ALLE BESTIE! – Romanzo di Francesca Sarah Toich, capitoli 5 e 6

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Riassunto delle puntate precedenti

Durante una visita ginecologica Maya, giovane studentessa di letteratura classica, scopre di essere incinta di un rinoceronte bianco. Viene subito inviata a Coronide, una clinica specializzata in parti difficili dove incontra Clemente, il medico che seguirà la sua gestazione e Ilde, una spietata infermiera fanatica della dittatura vigente.

Il Regime totalitario vegano e ambientalista, instauratosi in Francia a seguito dei cambiamenti climatici, ha infatti come unico scopo la rivitalizzazione di flora e fauna a spese dell’umano. Dopo aver massacrato quasi tutta la popolazione e trasformato la Francia in un’enorme riserva naturale, il Governo costringe le giovani donne rimaste a mettere il loro ventre a disposizione per un’inseminazione artificiale di mammiferi in via di estinzione, seguendo una procedura medica già tentata nei folli laboratori di Auschwitz.

Il caso di Maya è tuttavia eclatante: un cucciolo di rinoceronte pesa cinquanta chili.

Clemente, colpito dall’intelligenza della paziente e dalla gravità della sua situazione, decide di interessarsi al suo caso comportandosi in modo proibito dalla legge: con solidarieta’ umana. Il medico si sente infatti estremamente colpevole della propria situazione privilegiata. Oltre ad essere figlio di un capo del regime è sposato con Miguel, famoso direttore d’orchestra. La dittatura ama gli artisti e gli omosessuali. Sono gli unici accettati dal Governo assieme a pochissimi altri umani specializzati. Nella puntata precedente abbiamo lasciato Clemente che usciva di fretta dall’Acquario, dove aveva incontrato la sorella di Maya e messo fine per sempre al loro rapporto. Ora sta per raggiungere suo marito ad una festa, in uno dei pochi edifici di Parigi ancora abitato da uomini.

 

Capitolo 5

 

 

La macchina correva nel freddo Parigino sull’unica strada consentita. Passate le zone protette degli animali, arrivarono nel quartiere umani VIP.

Se ben ricordava, l’indirizzo corrispondeva all’appartamento di Ava Lefson, un’americana animalista trasferitasi in Francia da qualche tempo e famosa per le sue feste sontuose.

Si sarebbe aspettato di trovare Miguel avvinghiato a qualche giovane violinista su un divano; più in là, quattro fanfaroni ubriachi del Ministero con le cravatte slacciate intenti a sproloquiare di sconosciuti compositori barocchi, così, tanto per far bella figura e non ricordarsi nulla il giorno dopo. Era esattamente il tipo di scenario che detestava ma quella sera ne aveva bisogno. Gli sarebbe piaciuto ubriacarsi e dire fesserie, avvinghiarsi a sua volta a qualche giovane violinista, forse lo stesso di Miguel. Magari assieme a Miguel. Da molto tempo non facevano un’orgia. Bei giorni andati, in cui la timidezza si scioglieva sui cuscini assieme a molta carne sudata. Svegliarsi al mattino con la testa che gira, abbracciati, improvvisamente giovani. Il taxi si fermò.

Un ragazzo sulla trentina, già gobbo e pelato, attendeva gli ospiti ritardatari davanti ad un immenso grattacielo, uno dei pochi ancora abitati. Notò che era vestito interamente di nero. Clemente scese dal taxi nel vento gelido e si presentò al giovane, che, ossequiosamente, lo accompagno all’ascensore e salì con lui. “La signora Lefson sarà felice di incontrarla. Stasera da una festa molto particolare, vedrà.”

Passarono attraverso la terrazza dove al centro troneggiava un lago artificiale abitato da una trentina di fenicotteri. Il freddo era tale che l’acqua congelata intrappolava le gambe dei magnifici uccelli, i quali del resto non sembravano minimamente preoccuparsene.

“Come può notare dottore, i fenicotteri la notte amano il freddo, o meglio, il gelo. La signora si è ispirata a un lago dell’America del sud, che ghiaccia di notte e di giorno arriva ai quaranta gradi. Secondo le ultime ricerche è il loro habitat ideale. E noi ci adattiamo! Al mattino l’intera terrazza viene coperta da una calotta di vetro e facciamo salire la temperatura. Naturalmente i nostri amici a breve migreranno ma per ora sono i nostri più graditi ospiti. Soggiornano stagionalmente dalla signora da più di cinque anni. Creature straordinarie, non trova?”

Solo allora Clemente notò il leggero accento americano del ragazzo.

“Certamente. La prego, mi rammenti, da quanti anni la signora vive in Francia?”

“Ava si è trasferita qui da circa sette anni. Pigcasso ha un atelier permanente e a breve la Francia aprirà un museo interamente dedicato alle sue opere.”

Ava Lefson, vera e propria icona del Regime, era diventata famosa molti anni prima per aver scoperto le qualità artistiche del suo maiale. Dopo averlo salvato dal macello, secondo i suoi racconti, gli aveva casualmente avvicinato colori, pennelli e una tela e lui si era messo a dipingere con la bocca.

In pochi mesi avevano messo su un’industria, lei e il maiale. I quadri di Pigcasso si vendevano a peso d’oro e la Lefson con quei soldi aveva ampliato i suoi “santuari” per animali abbandonati o sottratti agli allevamenti.

“Inoltre forse le farà piacere sapere che è stata nominata madrina per la festa annuale in ricordo del giorno del Giudizio”.

