Riassunto delle puntate precedenti (Qui potete trovare i capitoli 1 e 2 e notizie sull’autrice, pubblicati ne La Macchina Sognante n. 19)
Durante una visita ginecologica Maya, giovane studentessa di letteratura classica, scopre di essere incinta di un rinoceronte bianco. Viene subito inviata a Coronide, una clinica specializzata in parti difficili dove incontra Clemente, il medico che seguirà la sua gestazione e Ilde, una spietata infermiera fanatica della dittatura vigente.
Il Regime totalitario vegano e ambientalista, instauratosi in Francia a seguito dei cambiamenti climatici, ha infatti come unico scopo la rivitalizzazione di flora e fauna a spese dell’umano. Dopo aver massacrato quasi tutta la popolazione e trasformato la Francia in un’enorme riserva naturale, il Governo costringe le giovani donne rimaste a mettere il loro ventre a disposizione per un’inseminazione artificiale di mammiferi in via di estinzione, seguendo una procedura medica già tentata nei folli laboratori di Auschwitz.
CAPITOLO III
“Perché l’uomo ragazze mie è un virus, un cancro del pianeta. Un cellula impazzita che in poco meno di duecentomila anni ha divorato la terra. E noi non possiamo fare altro che sacrificarci per…”
I soliti discorsi oramai logori. Da anni ogni radio o televisione in qualsiasi luogo si andasse trasmetteva la stessa litania. Maya aveva sentito questa teoria migliaia di volte, oramai non si poneva nemmeno più il problema se fosse giusta o sbagliata.
Gli ultimi residui di speranza se n’erano andati assieme al taxi che l’aveva depositata quella mattina davanti alla clinica.
Nemmeno il tempo di mettere giù i bagagli e subito si era trovata davanti ad una donna alta e deforme dalla voce stridula pronta a convincere una trentina di ragazze gravide di inverosimili bestie, che il loro ventre si sarebbe spappolato per una buona causa.
Quando mezz’ora prima un infermiere l’aveva portata in sala riunioni, le aveva suggerito di ascoltare senza fare domande.
E così, seduta come una scolaretta in primo banco, Maya fissava attonita il donnone.
Ilde, come aveva detto di chiamarsi, era vestita di bianco, pallida, quasi violacea. Si muoveva tra loro in modo meccanico e sgraziato, simile ad un ingranaggio rotto. Aveva le gambe storte, come se si fossero curvate fino a quasi spezzarsi senza tuttavia cedere. La cassa toracica era singolarmente alta e le schiacciava il collo, rosso per lo sforzo della parola. Gli occhi, di un blu intenso, sembravano spremuti fuori dall’incavo: due palle trasparenti prossime alla caduta. Quegli occhi erano pieni d’odio, Maya lo capiva bene. Per quanto quella donna si sforzasse di apparire gentile, la voce e lo sguardo tradivano un misto di invidia e sadismo nei loro confronti. Le guardava come se dovesse divorarle. Ora stava loro elencando i privilegi della clinica: lunghe passeggiate nei quindici parchi che circondavano Coronide, nuotate in piscine dall’acqua calda, stanze singole e luminose e un personale ansioso di assisterle ad ogni momento della gravidanza.
Chissà dove avevano posizionato il cimitero. Chissà se c’era, un cimitero. O se come nei conventi qualche secolo prima, si seppellivano le partorienti in fretta e furia in qualche fossa comune. Poco le importava. Anzi, era quasi contenta di morire. Scappare dalla Francia era impossibile, restarci, anche. Oltretutto oramai l’avevano convinta che l’essere umano era immondizia inquinante dunque non aveva nemmeno più un minimo di amor proprio. L’idea di passare però diciassette mesi in quel posto con il donnone Ilde la agghiacciava.
Si guardò attorno. Le sue compagne di clinica sembravano instupidite come doveva apparire lei. Gli sguardi bassi, i ventri gonfi, ricordavano vagamente delle ragazze che un tempo, probabilmente, qualche volta si erano persino divertite. Ora avevano la vitalità di un pezzo di carne morta sul banco del supermercato. Solo un paio, brutte e grasse, sembravano meno terrorizzate delle altre. In breve capì il perché. Quando Ilde elencò gli animali che minacciosi crescevano nelle loro pance, scoprì che le due aspettavano rare bestie di piccola taglia. Sarebbero di certo sopravvissute e si preparavano a qualche mese di sollazzo nella lussuosa clinica. Tutto il resto, era pressoché condannato a morte. Maya tuttavia restava il caso più eclatante: quando Ilde la dichiarò gravida di un rinoceronte bianco sentì intorno a sé l’imbarazzo generale. Si, era la più sfortunata, colei che avrebbe sofferto oltre ogni aspettativa. Gli occhi di Ilde la avvolsero in un insano sguardo avido e compiaciuto.
Quando la riunione ebbe termine ogni ragazza venne scortata da un infermiere nella propria camera. Nessuna tentò di parlare con le altre. Solo le due grassone chiesero dove fosse possibile trovare un gelato. Le altre, mute, si avviavano verso i letti, con l’unica speranza di affogare in qualche ora di sonno.
Era lunedì e come ogni lunedì Clemente prendeva il tram. Giorno dell’umiltà. Il Ministero non approvava la scelta ma poco importava; gli altri giorni andava in taxi nero, il più lussuoso. L’autista non mancava poi di fargli il saluto del Regime ad ogni sua entrata e uscita e questo lo faceva sentire un impiegato della Gestapo. Amava il lunedì. Si vestiva sommessamente e si infilava in quei tram dall’aria rarefatta, pieni di un’umanità vuota. Occhi spenti e braccia mollemente appese ai ganci dell’autobus, per non cadere. Le donne non si truccavano più da qualche anno, gli uomini si trascuravano. Alcuni avevano addirittura smesso di lavarsi. Quel breve tragitto settimanale gli permetteva di restare in contatto con la realtà, di sentirsi per un attimo come tutti gli altri. Quei pochi che erano rimasti. Lui era sbarbato, pulito e, sotto un anonimo cappotto, ben vestito. Ma dentro condivideva la stessa loro disperazione. Anche il rapporto con Miguel non era più lo stesso. Lo disturbava la sua sottomissione a quel regime assurdo, quella devozione cieca dettata da puro egoismo, dall’amore per la grande casa, dalla soddisfazione di sentirsi finalmente in testa alla società. Prima del Regime, quando ancora frequentava il conservatorio, era un ragazzo timido e pieno di talento, che a fatica spiccicava qualche parola tra amici.
