Dichiarate lo stato di peste. Chiudete la città
CAMUS
Incontrare un altro essere umano era un’offesa inaccettabile
G. BALLARD
Per conoscere il mondo occorre scegliere a quale grado di vita,
a quale altezza e a partire da quale forma vogliamo osservarlo
e, dunque, viverlo
COCCIA
1. Perturbamenti di un filamento di RNA
Nelle lunghe giornate soffocanti e domestiche che hanno caratterizzato il lockdown abbiamo cercato la costruzione di una nuova abitudine – una rinnovata seconda natura che ci permettesse di affrontare l’inaspettato della natura prima che diveniva protagonista mediante un piccolo filamento di RNA all’interno di una capsula di proteine: non sappiamo – i biologi non sanno – se un virus appartenga propriamente al regno della vita o sia qualcosa ancora a cavallo tra dimensione puramente biochimica e organizzazione biologica (insufficienza costruttivista delle nostre tassonomie, ma lasciamo perdere in questo contesto le questioni di epistemologia e regimi discorsivi), ma noi abbiamo dovuto comunque familiarizzare con esso e la sua efficienza nel procurare la morte. Alcuni di noi sono stati fortunati: hanno avuto la possibilità di restare in casa – sognanti e perturbati – con uno stipendio che arrivava direttamente sul conto in banca e la possibilità di sopravvivere anche nel chiuso dell’abitazione e lontano da ogni attività; molti non hanno avuto la stessa fortuna: bisognava andare comunque al lavoro – e alcuni si moriva – o si doveva capire come combinare il pranzo con la cena, incubo di una povertà che sembrava non appartenere più al nostro “comodo” Occidente. Nel Sud del mondo, invece, è pura catastrofe senza nome e senza dati.
Periodo perturbante come pochi, si ricercava qualcosa che permanesse stabile nel fluire delle giornate, mentre la presenza della morte diveniva nuovamente quotidiana, come non accadeva da tempo nel nostro fortunato Occidente. La solitudine del morente si mostrava nella sua maniera più feroce e disumana, prima nella cura asettica di letti di ospedale o, peggio, nell’abbandono di case di riposo – tra feci e urine – senza dignità e nel puzzo delle proprie deiezioni, poi in bare che sfilavano in paradossali cortei marziali verso forni crematori, senza possibilità di estremi saluti. Eppure, la mente non la smetteva di vagare tra incubi e dati, tra approfondimenti e analisi, tra numeri che non riuscivano a spersonalizzare e testimonianze ipocrite dell’eroismo di quell’infermiere, di questo medico, di quell’altro operatore sanitario (sottopagati, pochi numericamente e spesso senza adeguati dispositivi di protezione), tra ricette economiche insufficienti e rappresentazioni del disastro dovute ai tagli ultraliberisti al welfare state. Ma soprattutto c’era una sopita rabbia che covava – perché covava – ma ancora sepolta sotto spessi strati di there is no alternative di thatcheriana memoria, principio che permea i disastri del mondo del “realismo capitalista” del nostro tempo (Fisher 2018): una rabbia quasi inespressa o che a volte assumeva i contorni degli uccelli di cui si poteva di nuovo ascoltare il canto nelle strade metropolitane deserte, una rabbia anoressica per cui la negazione del futuro, l’impensabile del radicalmente nuovo, l’incapacità di raccontare la catastrofe come opportunità per una nuova fioritura toglieva davvero il respiro, riuscendo però a volte a riaccendere la nostra ragion pratica e l’immaginario di un altro mondo e di un altro tempo, ancora e sempre possibili. “Non è questo il momento delle polemiche, questo è il momento dell’unità nazionale” era il refrain e il Leitmotiv mainstream, qualcuno riusciva a cantare dai balconi e dalle finestre, quasi-obbligo mediatico e mimetico, altri si prodigavano in attività di solidarietà nel bel mezzo del deserto individualista della nostra epoca, mentre si percepiva sempre più chiaramente che l’efficienza puntuale di questa malattia, che conduceva a una morte feroce, era rinforzata costantemente dalla necropolitica latente del nostro sistema di assistenza, dai tagli alla sanità, dalla mala gestione, dai regali ai privati (soprattutto in Lombardia – epicentro della pandemia in Italia) – la natura c’entrava sempre meno, soprattutto una natura ancora ostinatamente considerata come l’altro polo dell’umano, della cultura e della tecnica, come qualcosa da dominare o da tradire (forme speculari di uno stesso mood di pensiero).