“Ah fantastico” Si era completamente dimenticato dell’imminente festa nazionale.

La porta dell’appartamento si aprì e ad accoglierlo c’era la Lefson in persona. Clemente le strinse la mano dubbioso: se la ricordava piuttosto bella, un’americana bionda, in salute. Forse non l’aveva mai vista di persona ma alla televisione non facevano che mandare in onda le performance pittoriche di Pigcasso e la sua mamma umana intenta a passagli pennelli e colori. La vide invece sciupata, magra e avvizzita. Con un sorriso sofferente lo invitò ad entrare. L’appartamento gigante era stranamente silenzioso. Pochi gruppi di persone, vestite perlopiù di nero, parlavano sommessamente. Nessuna musica. Clemente si guardò attorno, cercando un bicchiere di champagne. Ma i camerieri si aggiravano a passi felpati offrendo acqua e pane vecchio. Null’altro. Ci mise poco a trarre le conclusioni. Si trovava nel bel mezzo di una festa catara.

“Straordinario” pensò tra sé e sé “L’unica volta in cui ho voglia di svagarmi finisco a un ritrovo di questi squinternati.”

 

Il catarismo era da qualche anno una specie di religione segreta di stato. Vegani dall’anno mille, astemi, e convinti sostenitori dei digiuni, i catari appartenevano ad una setta che la Chiesa si era presa la briga di sterminare nel mille trecento con una sanguinosissima crociata.

Tuttavia piccoli focolai catari erano sopravvissuti nei secoli ed oggi vedevano la loro ascesa.

Il movimento, come all’epoca, era comandato dai Perfetti, catari che avevano rinunciato a qualsiasi piacere sensibile e che venivano venerati come dei santi. Vestivano solo in nero, non mangiavano nessun alimento che derivasse da un rapporto sessuale e chiaramente se ne astenevano a loro volta. Aspiravano solo a condurre un’esistenza colta, senza riprodursi, attendendo la morte con discreto entusiasmo. Tanto che molti decidevano volontariamente di morire di fame, pratica che chiavano Endura. A quanto pareva la Lefson doveva essersi fatta catara, dato che fin dall’anno mille anche le donne potevano aderire alla setta e diventare delle Perfette.

Naturalmente il Regime da qualche anno ne aveva fatto degli eroi e gli adepti si moltiplicavano a vista d’occhio. Inoltre, non avendo nessun attaccamento ai beni terreni, il Ministero aveva loro affidato la cura del patrimonio nazionale, facendone il fulcro economico segreto di Francia.

Vide Miguel seduto compitamente, intento a conversare in mezzo ad un gruppo di rigorosi astinenti nerovestiti.

“Non vorrai farti cataro adesso” gli sussurrò una volta sedutosi vicino.

Miguel fece finta di non sentire e gli presentò i Perfetti.

“Stavamo parlando di metempsicosi” disse fieramente, brandendo il suo calice d’acqua tiepida. Clemente simulò una faccia entusiasta e si ficcò in bocca un pezzo di pane vecchio per impedirsi di insultarlo. Era furioso. Suo marito si dimostrava giorno per giorno un camaleonte calcolatore. Mellifluo e superficiale, pronto a correr dietro a qualsiasi teoria purché fosse alla moda.

“Sapevi caro, continuò Miguel, che gli unici in occidente a sostenere la teoria della metempsicosi, nota anche come trasmigrazione delle anime, furono proprio i catari? Tutti ad inneggiare al buddismo quando ecco qui, avevamo lo stesso nel catarismo.”

“Nell’occidente medioevale senz’altro, replicò Clemente, ma credo che Pitagora, gli orfici e Platone avessero ben sviluppato il passaggio delle anime da un corpo all’altro.”

Non aveva potuto resistere, l’insolenza e il pressapochismo lo innervosivano oltremodo.

“Sì, sì naturalmente, l’antica Grecia, come non saperlo!” Bofonchiò Miguel cercando di mascherare la gaffe. “Comunque incredibile no? Quel che intendevo tesoro è che la stessa teoria della reincarnazione dell’induismo, del buddismo si ritrova nel catarismo quale metempsicosi o metensomatosi, il passaggio dell’anima dopo la morte di corpo in corpo, come prima discutevamo coi signori…”

Clemente, sorridendo, lo interruppe

“Certo, anche se nel buddismo termina con l’annientamento della volontà del singolo mentre nell’orfismo e nella tradizione occidentale viene più che altro visto come trionfo finale dello spirito sulla materia. Teorie simili, ma non identiche in effetti.”

I Perfetti, silenziosi, li guardavano sorseggiando acqua. Uno di loro fissò Clemente con un certo interesse. “Lei crede nella metempsicosi, dottore?”

Dato che non si sarebbe potuto ubriacare, tanto valeva stordirsi con una buona conversazione metafisica. Sentiva l’odio e al contempo la fierezza di suo marito che, invidioso, aspettava come gli altri una risposta.

“Ebbene, disse Clemente allungandosi sulla sedia, ciò che non mi ha mai convinto è la differenziazione in categorie degli esseri, da inferiori a superiori, dando per scontato che l’umano rappresenti l’apice della scala esistenziale. Pertanto, non ho mai trovato giusto rispettare un cane solo perché c’era la possibilità che un’anima umana fosse reincarnata in lui. Infatti il Regime sta invertendo, comunque, la scala dei valori.”

