“Anche voi siete per noi il vostro sudore”, incontri e accoglienza minori migranti – due riflessioni di Dimitris Argiropoulos

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Quel potere che aggiunge il supremo sapore all’esistenza  il potere di prender  fra le mani

-l’esperienza e rigirarla, lentamente, sotto la luce sotto la luce

-Virginia Woolf

 

Educativa di strada.

È la stasis semaforica, il rosso, che attrae e che fissa condizionamenti di sopravvivenza, dipendenti sul momento, da pochi spiccioli di denaro, fino a farli diventare una stereotipia. La si ritrova nelle piazze, alle uscite dei grandi magazzini, alle entrate delle chiese, sui marciapiedi, nei parchi, in prossimità delle fontane.

Questo “rosso” di sosta e di richiesta chiamato strada, lo si pratica per respirare momenti di tregua, giusto il tempo per cogliere qualche rimedio e raccogliersi sulla meta. Continuare il viaggio e arrivare. Raggiungere famigliari, paesani, città. Arrivare dove prima sono arrivati i pensieri, le parole dei grandi e dei genitori, le immagini viste e i racconti uditi in quel voler – dover andare via. Ed è in questa stasische l’educativa di strada respira la sospensione di un movimento fatto di tenerezza mascherando adolescenze adultomorfe, incrocia sguardi di stanchezza e fissati nel proseguire, tocca parole che raccontano, spesso chiedono, talvolta svengono dalla fatica della disavventura.

Frequentare la strada, starci e lasciarsi alla frequenza dei minori migranti conosciuti dalla pedante sigla burocratica MSNA, che ha ufficializzato questa presenza minore per quantità di persone e per età, mi spaventava e nello stesso tempo mi compiaceva. Facevo capire la mia appartenenza da “straniero” e la mia grecitàcome preludio ad ogni incontro e, anche a distanza di anni, sono convinto che sia stata la scelta giusta perché le persone mi riempivano di racconti e di parole, mi riferivano di accaduti, di episodi, di luoghi e di paesaggi del loro transitare la Grecia.

Costantemente si iniziava dai discorsi di denuncia, infelici, dolorosi, spesso lamentosi. Discorsi di amarezza per il trattamento avuto da parte delle Autorità, dalle Forze dell’ordine, dalla Polizia.

L’elenco di angherie, maltrattamenti, brutalità, ostacoli, respingimenti, castigazioni e ogni tipo di violenza, me lo si presentava con parole precise e dure, puntualizzando il “passaggio” e la soddisfazione di essere riusciti ad andare oltre, uscendo anche dai quei territori. Mi scusavo per il mio Paese e cercavo di segnalare disapprovazione, indicare una pur minima distinzione fra me e la rappresentanza ufficiale del mio Paese. Mi sono impaurito più volte, imbarazzato ho cercato di governare le mie paure prendendo spesso impropriamente tempo e non ne avevo. Costantemente, e in un certo senso simultaneamente, i discorsi si declinavano e oscuravano il trattamento ufficiale, per passare a presentarmi la bontà e la bellezza della gente. La presentazione della “loro” Grecia si sdoppiava. Mi raccontavano di genti che li ha accolti, che li ha presi in casa che li ha fatti lavorare. Mi si presentavano i consigli, le carezze, il cibo, i vestiti, gli abbracci avuti….. Come mi si presentava il caldo secco che non ti fa sudare, il primo bagno al mare per il gusto di stare al mare, i sentieri delle montagne indicati e percorsi con attenzione e diligenza. Mi hanno raccontato ripetutamente barzellette e aneddoti che mi erano familiari, la presa in giro, l’ironia che ti alleggerisce i più pesanti dei pensieri, la situazione più triste che hai subito. Usavano parole antiche sentite dai contadini, e parole che riportavano tutto il mal odore delle fogne del porto di Pireo. Mi raccontavano il bene e il male di un Paese attraversato. La conversazione si arricchiva di ammirazione, reciproca, e di domande. Cosa e come fare per continuare il viaggio? Punti di riferimento e di appoggio, passeggeri ed essenziali di leggerezza, giusto per non appesantire il viaggio. Mi facevano capire che avrebbero raggiunto la meta e ne ero convinto poiché viaggiavano leggeri. Sapevano stare negli incontri attraversandoli.

Cercavo di dire e di disporre parole e aiuti. Rispondevo indicando possibili coordinate per districare le mappe di una città di aiuti da scoprire. Mi negavo alle richieste per indirizzare la domanda e reimpostarla. Mi chiedevo e raccontavo storie per mirare il posto giusto e passare la notte, per puntare i rischi di certe frequenze inevitabili in strada. Chiedevo notizie sulle loro famiglie e affetti di partenza e attesa, e di arrivo. Mi angosciava il pensiero dello smarrimento e mi impegnavo nell’instradare lo sguardo nel bene.