Per questo si era innamorato di lui; aveva rivisto la sua stessa mitezza e delicatezza, quell’entrare nel mondo in punta dei piedi e in silenzio.
Si era sbagliato. Non timidezza, ma insicurezza, non dolcezza ma paura. Ora che suo marito era ritenuto il miglior direttore d’orchestra di Francia, non perdeva un rinfresco o una serata di gala, dove si aggirava tra i capi del regime completamente a proprio agio, con la battuta pronta e lo spirito brillante, mentre lui, Clemente, spesso si annoiava in qualche angolo contando il doloroso lento passare delle ore. Essere figlio di una delle fondatrici del Ministero non aiutava certo le cose. Ovunque andasse, veniva trattato come un principe. Il tram arrestò bruscamente. Scese e prese il sottopassaggio verso Coronide. La prestigiosa clinica era infatti circondata da alte mura e gli addetti ai lavori potevano entrare solamente attraverso gallerie sotterranee controllate dalle guardie. Una volta in ufficio, non fece nemmeno tempo a sedersi, che bussarono alla porta. Ilde entrò col solito modo goffo e pesante. La sua enorme mole a stento le permetteva di passare dalla porta d’entrata. Nonostante lavorassero insieme da due anni, Clemente non si era ancora del tutto abituato a tanta deformità. Almeno, non era stato lui.
Ilde aveva partorito quattro anni prima. Uno yak. Caso eclatante, che molti definirono miracoloso. A differenza delle disgraziate di cui si occupava Clemente ora, Ilde era stata una volontaria, forse la prima a tentare una gravidanza fuori portata. Il Regime da subito aveva investito straordinarie risorse nel concepimento artificiale di mammiferi ma fino a Ilde si era limitato a piccole taglie: gatti, conigli, cani, ghiri etc. Il sacrificio di persone come lei aveva dato il via alla follia. Ilde, al momento della procreazione assistita, aveva scelto lo yak, il bue selvatico tibetano, che riteneva da sempre il suo animale totemico. Si era allenata con mesi di yoga e pranayama, il Governo aveva finanziato un suo lungo soggiorno in Tibet presso i monaci per prepararsi spiritualmente.
In effetti, era sopravvissuta. Il piccolo totemico cucciolo di yak le aveva dilaniato la cassa toracica, rovinato per sempre il sistema respiratorio, incurvato le lunghe gambe e fatto esplodere centinaia di vene. Il viso, non era più quello. Le labbra si erano crepate irrimediabilmente a forza di urlare, gli occhi erano pressoché fuoriusciti dalle orbite cambiando addirittura vagamente colore e la pelle della faccia era costellata dalle esplosioni dei capillari. Naturalmente, tutti i capelli le erano diventati bianchi per lo sforzo e subito dopo il parto aveva cominciato a perderli. Da allora, il Ministero le aveva affidato un posto di prim’ordine nella clinica; a lei il compito di continuare la strada che aveva aperto guidando le altre.
“Dottore, so che a breve andrà in sala parto, ma le ho portato la lista delle nuove gravide.”
Da diverso tempo Clemente aveva deciso di guardarla il meno possibile. Di parlarle usando le strette parole necessarie. Nulla più. Ai suoi occhi lei rappresentava il colmo del fanatismo, la più volonterosa carnefice del regime.
“Grazie” rispose laconico “abbiamo già un elenco dei feti in via di sviluppo?” Ora veniva il bello. Dover sopportare l’entusiasmo del mostro.
“Certo dottore, abbiamo, su circa trenta pazienti, una straordinaria varietà di nascituri. Anzitutto le dico che aspettiamo un tapiro della Malesia, oh, creatura così antica… la sua comparsa sulla terra risale a cinquanta milioni di anni fa…”
Clemente sospirò. I soliti esagerati; vero, probabili antenati dei tapiri risalivano a così lontano ma per qualcosa che assomigliasse alla specie di oggidì si parlava di venti milioni. Comunque, non era il caso di arrestare il giubilo di Ilde. La lasciò enumerare le straordinarie qualità del tapiro, la sua proboscide prensile, le sue feci così ricche di semi di alberi da frutto che sparpagliava in giro ripopolando le foreste e naturalmente l’adorabile maculatura gialla bianca dei cuccioli. Era sollevato; i tapiri neonati pesavano solamente sette chili, anche se adulti arrivavano ai quattrocento. La ragazza sarebbe sopravvissuta.
Ilde continuava “E poi abbiamo un leopardo, un alpaca, un cammello, un orso…”
Un piccolo di cammello pesava trenta chili. Guai grossi per la partoriente.
Paradossalmente invece un cucciolo d’orso nasceva grande come un porcellino d’india. Solo mezzo chilo. “Peccato perché la gravida dell’orso è molto grassa, avrebbe potuto sostenere un parto più importante.” Aggiunse sinceramente dispiaciuta Ilde. E continuò, maligna “Lo stesso non si può dire della ragazza incinta del rinoceronte bianco, quasi anoressica!” Clemente sobbalzò sulla sedia. Ilde gli indirizzò un’occhiata trionfante “Sapevo dottore che la notizia l’avrebbe entusiasmata. Ebbene sì, una delle ragazze aspetta un rarissimo rinoceronte bianco. Sfortunatamente si tratta, come le accennavo, di una ragazza esile ed emaciata, a stento arriverà al decimo mese di gravidanza, anche pompata e gonfiata artificialmente. Ma possiamo estrarre il feto già ben formato a dieci mesi e continuare per i restanti sette in un grande incubatore, di quelli appena arrivati dalla Cina. Ah, diavolerie moderne per un metodo così antico! Già Giove si cucì Dioniso nella coscia per continuarne la gestazione quando la madre morì prematuramente. Non faremo altro che seguire gli antichi miti… se mi da il suo permesso, posso occuparmi personalmente di iniziare la gonfiatura artificiale oggi stesso.”