Il Perfetto, sorridendo con aria di superiorità benevola “Perché un’anima umana? perché non semplicemente, un’anima?”

“Perché è quanto, fino a poco tempo fa, ci veniva insegnato della metempsicosi. E della reincarnazione. Gerarchie ontiche. Non l’ho mai sopportato.”

“Ha ragione” continuò il Perfetto, seguito dall’annuire degli altri “questo è quanto erroneamente è stato tramandato, anche se non è detto che i nostri antenati la pensassero così. Le trascrizioni delle dottrine esoteriche erano pressoché proibite, pertanto dobbiamo affidarci ad appunti di studenti non ancora iniziati. Che dramma, che dilemma! Tuttavia, sa, noi catari d’oggi abbiamo dato una rispolverata anche alla metempsicosi. Anzi, abbiamo intenzione di investire maggiormente nella ricerca medico-scientifica del fenomeno.”

“Davvero, e in che modo, se posso permettermi?”

I catari ebbero un attimo di tentennamento collettivo. Poi, il solito Perfetto parlò

“Ci piacerebbe tentare di far transitare l’anima di un uomo nel corpo di un animale. Crediamo che solo così la specie umana possa riscattarsi. Fino ad ora, infatti, le religioni hanno, come lei ha giustamente notato, fatto percorrere il percorso mentale inverso, ovvero far credere all’uomo che la trasmigrazione dell’anima dopo la morte in un animale o pianta fosse una regressione, quando invece noi pensiamo il contrario. O meglio, crediamo che l’anima sia sempre un’anima, ma che sia meno perfetta e giusta nel corpo di un uomo. In parole povere, vorremmo trasformarci tutti in animali!”

Ci fu una sommessa risata generale e poi un altro Perfetto aggiunse

“Si, ma non vogliamo aspettare la morte, dobbiamo farlo mentre siamo in vita. Una volta morti infatti, non abbiamo memoria né controllo del nostro spirito. Noi catari invece, vorremmo provare l’esperienza del ricordo vivente e della trasmigrazione in tempo reale.”

“Capisco” disse Clemente “anche se, permettetemi, si tratterebbe più che altro di una metamorfosi che di una metempsicosi.”

I Perfetti sospirarono compiaciuti mentre Miguel friggeva d’invidia sulla sedia. In quel momento la Lesfson poco più in là, chiese il silenzio nella sala.

“Signori, Pigcasso ed io siamo felici ed entusiasti di avervi nella nostra dimora. E in segno di gratitudine Pigcasso si esibirà per voi nella stanza delle creazioni, vi prego seguitemi.”

 

 

Gli sparuti ospiti si alzarono e, silenti, si avviarono verso lo studiolo del maiale. La porta era d’oro, il colore preferito di Pigcasso, sentenziò la Lefson aprendola lentamente. Il maiale era lì, tra il suo fieno, grufolando vecchio e stanco. La pelle macchiata, le zampe che a stento sostenevano il suo peso, era il ritratto della natura al suo tramonto. Clemente si sarebbe aspettato di vederlo stramazzare a terra da un momento all’altro. Invece la Lefson, come una vecchia meretrice, gli avvicinò tela, e gli oramai famosi barattoli di colore. Negli anni del Regime il maiale si era reso celebre soprattutto per velocità con cui afferrava in bocca il pennello, imbevendolo casualmente in un colore o nell’altro e nella foga con cui si avventava sulla tela, dipingendo a casaccio linee diritte e curve che venivano vendute per milioni. Tutti avevano visto alla tv le sue performance, e chiunque aveva in casa, (se aveva una casa) almeno una riproduzione delle sue opere. Vederlo dal vivo poteva essere considerato un onore di Stato. Eppure la scena risultò fin da subito macabra e sinistra. La Lefson, con mani magre di ectoplasma, il volto tirato dalla fame, gli mise sotto il naso il pennello, che Pigcasso si ostinava ad ignorare. Poi, tra le litanie della padrona, con sforzo immenso aprì la bocca e fece intravedere le zanne gialle, crepate di vecchiaia. Con dolore prese il pennello e tentò di affondarlo in un barattolo di colore. Invano. Il pennello cadde ma le mani della Lefson, come due arcangeli, lo ripescarono e infilarono con improvvisa violenza tra le zanne del suo figlioccio. Allora si accinse a dipingere con inaudita lentezza, stendendo deboli linee sulla tela.

Clemente vide il petto di suo marito gonfiarsi e protendersi in avanti.

“Sono sconvolto.” disse Miguel ad alta voce “E’ come vedere Hokusai all’opera. Sapete tutti naturalmente che il celebre pittore giapponese ritenne la vecchiaia il periodo più aureo, dove il suo talento raggiunse il massimo apice. Dipinse l’onda a settantun anni…

Così Pigcasso! E’ la dimostrazione dell’immenso valore della sua arte. Se posso permettermi, quelle linee così eteree, quasi acquarellate, sono come musica…” e via così. Miguel stava togliendo spazio al maiale. Gonfiandosi sempre di più quasi copriva il vecchio Pigcasso nell’atto della creazione. Tuttavia, ogni ospite gli fu intimamente grato. La Lefson levò velocemente la tela prima che il pennello cadesse per la millesima volta e ci fu un grande applauso. Senza dubbio il quadro sarebbe ora valso cifre incalcolabili. Il maiale puzzava, o meglio, puzzava tutta la stanza. Si leggeva in faccia a chiunque l’impellenza di uscire. E così, lentamente come erano entrati, i catari e gli altri ospiti uscirono, lasciando riposare Pigcasso dopo la grande fatica. Miguel continuava a bassa voce il suo elogio dell’artista in età venerabile camminando avanti con gli altri ospiti.