Ma intanto, all’improvviso e senza ragione immediata, le parole simbiosi e parassitismo si affacciavano sempre di più nella mente.
Il lockdown è stato, dunque, un periodo perturbante come pochi, in cui il familiare ha acquisito contorni incerti: non si riflette mai abbastanza – classico meccanismo di rimozione psico-sociale – sul fatto che in alcune aree del paese si è deciso che gli anziani fossero un peso di cui potersi/doversi liberare, realtà in cui il familiare diviene inquietante. E così, dal punto di vista etico, anche questa rappresenta una soglia della pandemia: there is no alternative probabilmente, ma ancora una volta la responsabilità non era soltanto di quel filamento di RNA. Possiamo certo sperare (anche se la speranza, come diceva Monicelli, è sempre un inganno) nella giustizia terrena (le reali responsabilità sarà difficile che vengano davvero a galla – già rimbalzano di qua e di là e si perdono nei kafkiani corridoi delle procure), ma quel filamento di RNA ci ha ricordato non solo quanto siamo effimeri (e quanto siano effimere le attività che ci travolgono quotidianamente nell’hic et nunc del profitto), ma soprattutto quanto l’intero nostro sistema politico-economico globale (il Capitale, chiamiamolo con il suo nome, senza tabù linguistici) sia stato il migliore alleato di questa forma biochimica di quasi-vita. Inutile incolpare dèi e nature, Bill Gates o il laboratorio di Wuhan: come un terremoto uccide molto di più se un palazzo è stato costruito con mura piene di sabbia, così un virus diventa un killer implacabile se strutture e personale che dovrebbero accogliere i degenti sono insufficienti a seguito di tagli su tagli, di spending review su spending review.
È il capitalismo, baby – dirà qualcuno: ma il virus non lo sapeva e si sentiva soltanto estremamente fortunato.
Ma ritorniamo ancora un momento a quelle lunghe giornate soffocanti e domestiche. La ricerca di qualcosa che permane al di là del fluire del tempo è stato da sempre il bisogno umano fondamentale contro l’impermanenza dovuta all’inspiegabile della morte: la filosofia nasce sicuramente dallo stupore (come volevano Platone e Aristotele), dalla meraviglia che lascia a bocca aperta dinanzi a questo nonsense – il fatto che la vita sia quella cosa che inizia e finisce, nel mezzo possono succedere un po’ di cose, e poi nulla più. Non so, ovviamente, cosa possa pensare ognuno di noi, ciascuno cerca il suo pharmakon (medicina/veleno), ma l’impensabile della finitudine deve essere esorcizzato con una qualche costruzione di senso – è possibile che ognuno di noi sappia fondamentalmente che la morte sia disparizione totale, ma questo non vuol dire che non si cerchi un fermo-immagine dove abitare la propria esistenza e donarle un senso complessivo al di là del fluire apparentemente caotico e senza senso di questa cosa che combatte costantemente – pur sapendo di essere già-sempre sconfitta – contro l’entropia, la vita.