Ilde stava sbavando. Il volto orrido e paonazzo, la bocca aperta e avida, respirava faticosamente aspettando la preda. Clemente decise di andare cauto. Fosse per lui, le avrebbe spappolato il cervello sul suo tavolo con un attrezzo qualsiasi. Lì, così, morta sul colpo. Invece no, gli toccava persino far finta di assecondarla. Se il mostro subodorava la sua compassione, l’avrebbe denunciato subito al Ministero. Certo, sua madre poi avrebbe potuto tirarlo fuori dai guai, ma appunto, lui guai non ne voleva. Debole, vigliacco. Come al solito, si disse, sono incapace di una reazione degna. “Vedremo Ilde, vedremo presto come è meglio procedere. Mi lasci visitare la paziente nel tardo pomeriggio. Domani ne riparleremo. Adesso mi scusi, ma devo correre in sala parto.”
Il topo e la volpe artica non diedero alcun problema. I parti erano andati talmente bene che i piccoli si trovavano già in viaggio per le colonie, in speciali incubatori che provvedevano anche al nutrimento dei primi giorni. I disastrosi tentativi di allattamento erano stati soppressi quasi subito a causa delle marcate differenze tra madre e figlio. Le puerpere di quel pomeriggio avrebbero avuto diritto a due settimane di riposo a Coronide. Poi, dritte alla vita di prima, fino al prossimo concepimento. Il sole era calato da un pezzo e quasi metà del personale era rientrato a casa. Miguel aveva un concerto quella sera, così, sarebbe rientrato più tardi. Ne aveva approfittato per finire delle ricerche in laboratorio, questo si diceva. Sapeva benissimo che in verità aveva rinviato il più possibile la visita alla paziente del rinoceronte. Maya 655321, numero di inseminazione artificiale. Trentatré anni, per alcuni già vecchia, per altri, un ventre pieno di risorse per cinque anni almeno. Dipendeva dai punti di vista. Camminando verso la stanza della paziente, ne sfogliò la scheda sul mini computer portatile: studentessa di letteratura antica. Il Regime concedeva anche questo: rimanere studenti a vita. Pagati. Un mestiere stimato. Tanto più che Maya aveva il suo ventre da mettere a disposizione. Non sarebbe mai stata mandata nelle colonie, quelli erano posti per ignoranti e insensibili. Dal punto di vista del regime, persone come Maya andavano sostenute. Per questo ora era sdraiata su un morbido letto, al caldo, in una clinica-fortezza. Clemente si fermò davanti alla stanza. I muri erano trasparenti, solo dall’esterno, naturalmente. Loro potevano vederla, lei no. Ignara di tutto, l’esile Maya stava a letto con un grosso libro tra le dita. Clemente aprì piano la porta. Non era compassione, né pena. Quelle donne lo mettevano in soggezione. Specie le più miti, come quella che ora gli stava davanti, inumata nel letto. Lo guardava silenziosa con due occhi pieni di diffidenza mal celata. Era lui che doveva temere più di tutti? Quel signore biondo di circa quarant’anni, vestito di verde, con l’aria seria, con l’aria di chi la sta pesando mentalmente per capire fino a quanti mesi sarebbe potuta sopravvivere? Sarebbe stato lui a decidere quanto allargarle il torace? A dare l’ordine di iniettarle tutti i giorni una sostanza ingrassante? Era lui quello che le avrebbe tolto un polmone per fare spazio alla bestia che le cresceva nella pancia?
“Sono il dottore che si occuperà della sua gravidanza.” Si annunciò a bassa voce Clemente.
“La stavo aspettando.” Maya appoggiò il libro sulle lenzuola.
De Rerum Natura. Nessuna traduzione del titolo in francese in copertina.
“Legge Lucrezio direttamente in latino?”
Chiese stupito Clemente.
“Sì.”
Una sillaba pulita, cristallina, delicata come un fiocco di neve. Poi, silenzio. Nulla più. La modestia. O il terrore. Non erano certo lì per parlare degli abissi del vuoto di Lucrezio. Clemente si appoggiò su un mobile asettico della stanza e cominciò a bassa voce.
“Come probabilmente già saprà si tratta di una gestazione complessa.”
Maya annuì.
“Il suo corpo in questi mesi verrà modificato. Non deve preoccuparsi di eventuali sofferenze, naturalmente le daremo qualcosa in grado di alleviare…”
“Non voglio mi imbottiate di psicofarmaci.”
Entrambi rimasero attoniti. Non era più permesso reagire così. Una frase del genere poteva anche significare l’espulsione da Parigi. Ma lei aveva un rinoceronte bianco nell’utero. Poteva permetterselo. Almeno per i prossimi diciassette mesi, se mai fosse sopravvissuta così a lungo. Tuttavia, se lui fosse stato diverso, avrebbe trovato di certo il modo per punirla. Ma si trattava di Clemente.
“Ha ragione” le disse, “vedremo con l’avanzamento. Purtroppo, la avviso, certi dolori sono insopportabili.”
“Posso farle due domande dottore?”
“Certo, mi dica pure”
“Cosa faceva Ilde, prima di diventare la nostra personal trainer? Intendo, prima del Regime”
Clemente sorrise, amaro. “All’epoca, nella Francia degli umani, Ilde, o meglio, Céline, dato che così si chiamava, era modella e insegnante di pilates. Dicono fosse di una bellezza sconvolgente, prima del parto.”
“Quale parto?”