Muovevo la parola stando al passo con i mondi d’approdo, intendevo facilitare la loro riorganizzazione attraverso le potenzialità delle parole nel trascorrere del tempo “perso” in strada. Spingevo la parola per rispondere all’emergenza. Dislocavo di posizione e di parole per poter leggere e leggersi, accogliersi e compiere scelte. Cercavo una sintassi da strada per comprenderci.

Mi ritrovavo sorpreso nel vedere, ripetutamente, questi ragazzi assorbire tutto e verificarlo sottoponendolo al primo poliziotto o vigile che si trovava nei dintorni. A modo, e direi, con un certa eleganza, l’informazione appresa da me era sottoposta anche ai “militari”. Una verifica cercata con accuratezza e puntualità, con attenzione, “avvicinando” il rischio che poteva fermare il viaggio, l’informazione captata andava accertata, riscontrata da chi in strada arriva in divisa e rappresenta ufficialmente le Autorità.

Non si trattava di diffidenza o difficoltà di riconoscere presenza e ruoli di una educativa di strada, del resto legittima e comprensibile, ma conoscenza e precisione dei limiti, il riconoscersi nelle impossibilità. In strada e in viaggio si respira incertezza e si cerca evidenza, convincimento, certezza di cosa e come e si sta al dubbio solo ed esclusivamente nei tempi necessari per trovare la direzione giusta e dirigersi.

Sono stati sempre gentili con me e i miei colleghi, capivano le nostre fatiche e aporie e ci spiegavano che i “militari” sono un contatto necessario, un accostamento utilissimo per conoscere la “verità” delle cose che variano nei contesti dei Paesi e che per loro era necessario sapere “come stanno le cose”. Avevano capito come interrogare e utilizzare le ovvietà e attorno a queste ovvietà mettevano insieme le relazioni e i discorsi dell’educatore di strada e le certezze dei “militari”. Sapevano operare una scelta. Erano ragazzi ben educati in strada, nelle avventure come nelle disavventure del loro viaggio.

 

 

 

 

 

 “Anche voi siete per noi il vostro sudore” – La comunità di Emergenza e di Prima Accoglienza

Ci si arrivava dopo il fermo della Polizia, trovarsi entro questa comunità significava interrompere il viaggio, trovarsi bloccato, per via della Convenzione di Dublino, a permanere sul territorio italiano. Arrivare e trovarsi nella comunità di emergenza obbligava a rivedere il tutto e intraprendere una nuova organizzazione delle cose. Sei fermo e le coordinate vanno ricercate, riviste e rilette.

Conoscevo e cercavo di conoscere “gli ospiti” della comunità che frequentavo come supervisore del gruppo degli educatori. Si stava volentieri a pranzo. Spesso ci si trovava in città.

Ho ripetuto infinite volte una domanda indirizzata a questi adolescenti: “Cosa ti piace di più in questa città?”. La riposta infinite volte mi arrivava la stessa: “qui mi piace uscire di casa (comunità) senza pensare come camminare, senza pensare la strada e i marciapiedi da percorrere, come vestirmi, chi salutare e chi guardare… mi piace perché non penso che qualcuno può sparare… non mi stringo in me pensando che c’è qualcuno che spara. Qui sono libero di andare fuori e non pensare il pericolo. Non puzzo di sudore. Non del sudore da lavoro ma del sudore della paura. È un’altra cosa questo sudore… è una cosa brutta, insopportabile, mi infastidisce. È la puzza da morto vivo che ti porti addosso”.

Mi sforzavo di sdrammatizzare per continuare le conversazioni senza interromperle e senza appesantire i momenti dei pasti o di amicizia. Scoprivo così una strana e interessante classificazione di noi adulti in costante frequenza con questi minori. Eravamo classificati, schedati, in base agli odori dei nostri sudori.  “Anche voi siete per noi il vostro sudore”. Il peggio della classifica era dedicato ai “militari”, poliziotti e carabinieri, costretti al sudore aspro violento, come quello da varichina. Sudore da stressati che stressa. Sudore da silenzi e da consegne. Poi mi è stato presentato il sudore degli educatori della comunità, acido ma accurato modulato a seconda del trascorrere della giornata e i momenti, più o meno ritualizzati, della “casa”. Delle volte sudori pieni di dentifricio e schiuma da barba, altre sudori stagnanti da chiuso, come le case con le finestre perennemente chiuse dove anche gli odori delle toilette non trovano sfogo… il discorso si declinava e comprendeva poi le assistenti sociali e spariva la tenerezza dai giudizi su questi sudori di decomposizione da “regole”, spesso richiamava le indecenze maschiliste sul ciclo e i sudori torbidi erano innominabili, lasciando la descrizione a linguaggi non verbali e, nel caso, più efficienti. Sudori da evitare.

