ALLE BESTIE, cap. XI e XII – Francesca Sarah Toich

10 bocche e mostri

Alle Bestie è un romanzo di climate fiction che indaga una diversa forma di gravidanza.

La narrazione si svolge in un futuro prossimo in Francia, dove si è instaurato un regime totalitario vegano e ambientalista che impone ad alcune donne di venire inseminate artificialmente di vari tipi di animali in via estinzione.  La protagonista, Maya, è incinta di un rinoceronte bianco e verrà presa in gestione da uno dei medici del Regime, Clemente che la sottoporrà a diversi interventi per poterla infine trasformare in un animale in grado di partorire il feto concepito.  Il romanzo si svolge in una Parigi futuristica, dove ancora una volta si assiste alla banalità del male insita negli esseri umani, in un’alternanza di oppressi ed oppressori, tutti però accomunati da un unico comun denominatore: l’eliminazione di una fetta della società definita impura e la riproposizione di meccanismi di soppressione delle “diversità” in favore di un ideale creato da una ristretta cerchia di fanatici.

Alle Bestie indaga l’ecologia, i cambiamenti climatici e il vegetarianesimo da un altro punto di vista: quello di un’umanità che rifiuta se stessa in favore della Natura e non ha paura di usare scienza e violenza come armi di autoestinzione.

 

CAPITOLO 11

 

Si svegliò con il faccione di Ilde a pochi centimetri dal suo.

Trasalì.

“Dottore, venga, si è svegliata, sia benedetta la Terra!”

Maya, lottando con un’emicrania lancinante, si tirò su, mettendosi sui gomiti. Dov’era? Si trovava in una stanza bianca, asettica. Erano tornati a Coronide? Il letto era morbido e l’aria sapeva di sterilizzante. Vide Clemente avvicinarsi.

“Ci ha fatto temere il peggio, Maya.”

Lei tentò di aprire la bocca ma non riuscì a parlare.

Le labbra erano talmente secche che si erano incollate tra loro.

“Fortunatamente tutto va bene. In questi due giorni l’abbiamo nutrita artificialmente e sono lieto di comunicarle che il piccolo di rinoceronte è in perfetta forma.”

Ilde dall’altra parte della stanza urlò: “Abbiamo appena effettuato un’ecografia, vuole vedere le foto?”

Maya con un colpo secco staccò le labbra. Dolore.

“Non adesso” rispose debole. Poi chiese dov’erano.

“Siamo alla centrale nucleare ITER, nel cuore delle colonie. Lei è svenuta due giorni fa nella riserva nepalese, se ne ricorda? L’abbiamo portata qui d’urgenza e monitorata per tutto il tempo. Come si sente?”

Il mal di testa cominciava a dipanarsi.

E così ce l’avevano fatta a portarla in quella dannata centrale nucleare.

“Quanto manca al mio discorso?” chiese lei debolmente.

“Tre giorni” rispose Clemente visibilmente sollevato. Dunque era in forze. Si ricordava del discorso e capiva dov’era. Ottimo. Per quarantotto ore era stato nel panico, si era dato dell’idiota. Portarla in carrozza fino alla montagna, per darle il colpo di grazia con la notizia sul falso yak. Stava per compromettere tutto.

“Crede riuscirà a farlo nonostante le sue condizioni?”

Maya lo fissò, feroce.

In quel momento bussarono alla porta.

Ilde grufolando andò ad aprire. Era di nuovo quel giovane che Maya aveva visto prima di svenire. Stava entrando in silenzio, accompagnato da un signore vestito di rosso e oro. Sembrava un monaco orientale.

“Di nuovo qui, eh!” disse Ilde visibilmente seccata, ma li fece passare.

Il giovane andò diretto verso il letto di Maya.

“Sono felice che tu stia bene.” Pausa, silenzio.

Anche il monaco la fissava con un sorriso ieratico.

Poi il giovane riprese a parlare: “Siamo venuti spesso in questi due giorni, aspettando questo momento. Ti sei svegliata. Sai, mi hai spaventato”.

I suoi occhi in quel momento lasciarono intendere la grossa paura che aveva preso vedendola collassare ai suoi piedi. Maya avrebbe voluto chiedergli scusa ma non lo fece. Continuava ad osservare quella coppia singolare, un ragazzo totalmente vestito di nero e un improbabile monaco. Cosa volevano da lei?

“Ora che stai meglio”, disse piano il giovane, “vieni a trovarci. Gaia vuole conoscerti. Ti aspetta.”