Maya ascoltò la breve storia di Céline, oggi Ilde. Adesso, se era possibile, la detestava ancora di più. Idiota. Mentre il Permafrost si sgelava emanando metano, carbonio e disastrose malattie, gente come Ilde aveva pensato che la soluzione ai problemi del pianeta consisteva nel farsi sventrare da un presunto animale totemico. Neppure Maya amava il genere umano, e proprio per questo, disprezzava ancora di più quei fanatici che volevano sostituirsi alla Natura. Dopo qualche secondo di silenzio, chiese
“Perché Ilde? Intendo, il nome…”
Clemente sospirò
“Come probabilmente sa, molti del Regime hanno preso un nome diverso da prima. Prima del Giudizio, dico. Céline scelse Ilde ispirandosi ad una monaca dell’anno mille che scrisse i primi trattati sugli animali, oltre che…”
Maya scoppiò in una risata “Ildegarda di Bingen!”
“La diverte?” Chiese Clemente. Questo fare malandrino della paziente avrebbe dovuto irretirlo, invece, finalmente, dopo parecchio tempo, quasi rise anche lui.
Anzitutto, era sinceramente colta. Non come quasi tutti i farlocchi del Ministero che si erano improvvisati intellettuali in tarda età, e che spesso lo imbarazzavano alle cene con i loro discorsi di un’ovvietà paurosa. E poi sembrava non le importasse nulla dell’autorità. Quasi incredibile fosse sopravvissuta al Regime. Forse perché in effetti non era né provocatoria né impertinente.
“Mi dispiace, era una risata isterica, me ne rendo conto. Ildegarda di Bingen fu una persona straordinaria.”
Sottintendendo che Ilde di Coronide al contrario era un essere disgustoso.
“Cos’altro voleva chiedermi?” Disse Clemente per evitarle altre pericolose affermazioni.
Maya, appoggiò le braccia sulle lenzuola e cercò di mettersi il più dritta possibile con la schiena. Il dolore al ventre era palese, il rinoceronte prendeva forma.
“Lei, dottore, sa giocare a scacchi?”
Fu una scopata violenta. Appagante. Per un attimo tutto si era sciolto nell’aria. Il suo lavoro, le facce, l’odore dei farmaci che sapeva veleno. Era venuto con la bocca aperta, come un adolescente. Guardò Miguel dormirgli accanto. Puzzava di alcol. Gli risuonò in testa una vecchia frase “più ci si estasia insieme, e meno s’è d’accordo”. Vero. Più non si capivano, più il sesso ne giovava. Si usavano, in quei momenti di intimità, come attrezzi da palestra o come droghe sociali, da consumare assieme. Con ardore e poca profondità.
Probabilmente Miguel, preso com’era dalla sua carriera in ascesa, non se ne rendeva conto, anzi, senza dubbio trovava perfetto il loro rapporto. Poco impegno del resto. A colazione lui, Clemente, era intontito, per non dire depresso, di fronte alla prospettiva di una nuova giornata e scambiavano sì e no due parole. Poi, si vedevano a cena, sempre più raramente. Miguel era spesso fuori con qualcuno del Ministero. Serate da cui tornava pieno di sé e di alcol. Cominciava ad ingrassare, oltretutto. Il benessere lo rammolliva. Questa presunta sicurezza lo rendeva tuttavia estroso tra le lenzuola e a Clemente, non dispiaceva. Almeno un lato positivo di tanta demenza c’era. Bastava? Si alzò. Il russare di Miguel lo innervosiva. Anche Ptolomeo ronfava ai piedi del loro letto. Andò in salotto e accese la tv. Il solito notiziario animale.
“Un’altra disgrazia si è abbattuta questa volta su una trentina di ippopotami trovati morti nell’acqua creduta sicura delle riserve francesi. Si sospetta un ennesimo attacco del subdolo virus dell’antrace- Ancora paura per la piccola otaria orsina antartica non del tutto guarita da una grave infezione alle fauci, il veterinario degli animali del ghiaccio tuttavia ci rassicura, c’è speranza- Sono arrivati oggi dal parco della Maiella in Italia quattro cervi reali che verranno subito integrati nella nostra riserva dedicata agli animali boschivi, il corteo formato dai volontari delle colonie ha accolto i nuovi venuti con festoni e canzoni di benvenuto.”
Spense. Si immaginò le facce smunte dei “volontari” cantare al corteo di benvenuto. Probabilmente avrebbero volentieri sbranato vivi i cervi seduta stante. Era praticamente certo che aver forzato tutta quella gente a lavorare nelle colonie stesse creando dei mostri. Un giorno, e non molto lontano, si sarebbero ribellati. O forse no. Troppo indeboliti. La solita storia, perché centinaia di schiavi non si ribellano contro poche guardie? In fondo erano loro ad avere il controllo reale delle riserve. Molti erano anche architetti, scienziati, avvocati costretti a lavorare in condizioni disumane, appunto. Poco cibo, un veganesimo imposto e forzato e sonno ridotto. Queste erano le vere armi dei regimi verso i sottomessi. Trovava la Storia tremendamente ripetitiva. Inoltre, come al solito, COME SEMPRE, l’apocalisse non arrivava. Ogni regime da secoli la prometteva, ogni religione. Prendono il potere così, pensò, sfruttando qualche piccolo cataclisma per dire “è l’ora”… e poi l’umanità, dopo un momento di spavento, rifiorisce. Gli dispiaceva, comunque, per i trenta ippopotami. La morte per antrace non è mai una bella cosa. Già prima del Regime si erano sviluppate diverse epidemie in luoghi distanti tra loro. In Siberia, una morìa di renne e umani causate dai cadaveri infetti di secoli prima emersi dai ghiacci. In Africa, la siccità aveva fatto esplodere il virus sepolto dalle acque uccidendo centinaia di coccodrilli. E tutti a gridare alla fine del mondo. Magari. Si augurava una bella pestilenza, come quella descritta da Lucrezio. Già, le letture di Maya l’avevano riportato indietro agli anni degli studi. Il De Rerum Natura chiudeva con la peste di Atene. Un disastro epocale dove “tutte le barriere della vita vacillavano e la medicina balbettava in muto sgomento”. Anche lui, in modo diverso, era un medico che balbettava ogni giorno in muto sgomento. Che fare poi, del rinoceronte in crescita? Seguendo le teorie di Ilde, avrebbero dovuto farlo sviluppare fino a che il corpo della paziente non lo reggeva più, a quel punto ucciderla, e trasferirlo in incubatore. Tra l’altro, i cuccioli di rinoceronte erano bruttissimi. Avrebbe detto ad Ilde che se ne sarebbe occupato personalmente. Quella ragazza soffriva già abbastanza, doveva evitarle perlomeno le torture psicologiche della fanatica. Inoltre, sì, sapeva giocare a scacchi. L’idea di fare una nuova partita, dopo tanto tempo, gli diede il coraggio di alzarsi il giorno dopo e, a dire il vero, prese il taxi quasi contento.