Clemente si teneva volontariamente qualche passo indietro, ne aveva abbastanza delle cavolate di suo marito.

Veloce come un ladro, il Perfetto con cui aveva parlato di metamorfosi gli si avvicinò.

“Sarei lieto di continuare la nostra conversazione nel mio studio personale. Venga a trovarmi in questi giorni.” gli sussurrò in un orecchio. E, facendogli scivolare un biglietto da visita tra le mani, sgattaiolò verso gli altri. Clemente rimase un attimo fermo nell’oscurità del corridoio che conduceva alla stanza principale.

L’unico modo per attuare una metamorfosi era accelerare il processo genetico in una creatura che avesse già dentro di sé l’animale in cui voleva metamorfizzarsi. In poche parole, poteva essere sperimentato solo su una donna gravida di un animale più grande di lei. Ad esempio, qualcuna incinta di un rinoceronte bianco.

“E come se non bastasse, terrorizzi il povero Ptolomeo! Lo sai che sta entrando nell’età dell’adolescenza. Ti rendi conto di che trauma potrebbe provocargli vedere i suoi genitori che si urlano addosso in questo modo?”

Ptolomeo, il grosso labrador, preoccupato della lite di Clemente e Miguel, s’era rintanato in un angolo a guaire.

“Io non sono suo padre” Esclamò stizzito Clemente. Le solite esagerazioni, perché avere un cane doveva per forza equivalere ad avere un figlio? Tra l’altro, era stata un’idea di Miguel, lui avrebbe preferito un pappagallo.

“Ok, se vuoi essere sua madre, sta bene. In effetti, io mi sento suo padre e tu, con la tua dolcezza, non puoi che ricoprire il ruolo materno per lui. Ascolta tesoro” continuò Miguel versandosi il terzo bicchiere di whisky “penso tu stia esagerando. Stasera ho cercato di essere gentile con i Catari, Perfetti o come si chiamano. Lo sai che stanno per prendere in mano anche gran parte degli affari interni di Stato? E che d’ora in avanti con tutta probabilità gestiranno tutti fondi compresi quelli per la cultura e la ricerca? Cosa dovevo fare, maltrattarli?”

Ptolomeo, probabilmente stanco della disputa, con la coda tra le gambe lasciò la stanza. Miguel lo guardò andare via con le lacrime agli occhi. “Guarda, sta perdendo fiducia in noi…” e si tracannò il bicchiere d’un fiato. “a quanto pare i Perfetti potrebbero finanziare un mio concerto per il Giorno del ricordo del Giudizio. Io non capisco di cosa ti lamenti, solo perché ho parlato un tantino…”

“Un tantino? Quando ti ho conosciuto eri timido, astemio e passavi il tuo tempo ad esercitarti su Bach. Sei diventato un tacchino, un pavone da cortile.” Clemente era paonazzo, un paio di bicchieri se li era scolati anche lui, appena rientrati dalla festa catara. Sperava l’avrebbero rilassato, invece era stata solo benzina sul fuoco.

Guardò suo marito. La camicia di seta che gli andava via via più stretta, la pancia gonfia, il volto sudato, un inizio di calvizie… stasera addirittura puzzava di sudore.

Era troppo.

“Io me ne vado. Mi farò dare una stanza in clinica per un po’, finché non ci calmiamo.”

Lo sguardo di Miguel passò da stupido a disperato.

“Ma come, mi hai appena detto che sono il tuo pavonuccio, il tuo tacchino…” disse con voce rotta e supplichevole. “Ti prego non andartene, sai che ho paura di restare da solo.”

“Noi sei solo. Hai Ptolomeo.” Disse Clemente cominciando a raccattare il suo computer, libri e agenda. Poi andò in camera loro, fulmineo, determinato a prendere qualche vestito e ad uscire il prima possibile.

Miguel fu indeciso se seguirlo in camera e ucciderlo o finire la bottiglia di whisky.

Al solito, scelse l’opzione meno faticosa.

“Ma almeno dimmi se c’è un altro. O altri. Lo sai che non sarei geloso. Non andartene!”

Clemente uscì dalla camera con la valigia in mano, incrociando lo sguardo ubriaco e vacuo di suo marito che biascicava “Come farò senza di te?”

“Francamente me ne infischio.” E prese la porta.

Scese le scale trionfante: chiudere con le battute di “Via col vento” era stato un vero colpo di stile. Da checca pre-Regime. Naturalmente oggi il film era proibito. La scena in cui Rossella arriva a Tara, la terra promessa e la cavalla stramazza a terra morta per la troppa fatica, tra le risate generali, non era piaciuta alla censura. In generale, quasi tutti i film con animali erano stati vietati e quelli con gli uomini, non interessavano più a nessuno.

Uscì in strada con la netta sensazione che in quella casa, non sarebbe tornato mai più.  Mai più puzza di sudore e cani diseducati. Sarebbe andato a vivere in clinica, vicino a Maya.

