Sprezzature
Non rispondo a nessuna domanda.
Per esempio:
cosa cercano gli uccelli
profetici nei nostri
quartieri famelici e ribelli?
Cosa vuole da me l’incanto
della sera oscillante
tra i convegni delle spiagge?
Appartenevo agli umani,
il ceppo impervio, l’avida razza.
Questo lo ricordo. Ogni abisso di luce
che mi strappa la ragione, ogni
anima buona come
un pane spezzato, me lo
replica, balbettando.
Amavo il filo d’erba tramutato
in ferita. Ora che i sentimenti
sono chiusi in campane
di vizio, dentro casse
di cenere e di neve,
anche l’erba se la guardo
inaridisce.
Sono nato
in un piccolo alveare, mi cibavo
di vendemmia e di ruggine, dentro
la mia casa,
prematura e sospirante, dove
ancora l’amore cammina
e si rialza e dove
il tempo
non si è mai fermato contro vento.
Cronologie
Per Mario Benedetti
Il tempo è una spola rotonda,
promette e permette anche il tuo
spasimo enorme, Mario, anche il mio,
nella fodera scarlatta del rossore
riecco gli anni belli, i tavoli flegrei,
il vino lucente del tramonto mediterraneo
donato a tutti, a chi non sa più luce
né ombra nel suo vivere a stento,
e qui mi ci vedo e mi metto a sedere,
eremita murato vivo al tavolo da gioco
o anatomico, per succhiare in segreto
il sangue dalla ferita
da suppurare, suturare
più a fondo, tanto il male è lo stesso,
lo stesso il lamentare. Mi chiamano
queste chiese di Anzio, Roma, Viterbo,
divento altra cosa, altro dolore,
mi perdo in altri, non so più chi ero.
Intanto la carta esce ancora vincente,
io la scambio per una pozza o una stalla,
una morte possibile purché sia a ore,
purché si risorga in superficie, come trote,
come gli angoli del vestito da sposa di mia madre,
purpureo, in questo vitreo vagare
la vita non manca, ci manca, si muove
e tutto si divide dallo schermo piatto
del fogliame, da questa pagina atroce,
dove si parla di castelli e di rane, dove
la storia si cuce addosso l’odore
di bagnato che facemmo ieri, quando
toccò l’ultimo istante gioire e scomparire,
perché un inverno per tutti finì il bene.
Futura
Me ne andrò da questo stallo di pietra dura,
un giorno d’inverno castissimo,
con le foglie squamate, sopravento e ghiacciate,
lascerò il programma del mondo, il ricavo quotidiano,
la prua dell’auto punterà a un sud assoluto,
passerò la capitale, qualcuno sarà con me,
taglieremo verso Anzio, poi tra le foreste pontine
vedremo spuntare il mare da ogni lato,
il sole rischiarerà l’indole atterrita,
le città con le ghiere di metallo e bitume
spariranno dallo sguardo, dalle mappe, dalla vita,
albatri e dalie risveglieranno i sensi commossi,
la fusoliera dei nostri desideri sarà attiva,
finalmente chiari saranno i sentimenti
come tovaglie fiorite sulle aiuole,
berremo vino fino a diventare seri,
tutto dimenticato, tutto diventato ieri,
uno spuntone di roccia che non potrà rincasare,
mancheremo all’appello dei pianeti,
alle industrie di vaiolo e conoscenza,
faremo a meno del nostro io supremo,
dormiremo sul bordo esatto di una costa,
col destino dalla nostra
e la libertà dei perdenti,
finirà ogni agonia.
Outsider
Stamattina l’outsider che è in me
ha arpionato l’anima sulla spalla a indicare
stato di massimo allerta.
Che sia l’evacuazione del Vesuvio
o il deposito di plastica esploso a Pomezia
con la diossina, mentre acceleravo
per trovarmi in orario a lezione –
Ne parlano pure i quotidiani, insieme
all’archeologia di un campo di fave
tra Aprilia e Roma Sud.
E invece io non dimentico. La sera,
a vent’anni, era un turbinio di droghe,
disperazione per un futuro mancante,
l’erba alta dei giorni, un flusso ematico
che non si fermava, e morivo, impallidivo,
come una vite nel legno secco dei rovi.
Ora dicono che sono passato
dall’altra parte del cerchio di fuoco.
Lascia stare, dimentica, volta pagina, sì,
però gente migliore di me non ce l’ha fatta
e il male che ho subìto rimane.