Tra le immagini perturbanti che hanno attraversato la mia personale esperienza del lockdown è emersa soprattutto – con una strana relazione con il binomio simbiosi/parassitismo – quella del clinamen lucreziano: ho immaginato il virus Sars-Cov-2 come una sorta di improvvisa, caotica, imprevista, casuale, non necessitata deviazione dal piano comune della vita globale. Una terribile contingenza, ma anche una grande possibilità: in quelle giornate allo stesso tempo frenetiche e immobili, si è pensato che questa pandemia, queste morti, la solitudine dei morenti, la comprensione della vacuità dell’affannarsi quotidiano e dell’irrazionalità della ricerca inutile dell’utile, potessero perlomeno consegnarci la possibilità di immaginare (che è sempre il momento primo di ogni costruzione e rivoluzione) un tempo e un mondo altro. Un clinamen che potesse addirittura far saltare il banco del Capitale globale (bisogna pur sognare, a volte), un’inclinazione capace di rimettere in discussione tutto, dal paradigma ontologico, politico ed economico dell’utilitas come unica modalità di apparizione dell’ente e unico motore dell’azione, all’idea di un umano prometeico che può dominare e sfruttare allo stesso tempo gli altri uomini, gli altri viventi e tutta la natura non vivente di questo strambo frammento di roccia – unico nel suo genere, a quanto ne sappiamo – su cui uno strano e complicato gioco di innumerevoli fattori ha portato alla nascita della vita. Il clinamen rappresenta la libertà all’interno di un sistema deterministico, l’opportunità dell’aleatorio contro il there is no alternative, l’irruzione del magmatico all’interno di un mondo (e di un tempo) che si ritiene essere retto da leggi immutabili.
L’impatto del radicalmente nuovo.
La scienza della complessità – Ilya Prigogine su tutti – ci ha raccontato come non esistano leggi eterne e immutabili in natura, e come la natura sia il regno del novum (Prigogine 2011). Noi siamo parte della natura e dunque dobbiamo immaginare/costruire il novum, ma possiamo farlo soltanto se iniziamo a stare dalla parte della natura.
2. Parassitismo e simbiosi: deliri e immagini perturbanti
E così, si è imposta nella mente la rappresentazione delirante di un clinamen come momento di passaggio tra parassitismo e simbiosi. Una perturbante speculazione domestica, e mi sono capitati tra le mani alcuni libri.
Jean Baudrillard, nel saggio La trasparenza del male, si chiedeva cosa sarebbe accaduto dopo l’orgia della modernità, che aveva rappresentato «il momento esplosivo (…) quello della liberazione di tutti i campi. Liberazione politica, liberazione sessuale, liberazione delle forze produttive, liberazione delle forze distruttive, liberazione della donna, del bambino, delle pulsioni inconsce, liberazione dell’arte (…) è stata un’orgia totale, di reale, di razionale, di sessuale, di critica e di anti-critica, di crescita e di crisi di crescita. Abbiamo percorso tutti i sentieri della produzione e della sovrapproduzione virtuale di oggetti, di segni, di messaggi, di ideologie, di piaceri» (Baudrillard 1991, p. 9). Difficile dire – e non lo direi affatto – che l’orgia della modernità sia stata soltanto qualcosa di piacevole, ma è chiaro che abbia condotto – alla sua fine – a una forma molto peculiare di stanchezza: la ripetizione costante del già-dato, segno della società post-orgia baudrillardiana e immagine del nostro Occidente neoliberista, e contemporaneamente l’apparizione di quella che il filosofo coreano Byung-Chul Han chiama molto puntualmente società della stanchezza e società del burnout (Byung-Chul Han 2020) – l’interiorizzazione della prestazione e della positività a tutti i costi come momento di soggettivazione e, contemporaneamente, la privatizzazione della sconfitta e del disagio – sembra aver condotto a una nuova rappresentazione del tempo e alla forma più radicale di negazione del futuro, in quanto “luogo” preventivo del radicalmente nuovo.
Un’immagine chiara e finale di come potrebbe strutturarsi (o finire di finire) questo dopo-orgia – ai tempi dell’Antropocene, del surriscaldamento globale e delle pandemie come sintomi specifici di questa nuova era perturbata – è data dal richiamo alla “storia del verme e dell’alga” (uno dei fenomeni più studiati di endosimbiosi), che così viene raccontata sempre da Baudrillard: «un verme nutre nel suo stomaco un’alga senza la quale non potrebbe digerire nulla: va tutto bene fino al giorno in cui al verme viene in mente di divorare la sua alga: la divora, ma così facendo muore (senza neanche averla digerita, visto che lei non può più aiutarlo» (Baudrillard 1991, p. 178). Sembra essere proprio una breve storia triste dell’umanità del XXI secolo. Una breve storia triste adatta per i tempi della pandemia da Sars-Cov-2. Ma le storie tristi possono rappresentare un insegnamento e un pungolo all’azione: anestetizzati dall’imposizione di assenza di alternative, non siamo in gradi di riconoscere la nostra potenza simbiotica e metamorfica come condizione naturalculturale, la potenza – propria della vita tutta – di fare-mondo, di trasformarlo, di costruire attivamente il radicalmente nuovo. Preferiamo non incamminarci lungo i sentieri accidentati del libero arbitrio come caratteristica umana troppo umana – la libertà essendo un gioco topico all’interno di uno spazio dato tra ingressione e trasgressione – ma la pandemia potrebbe aiutare a cogliere i contorni di questo spazio e farlo divenire luogo, potrebbe permettere di afferrare l’orizzonte complessivo.