Il discorso con il Perfetto gli aveva aperto gli occhi: poteva compiere il più grande esperimento scientifico della storia, Regime o non Regime, poteva, anzi, doveva farlo. Trasformare Maya in rinoceronte approfittando della sua gravidanza ed estrapolare i geni dal feto in tempo reale per la metamorfosi. Non sarebbe morta! Avrebbe partorito il suo rinocerontino in natura, lontano dagli orrori della clinica. Avrebbe potuto allevare il suo piccolo nelle riserve, in una perfetta felicità. Lui li avrebbe seguiti, si sarebbe fatto dare l’incarico di medico nelle riserve. Avrebbero formato una famiglia o quantomeno, un nucleo. Chissà forse anche lui si sarebbe un giorno, trasformato in rinoceronte. Ma si trattava ora di capirne il procedimento.

Albeggiava. Sicuramente i catari erano svegli e vigili.

Tirò fuori dalla tasca il biglietto lasciatogli dal Perfetto e chiamò il suo taxi.

Fu nell’ufficio “Gestione delle risorse economiche per la ricerca” in un baleno.

Il Perfetto lo ricevette con sobria contentezza.

“Vedo con piacere che anche lei, come ogni saggio, ama il mattino. Sa, in fondo, mi auguravo proprio di rivederla il prima possibile.”

 

Capitolo 6

 

Maya si svegliò completamente sudata. Il rinoceronte si agitava nel ventre. L’aria era torrida. Si alzò a fatica, camminando sulle caviglie gonfie e i piedi bluastri. Oramai aveva preso trentacinque chili. Le unghie si incarnavano rendendole ogni passo difficile. Si trascinò con dignità in corridoio e guardò fuori dalle finestre. Doveva essere arrivato un improvviso sbalzo climatico, il gelo era stato soppiantato in poche ore da un clima ferocemente caldo, che andava seccando le poche piante sempreverdi dei giardini esterni. “Fortunatamente i raccolti sono in salvo” si sorprese a pensare Maya. Il Regime, da qualche tempo aveva spostato nelle riserve gli orti per i pochi meritevoli. Il resto dell’umanità viveva degli avanzi che venivano distribuiti ogni mattina sulle poche vie dedicate agli umani. Maya era un umano meritevole, almeno per qualche mese ancora. Il rinoceronte le diede un calcio e lei per poco non svenne dal male. Il caldo stava diventando insopportabile, con tutta probabilità il personale doveva ancora aggiornare il climatizzatore interno alla clinica. Decise di andare nella piscina più vicina, a cercare ristoro dal proprio peso.

Entrò. L’ambiente era vuoto: una distesa d’acqua poco profonda, adatta alle donne gravide. Era la piscina coperta che Maya preferiva, per le grandi finestre che davano sul parco principale della clinica. Guardò fuori. L’erba, fino a poche ore prima coperta dalla neve, si stava seccando sotto il sole diventando gialla.

Affondò le caviglie gonfie in acqua e ricordò uno dei suoi passi preferiti di Lucrezio

 

Il mondo non è stato creato per noi. Guarda le foreste che lo rivestono, le belve, le rocce, le paludi desolate; guarda i deserti con la loro arsura spietata e, più in là, le nevi che coprono tutto. No, non è stato creato per noi.

 

“Sveglia di buon mattino, eh? Brava!”

Maya sussultò. Aveva riconosciuto quel respiro corto e asmatico. Ilde le stava ora accanto, anche lei con le grosse caviglie immerse nella piscina.

“Brava, brava, brava” continuò sbatacchiando i piedoni nell’acqua in modo esasperante. Ci mancava solo lei, ora. Sarebbe diventata così brutta? No, la certezza di non sopravvivere al parto, dava a Maya la forza di continuare a portare quel peso. A sopportare un mondo che presto avrebbe lasciato.

“E non dico brava a tutte! Tu stai affrontando la gravidanza con la calma dei martiri. Hai abbandonato la speranza in favore di un ovvio sacrificio. Chi se ne importa della vita? Diciamo noi umani saggi, oggi. Sono così felice, grazie a questo governo si ritorna ad un Medioevo dove immolarsi pare sia l’unica azione che abbia un senso. Si, sono fiera di te.”

Maya guardò negli occhi la deforme vichinga. Due palle che sembravano scivolare dalle orbite la fissavano con curiosità. L’iride era azzurra. Uno sguardo che un tempo doveva essere stato ammaliante. Ora, aveva tutta l’intensità minacciosa di un orco uscito dalle fiabe dei Grimm.

“La ringrazio. Servire il Regime col mio ventre mi rende degna di vivere senza attaccamento alla vita.”

Tanto valeva rispondere coi loro toni.

“E per la tua bravura” continuò il donnone senza apparentemente averla ascoltata, “parteciperai alla cerimonia finale del Giorno del ricordo del Giudizio.”

Maya si fissò i piedi, rimasti immobili da qualche minuto. Aveva sentito parlare di questo genere di cerimonie, fatte e partecipate da una strettissima élite. Se non ricordava male, negli ultimi tempi venivano organizzate dalla setta dei catari ed avevano assunto un’importanza capitale per il governo. Al popolo era proibito non solo parteciparvi ma anche saperne qualcosa a riguardo. Correvano voci si trattasse perlopiù di eventi macabri, dove venivano giustiziati elementi contrari al regime o colpevoli di qualche delitto. Si utilizzava altresì quel giorno per stendere nuovi progetti di legge e celebrare l’ascesa di nuovi funzionari e capi. Insomma, l’ultimo evento a cui Maya avrebbe desiderato prendere parte.

“La ringrazio” disse invece sommessamente “dove e quando si svolgerà?”