Non so se andare avanti. La strada è tutta
croci. Anni di casa e tosse secca, giumenti
umani mi stanno a rinfacciare
quale oro e fustagno avessi in corpo
per essere vissuto più di loro.
Intanto che l’auto è parcheggiata
nel graticcio della scuola, il cielo si divide
tra chi dice colpevole o innocente.
E la sentenza ancora non è data.
Ciaccona
Splendore di finestre che affacciano
sul mondo, si è fermata al davanzale
una mattina certa come una scossa
di pietruzze trasportate dall’acqua
verso un sole potente,
mentre disegno il profilo futuro
dell’uomo e mi impegno
a portarlo con me come un fratello,
questo alieno dalla pelle nostrana
in un piccolo squarcio di campagna,
metà orto, metà ramo, metà sogno,
tanto è grande il recinto
della terra che ogni giorno ritrovo
ai miei piedi, perché ancora cadrò,
ma questa punta estrema di esistenza
non resterà incompleta:
sarà una piuma di tortora
che sorvola la ragione
e sarà viva,
in una vasca di ninfee guarderà
un azzurro impossibile
nel muschio limaccioso di ogni storia.
Già li vedo, e guardali anche tu
quella foglia che attraversa la strada,
quella donna che avvera la speranza,
quell’istante in cui vedremo Dio.
Sveglia anticipata
Ah, cavaliere, leva su, non dormire.
Boccaccio, Filocolo
Vedi che sto scomparendo,
insieme a me la civiltà dell’onore fraterno,
del calore, dei corpi saldi, del cielo,
la gara a essere umano, anche un minimo,
la sabbia, il gesso, l’argilla, la fortuna
delle guarnacche, delle mani che si allentano.
Ora puoi iniziare il viaggio mai fatto.
Le dita sono libere da illusioni, sotto
la scorza delle ciglia comincia
il nuovo destino come un ruscello
su un’alta montagna. Non temere più
l’alito dei grilli, il digrignare della folla,
le autostrade con metronomo interno.
Dove vai non c’è ritorno, tutto il mondo
ti basti, sparito, in una cripta o spelonca
di paradiso. Accendi una candela
per te stesso, e a ciò che lasci
dona larghi confini, basamenti d’oro,
la preghiera, il coro dei cherubini
per questo sonno senza più domini.
Testimone
Vedrò lo spettro di mio padre e mia madre,
quando di forza lascerò la carne,
e tra pietre e calce, flebo e tranquillanti,
entrerò nel turibolo dorato, conoscerò
i fiori di tiglio della rotta finale.
Avanzerò da una foce all’altra,
sulla fronte il sigillo mattutino
dove si chiude la vita a meraviglia,
però visibilmente, nell’energia del passo
di chi la prenderà dopo di me,
continuando il tragitto prezioso,
incoronando la terra, sventando profezie,
poiché fu detto di questa vittoria
che ha dentro ogni cosa: l’anima salva,
la mantide e l’imbuto, il giudizio e la croce,
come voce che si alza a perdonare.
Poesie da “Minimo umano” (Marcos y Marcos, 2020),
Per gentile concessione dell’autore. Ringraziamo Antonio Merola per la segnalazione.
Stelvio Di Spigno è nato a Napoli nel 1975. È addottorato in Letteratura Italiana presso l’Università “l’Orientale” di Napoli. Ha scritto articoli e saggi su Leopardi, Montale e Zanzotto, insieme alla monografia Le “Memorie della mia vita” di Giacomo Leopardi (L’Orientale Editrice, Napoli 2007) e al saggio L’artificio della naturalezza. Da Leopardi a noi (Agiscom, Napoli 2015). Per la poesia, ha pubblicato la silloge Il mattino della scelta in Poesia contemporanea. Settimo quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, Milano 2001), i volumi di versi Mattinale (Caramanica, Marina di Minturno 2006, Premio Andes e Premio Calabria), Formazione del bianco, (Manni, Lecce 2007, Premio Penna), La nudità (Pequod, Ancona 2010), Qualcosa di inabitato, con Carla Saracino (EDB, Milano 2013), Fermata del tempo (Marcos Y Marcos, Milano 2015, Premio Nazionale Calabria e Basilicata), Stampa antica (Edizioni Gattili, Milano 2018), Minimo umano (Marcos Y Marcos, Milano 2020).
Immagine di copertina: Foto a cura della Fondazione Pino Pascoli, Dialoghi, Pascali Cintoli-2018_ph-Marino-Colucci.