La simbiosi, così come la racconta Lynn Margulis, biologa eterodossa, manifesta un’ontologia differente – quella che Emanuele Coccia chiama “metafisica della mescolanza” ragionando a partire dal grande escluso nella riflessione dello spirito umano occidentale, il mondo delle piante (Coccia 2019). Contro ogni rappresentazione statica della vita e del vivente, Lynn Margulis racconta che «gli esseri viventi sfidano la definizione precisa. Combattono, si nutrono, ballano, si accoppiano, muoiono. Alla base della creatività di tutte le grandi forme familiari di vita, la simbiosi genera novità. Riunisce diverse forme di vita, sempre per un motivo (…) La simbiogenesi riunisce individui differenti per creare entità più grandi e complesse. Le forme di vita simbiogenetiche sono ancora più diverse dai loro improbabili “genitori”. Gli “individui” si fondono permanentemente (…) Generano nuove popolazioni che diventano nuovi individui simbiotici multiunità. Questi diventano “nuovi individui” a livelli di integrazione più grandi e più inclusivi. La simbiosi non è un fenomeno marginale o raro. È naturale e comune. Dimoriamo in un mondo simbiotico» (Margulis 2020).
L’epidemia da Sars-Cov-2 in tempi di Antropocene rappresenta pienamente il post-orgia nella soglia tra parassitismo e simbiosi. La sfida ecologica del nostro tempo si gioca nella possibilità di riposizionamento di questi centri di vita possibile. Lo spillover, termine che indica il salto di specie di un virus, divenuto famoso in questi tempi di Covid-19, non è altro che una derivazione naturale dell’atteggiamento parassitario dell’umano: un virus co-abita con il suo ospite e co-evolve con esso; quando un virus, che si è co-evoluto con una specie animale (nel caso della nostra pandemia, probabilmente il pipistrello) e che non rappresenta per essa un elevato rischio di morte, effettua lo spillover, colpisce una nuova forma-di-vita, l’umano nel nostro caso, e può divenire parassitismo – il contenuto (il virus) possiede il contenente (l’organismo umano) – portando con sé una morte collettiva, inaspettata e che – nel nostro caso – sembra abbattere improvvisamente ogni presunzione e delirio da prometeismo fuori tempo massimo. Questo virus mostra allo stesso tempo che apparteniamo alla mescolanza metamorfica universale della vita e che non ci sentiamo ancora (dalla) parte della natura.
Il problema a quanto pare è il possesso e il diritto di proprietà.
Secondo il filosofo francese Michel Serres, la dinamica del parassitismo appartiene alla condizione della specie Homo ed è a fondamento della sua malattia mortale, il diritto di proprietà: «l’urina, il sangue, il letame o il cadavere, così come lo sperma, tutte le secrezioni corporali servivano ad appropriarsi dei luoghi; l’etologia animale, l’antropologia, la storia delle religioni, la sessuologia, il vecchio diritto privato… confermano quest’analisi e permettono di comprendere diversi fondamenti ormai dimenticati del diritto di proprietà» (Serres 2009, p. 45). Diritto di proprietà che è già sempre parassitismo (la proprietà è un furto diceva qualcuno), mentre la simbiosi può permetterci di immaginare nuove forme di coesistenza senza reificazioni e appropriazioni, nuove configurazioni vitali fatte di relazioni, ibridazioni, co-implicazioni, imbricamenti esistenziali. Uso indebito e analogico di un immaginario biologico per descrivere la condizione umana? Utopia naïf? In questi tempi, sicuramente: ma un mondo altro può essere pensato soltanto attraverso la negazione (ou) del luogo del presente (topos). Alzare la posta significa identificare un numero tale di virtualità (che sono sempre compossibili) da poter immaginare un orizzonte o la distruzione di esso.
