stato normativo sullo sfondo del quale spiccano “l’altro” o “il diverso”.
In Italia non si è ancora completamente sviluppato un movimento contro il razzismo guidato da neri o da altre persone non bianche; le mobilitazioni anti-razziste rimangono principalmente in mano agli “alleati “italiani bianchi e, almeno in passato, erano soggette alla potente influenza dei partiti politici e dei sindacati. Inoltre, negli ultimi decenni si è vista una fusione tra razzismo e migrazione. Nonostante il crescente numero di studiosi che lavorano in Italia che ora affrontano il concetto di razza tramite studi critici sulla razza e bianchezza (ad esempio il collettivo di ricerca InterGRace il volume collettaneo “Il colore della nazione”) siamo solo all’inizio di questo lavoro fondamentale che comincia ad essere considerato sia nel mainstream dell’antirazzismo che nelle formazioni emergenti di organizzazioni nere autonome in Italia.
Secondo alcuni, impostare l’antirazzismo in Italia come “movimento in solidarietà” (con sottocorrenti marxiste e cattoliche) è una necessità demografica per il semplice fatto che la popolazione nera è esigua, ma tale argomentazione risulta insufficiente. Sebbene il governo italiano non raccolga dati statistici sulla razza, ci sono oltre un milione di africani che vivono in Italia, circa un terzo dei quali provenienti dai paesi dell’Africa sub-sahariana (queste cifre non comprendono le persone senza documenti o chi ha già acquisito la cittadinanza italiana).
Sono quindi questioni su cui è della massima importanza fare chiarezza, particolarmente in un paese che rifiuta di fare i conti – o forse come scrive lo storico Alessandro Triulzi – un paese che riconfigura selettivamente e con nostalgia il proprio passato coloniale e blocca preventivamente qualsiasi discussione nella sfera pubblica sulla razza e il privilegio bianco. Ad esempio, ad Affile, nel Lazio, le istituzioni hanno autorizzato la costruzione di un mausoleo dedicato al generale Rodolfo Graziani, noto con il soprannome de “il macellaio di Fezzan”. Nel corso di un periodo di guerre coloniali di 30 anni in Libia e nel Corno d’Africa, Graziani utilizzò l’iprite contro la popolazione etiope e bombardò gli ospedali della Croce Rossa. Il suo nome appariva, quindi, negli elenchi delle Nazioni Unite come criminale di guerra.
Nonostante questo, alcune persone, dichiaratamente di sinistra, affermano che descrivere situazioni come l’omicidio di Emmanuel Chidi Nnamdi con la parola razzismo costituisce una sorta di pigrizia intellettuale perché così facendo si reifica la categoria “razza” che è stata scientificamente delegittimata. Ma il vero problema non è il termine “razzismo”. Dopotutto, la razza non è stata mai solo una questione di sangue o di colore della pelle, questo concetto mobile è emerso per legittimare i progetti di riconfigurazione del mondo attraverso la violenza del colonialismo, dell’imperialismo e dello schiavismo. Solo perché la razza a livello biologico è un concetto fittizio questo non vuol dire che non continui a plasmare in maniera profonda la vita delle persone come realtà sociale ed asse di dominio.
Perfino il progetto risorgimentale ha dato luogo a serie contestazioni sul carattere razziale della nascente nazione italiana, dando alla luce le proprie scuole di teorici della razza, tra cui Cesare Lombroso (considerato padre della criminologia moderna) e lo studioso di statistica, sociologo e criminologo Alfredo Niceforo. Alla fine del diciannovesimo secolo e nei primi decenni del Novecento , l’Italia si definiva in termini razziali sia in relazione alla sua divisione interna tra Nord e Sud e sia per quanto riguardava il suo crescente impero oltremare.
Dopo la seconda guerra mondiale, all’interno della corrente principale di anti-razzismo europeo, la razza è stata respinta per i suoi legami agli orrori dell’eugenetica fascista e delle leggi razziali . Tale “evaporazione razziale“, come la definisce David Theo Goldberg (concetto che è stato poi ulteriormente elaborato per il caso italiano da Gaia Giuliani e Cristina Lombardi-Diop), funziona relegando convenientemente l’idea di razza al passato in un tentativo di sigillare metaforicamente il passato fascista e il colonialismo. Ma, naturalmente, il passato non è mai morto. Secondo gli studiosi Dace Dzenovska, Alana Lentin e Kamala Viswewaran, “l’antirazzismo senza razza” si prefigge l’eliminazione del termine “razza” come obiettivo per i progetti antirazzisti e non la distruzione di strutture di potere sedimentate nel tempo che stanno alla base della creazione di categorie razziali attraverso le quali i gruppi vengono assoggettati in maniera diversa.
In altre parole, Emmanuel Chidi Nnamdi è stato ucciso da un sistema razzista che legittima le vili azioni di individui fascisti. E’ stato la vittima non tanto dell’aberrante fobia per la differenza nutrita dall’assassino, o della parola razza, quanto di un sistema globale razzista che si affida alla costruzione sociale della razza per rendere uccidibili le vite di persone nere. Per cui, bandire la parola “razza” non elimina in alcun modo il razzismo. ma sortisce invece l’effetto di indebolire l’attivismo antirazzista negando la legittimità dell’esperienza del vissuto di razzismo che si trovano ad affrontare i neri. L’unico effetto della ricerca di categorie alternative come etnicità o cultura è quello di spostare su di esse la durezza e gli echi della categoria “razza”, la cui casella, non nominando più quella parola, è stata liberata.
Per tale motivo non possiamo semplicemente iniziare dalla prospettiva del “siamo tutti i umani” se certi gruppi non sono mai stati riconosciuti come completamente umani. E’ per questo che Amedeo Mancini si è sentito giustificato nel chiamare, Chinyere, la moglie di Emamnuel Chidi Nnamdi, “scimmia africana” prima di pestarlo a morte in una strada di Fermo. E’ tragico, ma va riconosciuto, che non siamo tutti sulla stessa barca – alcune delle nostre barche fanno acqua mentre altri navigano comodamente su sontuosi mega yacht.
Traduzione di Pina Piccolo dall’inglese dell’articolo apparso nel sito “Africa is a Country” http://africasacountry.com/2016/09/anti-racism-without-race-in-italy/
Una versione di questo saggio è stata pubblicata per la prima volta nel sito web Frontiere News, nel contesto di due articoli con punti di vista diversi sulla vicenda di Emmanuel Chidi Nnamdi http://frontierenews.it/2016/07/non-uccidete-umano-fermo-paura-diverso/ di Gassid Mohammed e http://frontierenews.it/2016/07/razza-e-umano-non-sono-termini-banali/ di Camilla Hawthorne e Pina Piccolo.
Un aggiornamento sulla vicenda a cura di Eloisa Guidarelli è presente in questo numero della rivista, nella sezione Riflessioni. Questo numero ospita anche un’intervista alla studiosa ed attivista Clelia Bartoli, di Elena Cesari, che tratta di temi simili.
CAMILLA HAWTHORNE è una dottoranda all’università di California Berkeley in Geografia. Attualmente abita in Italia. Scrive da molti anni su questioni di razza e si occupa particolarmente del “Mediterraneo nero”. E’ attiva anche nei movimenti antirazzisti negli Stati Uniti e in Italia. E’ promotrice di progetti per educazione digitale ed è presente nei TED talks.
Foto in evidenza di Lucia Grassiccia.