Il buon umore si dileguò in un baleno, non appena vide il volto di Maya gonfio, nel sonno. Ilde si aggirava per la stanza con i suoi assistenti, fiera di aver iniziato la cura della nuova paziente. Clemente ringhiò. “Le avevo detto di aspettare! Ha già iniziato a somministrarle che cosa? Perché tre flebo in un unico braccio, è pazza?”
“Ho pensato, dottore, di facilitarla, lei ha così tanto lavoro… tre flebo non sono nulla, la ragazza è così magra, ha bisogno di prendere peso velocemente per sostenere il piccolo.”
La fanatica si improvvisava medico. Decideva addirittura le dosi. L’impulso di ucciderla cresceva. Eppure, non era forse lui il capo di tutto questo orrore?
Ilde continuò “Dottore, inoltre credo non sia poi così necessario cominciare subito con gli antidolorifici e l’anestetico, sono molto costosi. Finché il cuore le regge bene, potrà sopportare i dolori…”
“Cosa sta dicendo Ilde? Vuole fare come Clauberg? Esperimenti folli senza anestesie, aspettando che la cavia muoia da un minuto all’altro di dolore…”
“Clauberg, Clauberg” ripeté Ilde sardonica “In fondo, dobbiamo a lui i primi esperimenti di impianti di feti animali nel ventre di donne. Certo, Auschwitz non era Coronide, qui la situazione è ben più agiata per le pazienti. E badi! Pazienti, non cavie. Le nostre ragazze contribuiscono alla ripopolazione dei mammiferi. Uno scopo nobile. Io ne sono la prova vivente.”
Clemente tornò in sé. Il terreno era troppo minato. Se avesse preso a cuore in modo evidente il caso dell’umano e non dell’animale in gestazione, Ilde, l’infida, avrebbe di certo fatto rapporto. L’avrebbero forse spostato. E fuori Parigi esistevano cliniche peggiori di Coronide. Lì, si eseguivano esperimenti senza alcuna pietà, dove l’anestesia era un lontano miraggio. Il Ministero riteneva che avendo gli uomini usato cavie animali per centinaia d’anni ora, gli stessi uomini, dovessero rimediare coi propri corpi. Per un attimo pensò che Ilde avesse ragione. In fondo, a Maya non stava andando così male.
“Solo per questa settimana.” disse lui sommessamente “poi, valuteremo se cominciare a somministrare degli antidolorifici leggeri, a basso costo.”
Ilde fece per uscire, seguita dai suoi assistenti
“Ma…” la fermò Clemente “d’ora in poi mi occuperò personalmente della paziente”
L’ordine era poco convincente, ma era un ordine. Ilde annuì quasi ridacchiando e uscì. Clemente si fece schifo, in tutto. La sua voce, le parole pronunciate quasi in falsetto, in piena isteria gay, lo nausearono. “Antidolorifici leggeri, a basso costo…” ripeté come per frustarsi. Fosse almeno stato un pazzo, sinceramente interessato agli esperimenti scientifici! Avrebbe potuto iniettarsi ogni giorno della cocaina in vena e accanirsi sulle ragazze come carne sulla quale visualizzare il futuro della medicina animale. Sarebbe stato un autentico, volenteroso carnefice. Si sarebbe detto, nel delirio della scoperta, che una morte non era nulla, e sotto un’altra! Lì, avrebbero accolto un simile fanatismo omicida con entusiasmo. No. Quel che forse era peggio di tutto, è che non gli importava proprio nulla di riuscire a far crescere un rinoceronte nella pancia di una donna. Oltre a trovarlo abominevole, davvero, non gli interessava. Se riusciva nel suo lavoro, lo doveva solamente alla sua naturale capacità di sottomissione. Qualcuno lo aveva messo lì e lui, come una bavosa conchiglia si attaccava allo scoglio. Ecco cos’era dunque, una bavosa conchiglia dal guscio anonimo, tanto molle dentro da farsi comandare da un’infermiera psicolabile come Ilde. Che per giunta odiava.
Maya sussultò nel sonno. Almeno un sonnifero quella stronza gliel’aveva dato. Le vene iniziavano a gonfiarsi e presto, le braccia avrebbero assorbito il liquido.
Si scoprì ulteriormente triste pensando che la partita a scacchi era rimandata. Un piede dopo l’altro, in tutto silenzio, uscì, schiacciato dal suo stesso egoismo vigliacco.
Ilde mantenne i patti e si dedicò anima e corpo agli altri nuovi arrivi.
Talvolta si sentiva mamma anatra, portandole a nuotare in piscina. Aveva per loro la pietà di una madre cattiva per i suoi bambini; le incitava ad entrare nell’acqua, coi loro ventri pieni e i corpi che preannunciavano deformità. A modo suo, le amava. Teneva loro lunghi sermoni quotidiani sull’importanza del sacrificio totale verso un mondo migliore, un pianeta dove l’uomo non sarebbe stato che un timido e riservato mammifero in esigue quantità. Più passavano i giorni, più le ragazze apparivano spente. Naturalmente anche per effetto dei farmaci, oltre che dell’immensa fatica di gestazione. Maya si aggrappava ai classici. Rileggere integralmente il De Rerum Natura le dava più sollievo di quei maledetti narcotici di bassa lega. Intenzionalmente non aveva stretto nessuna amicizia con le altre. Giocava a scacchi con Clemente, che batteva con regolarità. Lui era buono con lei, eppure, le stava scavando la fossa.