Ilde ebbe un moto di stizza. La prese per un braccio quasi stritolandoglielo.

“Ho appena lodato la tua mansuetudine, non farmene pentire e soprattutto, non fare domande. Che ti importa? Verrai caricata su un treno, tu e il santo dono che porti, e ti ritroverai al luogo del convegno. Quanto al tempo, che importanza può avere? Sii e vivi come in convento, senza aspettative future.”

“Si signora Ilde”, replicò Maya divincolandosi dalla stretta con energia.

Chissà, forse ora pesava più di lei. Avrebbe potuto trascinarla in mezzo alla piscina ed affogarla. Ilde non avrebbe osato reagire più di tanto, temendo di danneggiare il feto.

Ma Clemente entrò, mandando in fumo ogni proposito omicida. Stava ai bordi della piscina, salutandole con strana allegria.

“Oh bene dottore, stavo giusto annunciando alla sua paziente una buona notizia.”

“Venite, uscite dall’acqua, hanno azionato i refrigeratori. Maya, non si affatichi troppo”

Ubbidiente e sottomessa, uscì scortata dal donnone. Fissò Clemente negli occhi. C’era qualcosa di strano in quell’allegria sconosciuta. Lui che, se pur calmo di indole, tradiva nei suoi gesti sempre una certa frenesia, oggi le appariva pacato, sicuro di sé.

“Dottore, dicevo alla paziente che, grazie al suo buon comportamento e specialmente, in vista del futuro cucciolo che porta, avrà l’onore di partecipare al convegno annuale per la commemorazione del giorno del Giudizio.”

Ilde aveva pronunciato la frase con solennità. Clemente scoppiò a ridere. Era una risata isterica, un unico suono ripetuto nella stessa tonalità per qualche secondo.  Per la prima volta, Maya cominciò a dubitare della stabilità mentale del dottore.

“Non solo” replicò lui “ma è stata scelta per tenere il discorso in lode al Regime”

“Cosa?” Per la prima volta, e Maya si augurò vivamente fosse anche l’ultima, lei e Ilde avevano avuto la stessa reazione.

Clemente sorrise, benevolo.

Nel suo camice bianco, le sembrava dimagrito, ossuto. E poi quello sguardo, la fissava con avidità.

“Proprio così.” Annunciò lieto “torno ora da una riunione con uno dei responsabili dell’organizzazione.  Il Ministero cataro desidera avere delle nuove testimonianze per la cerimonia del Ricordo. Ma venite nel mio ufficio, vi spiegherò tutto, è ora che Maya si sieda un momento.”

Uscirono come cani obbedienti.

Poco dopo Maya si ritrovò sulla poltrona più comoda dello studio del dottore. Ilde, guardinga, sedeva impettita vicino alla porta.

Clemente dietro la sua scrivania, a suo agio come un medico di provincia, parlava con la voce bassa e confortevole di chi ha preso la decisione giusta, buona per tutti.

Le fu detto che era un grande onore. Ogni anno, il consiglio sceglieva qualcuno per tenere un’oratoria in favore dei principi del Regime. Si erano alternati funzionari, medici, avvocati e tesorieri del Partito, ma ora era tempo di cambiamento. C’era bisogno di voci fresche, nuove, giovani e dedite alla causa in modo diverso. Come Maya, una gravida di un animale di grossa taglia. Perdipiù studente di letteratura classica.

“Le assicuro che quando ho parlato di lei al Perfetto, responsabile dell’organizzazione della cerimonia, era assolutamente entusiasta” disse Clemente agitando le mani in aria e sorridendole. Dunque era stato lui, ad inventarsi questa pagliacciata. Lui, il suo unico, se non amico, referente in quella odiosa clinica. Il suo compagno di scacchi, quello che addirittura aveva preso l’incomodo di andare a parlare con sua sorella Alicia.

“Non sarà rischioso per il cucciolo? L’emozione di parlare in pubblico, tutta questa responsabilità…” se ne uscì Ilde visibilmente preoccupata.

Clemente rise ancora in quel modo uniforme e inquietante.

“Assolutamente no! Tutt’altro, la terrà impegnata e qualche emozione può solo giovare al piccolo, o piccola, chissà, ancora non è possibile stabilire il sesso.” Disse rilassando la schiena sulla sedia. “Naturalmente se la sente, vero Maya?”

Lei mise le mani sul ventre. Silenzio. Mai una volta che quel dannato feto servisse a qualcosa. Perché non le tirava un calcio adesso?

Senza aspettare troppo la risposta, Clemente continuò “Bene, ho grandissima fiducia in lei. Ha un mese per prepararsi, il discorso dovrà essere lungo all’incirca mezz’ora e come tema ho suggerito un’apologia del vegetarianesimo.”

“Non veganesimo?” chiese Ilde incredula, col labbro penzolante.

“Giusta osservazione, no” replicò Clemente “ diciamo che il punto di forza per cui Maya è stata scelta è la sua specializzazione in letteratura antica. Il veganesimo ahimè non era diffuso, ma c’è più di qualche autore classico che ha sostenuto il principio del vegetarianesimo. Pitagora, Ovidio, Seneca… insomma, c’è di che divertirsi!”

Maya cercò di trattenere un’espressione perplessa. Doveva dimostrare sottomissione, specie adesso, che era direttamente coinvolta.