Il parassitismo è forse la storia della condizione naturalculturale umana sulla Terra, ma in questo momento la simbiosi dovrebbe divenire compito.
Immagini perturbanti e deliri da lockdown? Forse. Eppure, secondo il biologo Rob Wallace, le zoonosi tenderanno a moltiplicarsi nei prossimi tempi perché l’origine multifattoriale è connessa (anche e, forse, soprattutto) allo sfruttamento intensivo degli ambienti naturali a opera dell’agrobusiness e degli allevamenti intensivi (Wallace 2020). Ancora una volta il Capitale, ma questa volta nell’incrocio determinante con la questione ambientale: non si tratta di una ribellione della natura, ma di un eccesso di entropia dovuta all’impatto umano. Il disordine globale provocato da questo minuscolo filamento di RNA è un disordine umano troppo umano, che si produce e riproduce nella relazione necropolitica di sfruttamento degli altri umani e del resto del mondo vivente e nonvivente. L’umano sta accelerando l’entropia, la morte termica della biglia azzurra che vaga nel cielo, perché la finitudine è lo stupore che lo attrae/respinge da sempre: fascinans e tremenda, la morte sembra essere la pulsione primaria dell’uomo contemporaneo, nascosta da un edonismo fuori tempo massimo e comunque concesso a meno dell’1% della popolazione globale. Il restante 99% può godere soltanto in maniera fantasmatica – ma fondamentalmente soffrire – e poi semplicemente morire.
Ma a noi piace pensare che il potenziale che il clinamen di questa pandemia ci consegna sia enorme: innanzitutto, ripensare completamente il nostro modo di produzione e il paradigma della crescita infinita all’interno di un sistema finito, a partire dal fatto che quel filamento di RNA ha dimostrato che è possibile rallentare e che, al limite, è necessario rallentare – non bisogna essere tecnofobi in questo senso e inseguire gli inganni retrospettivi dei paradisi perduti, non occorre immaginare nuovi medioevi o età oscure, non è necessario farsi guidare da una linea del tempo di volta in volta ottimistico-progressiva o pessimistico-regressiva (a seconda del mood del momento), perché l’immaginazione è sempre la capacità allo stesso tempo biologico-evolutiva e tecnica dell’umano di costruire soggetti e mondi, fratture improvvise ed equilibri punteggiati, basta coltivarla per nuove fioriture complessive, mettendo al centro i paradigmi epistemologici di vita e salute per tutti i viventi; in secondo luogo, re-immaginare la condizione umana a partire da un rinnovato contratto naturale (Serres 2019) in cui a essere soggetti di agency non siano soltanto gli umani, ma tutta la realtà vivente e nonvivente, nelle loro virtualità simbiotiche e creative (all-that-is matters); infine, non temere di ristabilire dal basso e in maniera unitaria una politica del conflitto che ponga definitivamente la parola fine al nostro modo di essere-al-mondo da cinque secoli a questa parte. La fine di questo mondo potrebbe essere davvero salutare.
Immagini perturbanti e deliri da lockdown? Forse. La realtà ci racconta che il modo mediante il quale ci si sta organizzando per affrontare questa crisi pandemica non sembra lasciare adito a grandi possibilità di trasformazione radicale dell’esistente: il tempo dell’eterno presente nel quale siamo immersi, l’idea che dobbiamo procedere così e che there is no alternative, sembra ancora imporsi e in maniera ancora più decisa. Ma forse in modo sempre più fantasmatico e irreale. La lezione ecologica della pandemia, che ci ha ricordato – una sorta di principio di realtà universale – come siamo tutti co-implicati in processi di imbricamento e co-evoluzione all’interno di un frammento di roccia infinitesimale e unico, sembra essere stata appresa ma soltanto come fantasma, ed è per questo che occorre sempre far aggirare nel nostro vecchio mondo lo spettro del radicalmente nuovo.