Naturalmente giocavano di nascosto, a mente, come i veri scacchisti. Ad ogni visita si scambiavano più mosse, a volte arrivavano ad un’intera partita in una sola sessione di “cura”. Maya aveva già preso diciotto chili. Giocare a scacchi col suo aguzzino la aiutava a non impazzire e paradossalmente, ad avere fiducia in lui. C’era una certa dolcezza in quelle cifre scambiate a bassa voce. Quando lei gli dava scacco matto lui sorrideva, compiaciuto. Poi, le infilava il solito ago e lei partiva per mondi sotterranei fatti di sonno nero. Era solamente al secondo mese di gestazione e le sembrava di scoppiare. Il giorno in cui iniziò la terapia di allargamento dell’utero decise che era ora di sistemare una faccenda pratica.
“Dottore, posso chiederle un favore? So che morirò. Non mi guardi così, non è certo una novità. Pazienza. Qualcuno però dovrà avvisare mia sorella, vorrei lasciarle la casa e i miei risparmi, per quello che valgono. Si, so che posso ricevere visite ma non voglio vederla, ed è questo il favore che le chiedo. Vada all’acquario dove lavora, ci parli lei. Vedrà, non sarà difficile. Alicia è una persona sbrigativa.” Clemente annuì, grato di lavarsi l’anima con una buona azione. Quale medico di quei tempi infatti, si sarebbe preso una tal briga? Sarebbe stata la dimostrazione che lui era diverso, libero di agire. Un luminoso ingranaggio di un cupo sistema del quale non era succube. Oh sì, lui era un buono. “Ci andrò il prima possibile… anche domattina. Non ho visite importanti e posso di certo chiedere un permesso…” Maya lo interruppe. “Se vuole può andarci anche di sera. L’acquario Palinuro è sempre aperto e mia sorella vive lì notte e giorno. Come lei sa, il Ministero assegna vitto e alloggio purché si resti sul posto. Alicia esce solamente se ha il giorno libero, e non accade spesso.”
No, non lo sapeva. A dire il vero, si teneva volontariamente all’oscuro dei brutali metodi del Regime. Come un tempo, prima del Giudizio, evitava di informarsi troppo sulle disastrose condizioni del pianeta e degli animali, allo stesso modo oggi si teneva alla larga dall’indagare cosa combinavano veramente i suoi capi. Era già abbastanza angosciato.
“In tal caso, andrò questa sera stessa”.
S1:E4 PALINURO
Si fece dare le coordinate; Palinuro era l’acquario più grande di Parigi. Non c’era mai stato e sarebbe stata una scusa perfetta per evitare la festa a cui doveva andare con Miguel che in quei giorni era su di giri. Dopo essere stato nominato direttore a vita della Philarmonie di Parigi non faceva che stappare bottiglie di champagne con chiunque per festeggiare. Meglio intristirsi a Palinuro. Nome infelice, che ricordava il nocchiero di Enea, caduto in mare di notte, tradito dal dio Sonno, mentre conduceva la flotta verso l’Italia. Era stato Nettuno a chiederlo in sacrificio a Venere, in cambio dell’incolumità dell’equipaggio. “Una sola vittima per la salvezza di molti” aveva detto il dio del mare alla bella Afrodite. Così il povero Palinuro morì senza sepoltura, e non c’era fine peggiore, per un greco. Al Regime piaceva nominare gli edifici con nomi tratti dalla mitologia antica, come Coronide, del resto. Sempre nomi un po’ sfortunati, pensò uscendo dalla Clinica. Tanto per alimentare il senso del sacrificio di chi ci lavora dentro, anche se era certo che quasi nessuno andasse a verificare l’origine dei nomi. Come un tempo qualcuno poteva abitare in via Giosuè Carducci per tutta la vita avendo solo una vaga idea di chi fosse quel tale. E forse era meglio così.
Era vestito come un palombaro. Cappotto pesante, scarponi da neve, sciarpa termica. In quei giorni dominava su tutta Europa un vento venuto dalla Siberia; il riscaldamento globale, esploso al massimo livello, aveva come risultato il raffreddamento in continua espansione di alcune zone, in particolare, il nord europa. Più i ghiacci si scioglievano, più i venti infuriavano su terre dal clima in precedenza mite. Purtroppo doveva prendere l’odiato taxi. Arrivare fuori Parigi coi mezzi pubblici era pressoché impossibile, oltre che rischioso. Era certo che avessero tolto il riscaldamento nei pochi edifici umani, per pompare al massimo il calore nelle zone abitate dagli animali. Lo facevano spesso, negli ultimi tempi, tanto che molta gente si era ridotta a vivere come barboni in prossimità delle calotte riscaldate per i mammiferi. Un’umanità abbruttita e rabbiosa. Sapeva che il Ministero ne stava arrestando a centinaia per spedirli nelle colonie o peggio, nei laboratori. In ogni caso vicino all’acquario viveva sicuramente qualche piccola folla di senza tetto dal quale era meglio tenersi distanti. Inoltre la periferia di Parigi era il regno dei leopardi. Singolarmente, già prima del Giudizio si era notato che alcuni leopardi in metropoli come come Bombay prediligevano le zone limitrofe delle città ai propri ambienti naturali. Come le iene, i leopardi si nutrivano inizialmente degli avanzi lasciati dagli umani ed ora, si sarebbe potuto ben dire il contrario. Coccolati e incoraggiati, leopardi e iene giravano indisturbati anche fuori dalle loro aree protette, nonostante il freddo.
Il taxista guidò silenzioso fino all’ingresso di Palinuro.