Clemente la fissò “Potreste pensare che l’argomento non sia di certo nuovo. Certamente, essendo il vegetarianesimo una delle nostre pietre miliari, sono stati tenuti centinaia di discorsi sul tema. Ma questa volta abbiamo degli ospiti stranieri e illustri, la congregazione di ambasciatori Americani. Saranno con noi per assistere all’esecuzione di alcuni fuggitivi che anni fa, alla salita del nostro governo, si erano rifugiati negli States e che gli americani oggi ci consegnano con grande intelligenza diplomatica. Sono del resto fuggiaschi della peggior specie, figli di magnati francesi della carne.  Il Ministero era riuscito ad eliminare i padri, ma non i figli. Come tutti sapete, in America ci sono ancora consumatori di carne e pesce, per questo han dato loro asilo anni fa. Ma il vento sta cambiando!”

Clemente guardò Ilde seduta vicino alla porta e le sorrise.

“Il mondo ci guarda come esempio, siamo gli unici ad aver fatto una scelta così coraggiosa e drastica. Vengono a studiarci, a capire se il nostro modello può funzionare anche per loro. Per l’occasione La Lefson, quest’anno madrina dell’evento, farà da intermediaria e Pigcasso celebrerà l’apertura delle cerimonie con una performance dal vivo.”

Ammesso che ci arrivi, vivo, tra un mese. Si ritrovò a pensare Clemente. Per un attimo tornò in sé. Guardo Ilde, l’orribile deforme, attaccata alla porta d’uscita col suo enorme corpo.

Lo squadrava come una vecchia di paese fissa un nipote, per calcolare quanto a lungo vivrà. Se è abbastanza forte. Se riuscirà a sopravvivere in un mondo brutale. Infastidito da quella strega, spostò lo sguardo su Maya. Assente, pallida. Era perfetta. Sì. L’avrebbero esaminata, avrebbero capito, i Perfetti, i Catari, avrebbero capito, ascoltandola, che lei ne era degna. Il suo discorso sul vegetarianesimo europeo nei secoli avanti Cristo l’avrebbe automaticamente elevata a essere umano etico. Era la candidata perfetta per il primo tentativo di metamorfosi in gravidanza. Due specie in un corpo, un’esplosione di geni. Non aveva ancora parlato al Perfetto di tutta la procedura, ma osservando Maya, piano piano la sua idea, folle, prendeva corpo nei dettagli. L’indomani aveva appuntamento nella sede catara. Lì, accompagnato da un Perfetto, avrebbe svelato i particolari del suo esperimento. Il muro bianco, quasi lucente, lo fissava. Davanti, come fantasmi, stavano Maya e Ilde. Entrambi esperimenti scientifici nelle sue mani. Inoltre si era liberato da suo marito e da quel cane invadente. Era l’inizio di una nuova vita. Si asciugò le mani sudaticce sulla scrivania e continuò.

“Durante la cerimonia gli ambasciatori ci consegneranno i prigionieri e probabilmente, se tutto andrà bene, firmeremo un’accordo di scambio reciproco.”

“E in che modo verranno giustiziati ?” chiese Ilde quasi fosse una domanda di cortesia.  La pelle le si era fatta rossa, come erosa dallo sbalzo termico.

Stavolta Clemente sorrise a Maya “I figli dei magnati della carne saranno condannati alla damnatio ad bestias”.

Maya rabbrividì.

La damnatio ad bestias era uno dei supplizi preferiti dal popolino della Roma Imperiale. Ben visibili da distante, i condannati venivano straziati da bestie feroci. Cercavano di scappare, e le bestie, imprevedibili, li assaltavano fino a divorarli. In questo stava il divertimento del pubblico. Ogni volta, lo spettacolo del supplizio ad bestias poteva essere diverso. Dipendeva dagli animali e dalla resistenza dei condannati. Talvolta venivano legati ad un palo, semplicemente pronti per farsi sbranare. Altre volte li buttavano nell’arena in gruppo, le mani incatenate dietro la schiena, e lì venivano assaliti a più riprese dalle fiere. Spesso, per gioco, veniva loro data qualche arma per difendersi, e lo spettacolo si prolungava.  Altre volte i prigionieri, semidivorati dalle bestie venivano conservati vivi per divenire il loro secondo pasto, tra le risa e i divertimenti degli spettatori.

Il rinoceronte, finalmente si mosse con violenza nella sua pancia e Maya vomitò sulla scrivania del dottore. Ilde, come una brava infermiera si alzò di scatto, quasi felice del suo malore. Asciugò il vomito con uno straccio e alzò Maya con cautela. La cautela dei cattivi.

“Penso sia ora che il piccolo rinoceronte trovi un po’ di riposo. A letto!”

Clemente si alzò e accompagnò Maya alla porta e all’ingresso del corridoio.

“Ce la fa a tornare in camera da sola?”

“Si”

“E’ felice di poter lavorare a questo discorso?”

“Sì, sì ma… se posso, dottore…”

“Mi dica pure”

“Sono preoccupata per queste esecuzioni. Guardarle nel mio stato, proprio prima della cerimonia, io…”

Clemente di nuovo scoppiò a ridere in quel modo sinistro, ripetuto e identico.