Il compito è quello di far circolare questi spettri nelle nostre realtà e immaginazioni, ma non ci attendono tempi semplici. Occorrerà lottare e non temere le sconfitte.
Ma tu siedi alla finestra e immagini che giunga a te,
quando scende la sera.
KAFKA
Talvolta uno degli adolescenti (maschio o femmina) che va
a vedere il bambino non torna a casa per piangere o ribollire
di rabbia: anzi, non torna a casa per niente. Talvolta anche
un uomo o una donna di età più avanzata tace per un giorno
o due e poi se ne va via da casa. Costoro escono in strada e
s’incamminano soli per la via. Continuano a camminare ed
escono dalla città di Omelas, attraverso le bellissime porte.
Continuano a camminare, attraverso le terre coltivate di
Omelas. Ognuno va solo, giovane o ragazza, uomo o donna.
Cade la notte: il viandante deve percorrere le vie dei villaggi,
tra le case con le finestre illuminate di giallo, e procedere
nell’oscurità dei campi. Da solo, ognuno di loro si dirige
a ovest o a nord, verso le montagne. Proseguono. Lasciano
Omelas, procedono nell’oscurità, e non tornano indietro.
Il luogo verso cui si dirigono è un luogo ancora meno immaginabile,
per molti di noi, della città della gioia. Non posso descriverlo.
È possibile che non esista. Ma sembra che loro sappiano
dove stanno andando, quelli che si allontanano da Omelas.
K. LE GUIN
È la storia, non colui che la racconta
KING
Bibliografia
Baudrillard J. (1991), La trasparenza del male. Saggio sui fenomeni estremi, tr. it. SugarCo, Milano
Byung-Chul Han (2020), La società della stanchezza, tr. it. nottetempo, Milano
Coccia E. (2019), La vita delle piante. Metafisica della mescolanza, tr. it. il Mulino, Bologna
Fisher M. (2018), Realismo capitalista, tr. it. Nero, Roma
Margulis Lynn (2020), Simbiosi ovunque, in «Kaiak. A Philosophical Journey», 7, 2020 (liberamente accessibile al seguente indirizzo: http://www.kaiak-pj.it/it/articoli/9-rivista/113-parassitismi.html – link consultato l’ultima volta il 17 luglio 2020)
Prigogine I. (2011), Le leggi del caos, tr. it. Laterza, Bari-Roma
Serres M. (2009), Il mal sano. Contaminiamo per possedere?, tr. it. il melangolo, Genova
Serres M. (2019), Il contratto naturale, tr. it. Feltrinelli, Milano
Wallace R. (2020), Da dove è arrivato il Coronavirus, e dove ci porterà?, intervista pubblicata online (https://www.sinistrainrete.info/estero/17222-rob-wallace-da-dove-e-arrivato-il-coronavirus-e-dove-ci-portera.html – link consultato il 21 luglio)
DELIO SALOTTOLO è Assegnista di Ricerca presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e docente di filosofia e storia nei licei. La sua ricerca si incentra da anni sulla relazione natura/cultura nella costruzione dei saperi della modernità e negli ultimi tempi si sta occupando di questioni inerenti l’ecologia politica e l’etica ambientale. Dal 2009 è redattore della web rivista “S&F_scienzaefilosofia.it”, per la quale ha curato nel 2019 un dossier sulla questione dell’Antropocene. Ha pubblicato saggi su filosofia foucaultiana, epistemologia storica, declinazioni filosofiche della sociologia e dell’antropologia francese e su questioni connesse alla crisi ambientale e all’Antropocene. Ha pubblicato Una vita radicalmente altra. Saggio sulla filosofia di Michel Foucault (Mimesis 2013) e Solidarietà e modernità. Saggio sulla filosofia di Émile Durkheim (Meltemi 2018), una monografia divulgativa, Claude Lévi-Strauss. Un viaggio iniziatico alla scoperta dell’uomo (Hachette 2016), e ha tradotto e curato alcuni scritti inediti di Claude Bernard, Un determinismo armoniosamente subordinato (Mimesis 2015).
Immagine in evidenza: Premio Pino Pascali, Christiane Lo¦êhr, 2016, foto di Marino Colucci, Fondazione Pino Pascali
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