Da questa classifica sfuggiva Max, educatore sopranominato Max, “il mio piede sinistro” di formazione odontotecnico convertito in educatore che consapevolmente ha richiesto e ottenuto di essere collocato nella comunità di emergenza per minori migranti. Il mio committente che gestiva la comunità mi aveva chiesto attenzione per la sua persona e una sollecitazione per il potenziamento delle sue “competenze educative” che sulla carta non aveva. Il suo curriculum pieno dei suoi precedenti lavori non aveva riferimenti nel settore. Max, “il mio piede sinistro”, era diventato il cardine operativo della comunità e la sua abilità educativa, richiesta e stimata dai colleghi e soprattutto dagli “ospiti”, lo posizionava come educatore autorevole e lo lasciava al di fuori delle classifiche del sudore. Ho lasciato perdere le schede e le verifiche e mi sono soffermato al suo soprannome, “il mio piede sinistro” collegato alla sua passione per il tango che praticava ogni sera e che insegnava tre volte alla settimana.

Infatti Max era ossessionato dal suo piede sinistro “anatomicamente non perfetto e se vuole non perfetto come vorrei io”, “no, non ho una malformazione”, ma “non è a posto” “mi tira e certe figure di tango non mi riescono”. Ovviamente la meta preferita per le vacanze di Max è stata l’Argentina, per frequentare gli stage di tango. E mi spiegava il tango, tutti i dettagli di questo ballo, i particolari di un incontro in ogni sua scadenza, minute descrizioni e osservazioni. Planava dalla platea delle sale, alla scelta e all’invito del partner, all’abbraccio del tango stesso, al coinvolgimento, alla sintonizzazione e alla riuscita della coppia, alla soddisfazione, al come si ringrazia per aver ballato insieme. Mi spiegava con parole appassionane la sua passione, il tango.

Stare nella comunità, in questa platea di “stranieri” minori che non si conosce, dove si impara a convivere riproducendo un clima domestico di crescita, dove non si lasciano fuori gli affetti e dove si sviluppa una particolare attenzione per quelli lontani dai quali si è separati per migrare, per Max era naturale e operava trasferendo le sue abilità da tanghero. È stato il suo piede sinistro a metterlo sulla pista dell’educazione e creargli quella sensibilità per poter stare e guidare alla familiarizzazione un mondo di estranei.  Trasferiva, certe volte per abitudine altre con coscienza piena, il principio elementare del tango, dove tutto si fa in due e dove la singolarità di ognuno diventa unicità dei due.  Il mirare la platea, la scelta del partner, l’invito, il ballare, e il lasciarsi per mescolarsi e ritornare a scegliersi dovrebbe con accurata attenzione evitare di creare imbarazzo, di imbarazzare e di imbarazzarsi, evitare la creazione di impedimenti e di offese, evitare gli intoppi, “gli inciampi” diceva Max.

Ma allora il tango è una continua esercitazione alla proposta, alla sua finitezza e compiutezza, è il movimento dell’onda che arriva e che si ritira, ondeggia appunto e ti prende dentro al mare, ti coinvolge, ti interessa senza comprometterti. Ma allora questa è educazione impostata sulla proposta e non sugli ordini, sulle cose da indicare per poter sceglierle, sulle cose da imparare prima che da insegnare. È parola da sapere e da esprimere. È sguardo che ci incontra. È mediazione con il mondo per affrontare la propria condizione scoprendo similitudini e senza sentirsi inadeguati nel viverlo. È mediazione che trasforma i contesti di vita per creare inclusione. È parola, gesto, sguardo di gentilezza e di tenerezza che arriva nelle condizioni più dure e disumane.

Max “il mio piede sinistro”, mi ha facilitato la comprensione della mediazione. Comprendere e comprendersi, singoli nella moltitudine, connettere e connettersi fra altri e sintonizzarsi, passare da una mediazione all’altra come le pietre che affiorano nel fiume, scegliere le mediazioni nei luoghi e nei modi distinguendo cose, situazioni e persone, riconoscendo unicità di persona e di approcci, discernendo i limiti e le potenzialità di tutti e di ognuno a suo modo. Non compromettere il coabitare, la convivenza di questo nostro mondo.

 

per gentile concessione dell’autore.

 

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Dimitris Argiropoulos: docente di Pedagogia speciale,Università di Parma. Vive e lavora in Emilia.

 

Immagine in evidenza: Foto di Mario Bellizzi.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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