“Ma nessuno di noi guarderà le esecuzioni! Non le troviamo interessanti. Che muoiano ci fa piacere ma è un intrattenimento per gli animali. Come lei sa, nelle riserve non manca nulla ma i leoni, i lupi, insomma, ogni tanto fa loro bene avere qualche preda di piccola taglia. Per farli correre un po’ e non perdere la dimestichezza alla caccia. Non possiamo certo sacrificare altri animali. Per ora la fauna è troppo ridotta.  Ma per carità, non abbiamo di sicuro il cattivo gusto di stare ad assistere, abbiamo di meglio da fare. Ad esempio, ascoltare il suo discorso. Non si preoccupi Maya, anzi, si rallegri. Forse questa celebrazione potrebbe addirittura salvarle la vita. Mi creda.”

Maya lo fissò pensando -E così le bestie carnivore nelle riserve si nutrono perdipiù di uomini. Ecco dov’era sparita la maggior parte della popolazione francese.

“Va bene, si sono contenta di contribuire alla causa del Regime, quanto alla mia vita…”

“Ogni cosa a suoi tempo” le disse Clemente prendendo congedo.

Maya si incamminò a fatica verso il letto e lui tornò in ufficio.

Non aveva ancora finito.

Trovò Ilde visibilmente incollerita, come da copione

“Cosa le salta in testa dottore… affidare il discorso annuale del Regime a quella povera donna gravida e malinconica!”

“Non si preoccupi” rispose lui calmo “con lei al suo fianco, cara Ilde, andrà tutto benissimo. Certo sì la accompagnerà come una brava sorella per tutto il viaggio, fino al palco. Così è deciso.”

“Ah davvero?” Ilde si mise goffamente in piedi. Lo fissava come un cinghiale ferito e feroce. Clemente con tutta calma tornò a sedersi sulla scrivania.

“Sa, se lei farà il suo dovere, prevedo che all’andata potremmo fare una piccola deviazione verso la riserva dove si trova Arjuna.”

Ilde impallidì. Erano due anni che non rivedeva suo figlio. Arjuna, il bue muschiato tibetano che per poco non l’aveva sventrata venendo al mondo, era beatamente ospite della riserva tra le montagne e le nevi artificiali. Ilde non aveva avuto occasione di andare a trovarlo se non nei primi tempi, quando il Governo la reputava un’ eroina. Per un anno le foto di lei e Arjuna avevano circolato in tutti i giornali on line del regime. Era stato un evento storico se non addirittura mitico. Lei veniva portata nella riserva montana inizialmente quasi una volta al mese, poi sempre più di rado. Il Regime infatti riteneva insano un lungo attaccamento ai cuccioli. Come in natura, il piccolo doveva farsi strada da sé, allontanandosi dalla mamma dopo il primo anno e mezzo. Ma lei era umana. Le mancava. Conservava gelosamente le loro foto ritagliate dai giornali e non appena Clemente le offrì questa possibilità, non ebbe scelta.

“Potremo restare alla riserva delle montagne solamente un paio d’ore, ma penso ne valga la pena.”

Il donnone accettò tentando di nascondere la gioia materna. Uscì di fretta lasciando Clemente alla sua scrivania. Come mai in vita sua, fu preso dalla voglia di lavorare. Scrivere, calcolare. Sarebbero venuti a prenderlo alle prime luci del giorno. Doveva preparare un rapporto convincente da presentare alla sede catara per l’indomani. Fracassò il cellulare a terra. Non ne poteva più, negli ultimi venti minuti aveva ricevuto almeno quaranta messaggi con foto: Miguel piangente, Miguel abbracciato al cane e visibilmente ubriaco. Basta. Era finalmente arrivata l’ora di concentrarsi.

Immagine di copertina: Illustrazione a cura di Giovanni Berton.

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Francesca Sarah Toich è un’artista che vive a Parigi e lavora principalmente in Francia, Italia e America. Specializzata in Commedia dell’Arte e letteratura italiana  è stata premiata come migliore giovane interprete della Divina Commedia, vincendo per due volte il Lauro Dantesco a Ravenna. Insegna e recita in italiano, inglese e francese in numerose compagnie di teatro e ricerca, ed ha  portato le sue performance a New York, Mosca e Tokyo. Da sempre collima la scrittura con le sue performance e messe in scena teatrali; ha vinto il primo premio nel concorso internazionale di scrittura per lo spettacolo “Premio Goldoni  Opera Prima” con la tragedia intitolata “Diotallevi” e ha pubblicato due romanzi fantasy per ragazzi. Alle Bestie! e’ il suo primo romanzo di Climate Fiction.

Riguardo il macchinista

Walter Valeri

Walter Valeri poeta, scrittore e drammaturgo è stato assistente del premio Nobel Dario Fo e Franca Rame dal 1980 al 1995. Ha fondato il Cantiere Internazionale Teatro Giovani di Forlì nel 1999. Successivamente ha diretto il festival internazionale di poesia Il Porto dei Poeti a Cesenatico nel 2008 e L’Orecchio di Dioniso a Forli' nel 2016. Ha tradotto vari testi di poesia, prosa e teatro. Opere recenti Ora settima (terza edizione, Il Ponte Vecchio, 2014) Biting The Sun ( Boston Haiku Society, 2014), Haiku: Il mio nome/My name (qudu edizioni, 2015) Parodie del buio (Il Ponte Vecchio, 2017) Arlecchino e il profumo dei soldi (Il Ponte Vecchio, 2018) Il Dario Furioso (Il Ponte Vecchio, 2020). Collabora alle riviste internazionali Teatri delle diversità, Sipario, lamacchinasognante.com Dal 2020 dirige i progetti speciali del Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”. È membro della direzione del prestigioso Poets’ Theatre di Cambridge (USA).

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