L’edificio era imponente, lugubre. Sapeva che gran parte delle enormi vasche erano in ogni caso nei sotterranei. Entrò. Il responsabile dell’ingresso, vedendo il suo documento, trasalì. Il solito effetto che spalancava ogni porta. Clemente che lavora a, figlio di, coniugato a… a modo suo era una star del Regime. L’omino si affrettò a dirgli che la tale Alicia lavorava nel reparto Abissi Profondi. Settore meduse e sifonofori.
“L’accompagno?” chiese scodinzolando.
“Grazie, vado da me.”
Una passeggiata solitaria negli abissi gli avrebbe giovato.
Nonostante la visibilità fosse straordinaria, era evidente che le enormi vasche non erano state disposte per turisti. Quell’epoca era finita, aveva dichiarato il Regime. Clemente si mosse per i vari settori con l’impressione di essere schiacciato da oceani d’acqua; poteva osservare pesci d’ogni sorta dagli oblò che si aprivano nelle sconfinate pareti azzurre. Tuttavia, erano creature distanti, perse nel loro grande mare, seppure ricreato. Nessuno squalo si curò di lui, nessuna tartaruga gli nuotò vicino; i soli ad interessarsi alla sua presenza furono dei serpenti marini che si mossero sinistri fino al vetro. Poi sparirono. Di umani, neppure l’ombra. Arrivò dopo poco al reparto Abissi Profondi. Lì l’oscurità cambiava la percezione. Vasche d’acqua buia si presentarono davanti a lui, colme di esseri dalle forme sconosciute. Solitarie e silenziose, ignote creature fluttuavano nel nero. Conosceva poco il mondo marino, tanto meno quello degli abissi profondi. Con inquietudine mista a meraviglia si soffermò a lungo davanti al calamaro vampiro. Rosso e luminoso, pareva guardarlo con l’enorme naso.
Trovò delle somiglianze con se stesso. Quella che doveva essere una creatura minacciosa faceva in verità piuttosto ridere.
“Alicia sta arrivando.”
Un uomo biondo e basso lo fissava nel buio. Si affrettò a presentarsi
“Sono il caporeparto, esperto in bioluminescienza di meduse e sifonofori. Mi hanno avvisato della sua presenza, è un onore averla con noi.”
“Piacere mio” disse Clemente a bassa voce. “Straordinario questo reparto”
“La ringrazio. Il meglio deve ancora venire, prego mi segua. Ci addentriamo ora, attento ai piedi la prego, dicevo, stiamo entrando nel mio settore. Può notare le vasche aperte sul soffitto, dopo se vuole possiamo salire e osservare dall’alto. Sono aperte perché le meduse necessitano di una quotidiana pulizia totale dell’acqua, in questo modo riusciamo a fare più velocemente. Eccoci, magnifico, non trova?”
C’era ancora meno luce. Lunghe, lunghissime creature luminose fluttuavano davanti a loro nell’acqua; era così buio che a malapena si intravedevano i confini del vetro. “Questi, come lei saprà, sono i sifonofori, fratelli delle meduse. Personalmente li adoro. Di là invece, ah, ma ecco Alicia. Si avvicinò. Una ragazza bionda, dall’aria stupida e cattiva. Inquieta, chiese il motivo della visita. Il caporeparto la fissò severo, trovandola evidentemente indiscreta.
“Bene, vi lascio, ci vedremo più tardi dottore. Mi scusi ma devo finire di analizzare l’apaequorina, una proteina molto importante della medusa, qualcuno prima del Giudizio aveva vinto il Nobel per averne studiato alcune proprietà che legate al calcio… ma non voglio annoiarvi. Alicia, illustra le meduse al nostro dottore. Oramai, visto che le pulisci tutti i giorni, dovresti conoscerle piuttosto bene.”
Sparì nel buio. Alicia a fatica trattenne uno sguardo rabbioso nei confronti del suo capo.
“Mi manda sua sorella, Maya. Sono il dottore che sta seguendo la sua gravidanza.”
“Ah già, disse lei intristita, alle volte dimentico che mia sorella, a differenza di me, se la passa piuttosto bene. Incinta di un grande animale mi pare, no? Sono felice per lei.” Falsa. Falsa e superficiale. Proprio il genere di donne che non poteva sopportare. Ora capiva perché Maya non aveva voluto vederla. Decise di prendere tempo “Mi mostri le meduse la prego, le spiegherò strada facendo.” Di mala voglia Alicia lo condusse tra le vasche. Clemente per un attimo dimenticò la sgradita compagnia e si immerse negli abissi. Le meduse, di svariate forme e grandezze, lo affascinavano. La loro luminescenza poi, era straordinaria. Si muovevano con eleganza, a ritmo. Esattamente come stessero danzando i notturni di Chopin. Nella sua testa partì la musica: primo notturno in mi bemolle maggiore. Alicia parlava, tentava in modo noioso e soporifero di illustrare le qualità delle meduse. Clemente la seguiva come un sonnambulo tra le vasche, fissando ammaliato i tentacoli luminosi di centinaia di creature. La musica proseguiva dentro di lui sempre più alta. Copriva ora interamente la stridula voce di Alicia. Ne poteva però sentire l’insofferenza dai movimenti scattosi del corpo. Poi vide delle scale, che portavano alle imboccature delle vasche.
“Lì si possono vedere le meduse dall’alto”. Disse Alicia.
Clemente chiese di salire. Era curioso di vedere le vasche da un altro punto di vista. Una volta lassù, le prestò attenzione anche se la musica nel suo cervello continuava a scorrere assieme alle affascinati movenze delle meduse.
“Quella è la medusa coronata dal colore rosso vivo, poi abbiamo la grande campana fluttuante, e queste immediatamente qui sotto, disse indicando una fitta schiera dai lunghi tentacoli trasparenti, sono le meduse vespa, assolutamente mortali anche per l’uomo, assai diffuse in Australia dove ogni anno fanno qualche morto che nuotando, malauguratamente ne sfiora i tentacoli. Una fine dolorosissima, si muore tra spasmi, paralisi respiratoria e arresto cardiaco. Quella più in là invece, sola nella vasca, viene chiamata leone di mare per la sua grandezza…”
Diceva tutto ciò come la filastrocca imparata a scuola per far contento il professore. Clemente la interruppe
“Mi dica, di cosa si occupa nello specifico in questo reparto?”
“Faccio le pulizie delle vasche.”
Una smorfia di profondo disgusto correva sul volto di Alicia.
Si accorse che era leggermente truccata, attitudine piuttosto rara. Forse aveva una vita propria, un fidanzato, magari lì, nell’acquario. O forse era solo vanitosa.
“Dottore, non so cosa deve dirmi riguardo a mia sorella ma intanto, visto che siamo soli, posso chiederle una cosa?”
“Purché non rompa la privacy della mia paziente”
“No, no mia sorella non c’entra nulla, chi se ne importa, lei sta benissimo. Volevo parlarle di me, vede, non riesco a concepire animali di grossa taglia, solo gatti, conigli e topi.”
La musica nella testa di Clemente stava ripartendo a tutto volume. Sempre Chopin, notturno in fa diesis minore.
“Forse lei può aiutarmi, vorrei restare incinta di qualcosa di grande, e venire anch’io nelle vostre cliniche, ho sentito dire che sono meravigliose, ci si fa il bagno caldo…”
Non la sentiva più.
Vedeva solo le labbra truccate muoversi avide come un grosso pesce.
Fu un attimo.
La spinse giù, tra le meduse vespa.
Vide il suo corpo magro contorcersi per qualche minuto, poi accasciarsi sul fondo. Non le aveva nemmeno detto della casa e dei risparmi di Maya.
Si scoprì gelido. Aveva ucciso così, senza starci troppo a pensare. Il movente poi? Infastidito dalla stupidità? Forse. Bastava per far fuori una persona? Secondo le leggi del Regime, sì.
Restò a guardare le meduse vespa a lungo. Si erano oramai dimenticate del corpo di Alicia che giaceva sul fondo. Una serie di granchi si stava accanendo sul cadavere. Intontito, non riusciva a muoversi dal luogo del delitto.
“Quei granchi faranno un bel festino per almeno due settimane”
Clemente sussultò. Il caporeparto accanto a lui lo fissava con un ghigno.
“ E’ caduta” disse lui in falsetto. Solo in quel momento si accorse di essere completamente coperto di sudore.
“Non si preoccupi dottore” disse laconico il caporeparto porgendogli un fazzoletto “Alicia non era un buon soggetto, avevo in mente di licenziarla da mesi, ma poi sa, è sempre difficile. Direi che mi ha fatto un favore. Non si dia pena, è solo una ragazza senza nessuna qualifica. Vuole vedere gli altri reparti? Scendiamo, quassù fa troppo caldo.”
Ad ogni scalino si sentiva più leggero. Dopo pochi minuti, smise di sudare. Che fosse stato davvero il caldo? Per ora, non provava quasi nessuna emozione. Certo, come medico era abituato alle morti ma addirittura mettersi a spingere la gente giù per gli abissi… uscirono dal reparto meduse e sifonofori.
“Venga dottore, oggi è un giorno felice. Ieri notte è nata Marianne, un cucciolo di lamantino. Ed è già il secondo che in pochi mesi ci dona la mamma Zoe. Pensi, lo scorso venti settembre ha dato alla luce Tino, un maschietto, e ieri, oh che nottata, tutto l’acquario era in giubilo. Marianne pensa ventiquattro chili ed è lunga centotredici centimetri.”
“Straordinario” disse Clemente “l’allattamento procede bene?”
“Oh benissimo, dopo poche ore, mamma e piccola hanno trovato un ottimo equilibrio. Sono magnifiche sa, perché non viene a vederle, siamo vicini”
Non aveva scelta. Saltare l’evento avrebbe significato disinteresse e dopo aver appena scaraventato in pasto ai granchi un’impiegata dell’acquario era meglio rigare dritto.
In pochi minuti di blu, si ritrovarono faccia a faccia con la sacra famiglia lamantina.
“Guardi, guardi come l’abbraccia” sussurrò rapito il caporeparto.
Al solito, i fedeli al Regime configuravano la realtà a loro piacimento. I lamantini, specie di foche, hanno le mammelle situate all’altezza ascellare, così, allattando, paiono abbracciare il piccolo alla maniera degli umani.
Clemente simulò un tenero entusiasmo, strinse calorosamente la mano al caporeparto meduse e sifonofori e si avviò verso l’uscita.
Era singolarmente di buon umore. Sollevato. Sentiva addirittura una certa euforia latente crescergli in petto. A stento non scoppiò a ridere salendo in taxi. Ma sì, al diavolo i sensi di colpa! Sempre a sentirsi in difetto! Aveva fatto bene, punto. Quella stronza aveva addirittura voglia di restare incinta di qualche animale mostruoso e diventare un ulteriore problema per gente come lui. Stava bene in pasto ai granchi. In un moto d’entusiasmo ordinò al taxista di condurlo alla festa dove si trovava Miguel. Dopotutto, pensò, si meritava una serata di svago.
Francesca Sarah Toich è un’artista che vive a Parigi e lavora principalmente in Francia, Italia e America. Specializzata in Commedia dell’Arte e letteratura italiana è stata premiata come migliore giovane interprete della Divina Commedia, vincendo per due volte il Lauro Dantesco a Ravenna. Insegna e recita in italiano, inglese e francese in numerose compagnie di teatro e ricerca, ed ha portato le sue performance a New York, Mosca e Tokyo. Da sempre collima la scrittura con le sue performance e messe in scena teatrali; ha vinto il primo premio nel concorso internazionale di scrittura per lo spettacolo “Premio Goldoni Opera Prima” con la tragedia intitolata “Diotallevi” e ha pubblicato due romanzi fantasy per ragazzi. Alle Bestie! e’ il suo primo romanzo di Climate Fiction.
Immagine di copertina: Illustrazione a cura di Giovanni Berton.