Il monaco nel frattempo le fissava il ventre. Nonostante il suo volto tondo e terso abituato alla calma e alla meditazione, Maya intuì che qualcosa lo turbava. Ilde nel frattempo si avvicinò fulminea, pestando un piede al monaco che deglutì un urlo di dolore con stoico contegno. Chiaramente il donnone non se ne accorse e sbottò: “Sì, sì, bene ma ora basta smancerie. La ragazza deve riposare, su, fuori!”

“Grazie della vostra visita”, si affrettò a dire Clemente, “Maya verrà a trovarvi al più presto.”

I due uscirono scortati dall’infermiera.

Quando Ilde rientrò, Clemente era furioso.

“Deve smetterla di maltrattare quel ragazzo. Ha visto che è sempre accompagnato da un monaco del Bhutan?”

“E quindi?”

Ilde lo guardava instupidita.

“Lasci perdere, non ha importanza. Ma d’ora in avanti sia gentile con i ragazzi del collettivo. Non ha notato che sono vestiti di nero? Sono tutti convertiti al catarismo. In poche parole, protetti dai massimi vertici del Regime. Inoltre il Bhutan…”

Maya cominciò a tossire forte ponendo fine al discorso del medico che si affrettò a soccorrerla, tirandola a sedere sul letto.

Quando l’attacco fu passato, Maya squadrò i suoi due aguzzini e annunciò: “Voglio visitare la centrale e voglio incontrare subito Gaia”. Non sapeva perché ma quel ragazzo le dava speranza. Era come lei e forse ce n’erano altri. Incontrare Gaia poi la portava ad uno stato di grazia. Giovanna d’Arco.

Ilde, simulando uno stato di calma, disse: “Qui si stanno perdendo di vista i ruoli ed è colpa sua, dottore. Da quando ha affidato il discorso da fare alla paziente, questa si sente una divinità. Dà ordini! Io qui, io là…”

Poi si girò verso di lei, maligna.

“In ogni caso le resta poco da vivere. Sarà in grado di alzarsi dal letto ancora per un paio di settimane. Tanto vale lasciarle fare quello che vuole. Io, per il momento, me ne vado.”

“Vada, vada” le rispose seccato Clemente e quando uscì, tirò un sospiro di sollievo.

Poi si rivolse a Maya: “Quei ragazzi sono molto importanti, a quanto pare. Vede, la delegazione dei monaci del Bhutan, gli attuali governatori del nuovo megastato che si va costituendo in Asia, pensano siano l’unico esempio occidentale di vero coraggio e attivismo. Abbiamo fatto bene ad accoglierli qui anni fa, dando loro asilo e sostegno. Stiamo vivendo giorni particolari, Maya. Tutto il sistema potrebbe saltare da un momento all’altro. Ma finché i monaci stanno calmi, abbiamo delle speranze nelle trattative. Però non voglio stancarla. Si riposi. Io devo andare a ricevere la delegazione americana che arriverà nella Centrale a minuti. Stasera, se vorrà, la porterò dai ragazzi del collettivo. Ora la prego di recuperare le forze”.

“Può passarmi i miei appunti? Sono dentro la valigia.”

Clemente, con aria rispettosa, frugò tra le sue cose fino a trovare un quaderno che le porse.

“Sa, c’è molta aspettativa per il suo discorso.”

Lei aprì il quaderno e senza guardare il medico chiese: “E per il suo esperimento? Tutti sanno tutto tranne me, immagino”.

“Faccia come le ho detto, si riposi” rispose lui codardamente.

E con la coda tra le gambe uscì, lasciandola sola.

Lei tuffò la testa negli appunti.

Al diavolo lui e l’esperimento.

Aveva voglia di ballare. Il fatto che dei giovani si interessassero a lei e soprattutto al suo discorso la metteva in uno stato di euforia: da anni infatti procedeva solitaria nei suoi studi. Il Regime non veniva nemmeno a controllare quante ore lavorava al giorno, se consegnava o meno i saggi a scadenza mensile. Naturalmente lei era sempre stata molto fedele al suo compito.

In questi nove anni di lavoro ufficiale per il Ministero aveva prodotto quattro libri: il suo primo lavoro era focalizzato sulle Georgiche di Virgilio, opera che il Consiglio culturale del Regime aveva particolarmente apprezzato ma che non aveva avuto grande diffusione.

Invece il suo libro sullo stoicismo, inaspettatamente, aveva riscosso un discreto successo e si potevano trovarne degli stralci addirittura nel sito ufficiale del Governo.

Stava invece ancora aspettando la conferma ufficiale dell’uscita on line della biografia di Talete, che lei considerava il suo capolavoro. Non essendoci più pubblicazioni cartacee né librerie, la fortuna di un testo era affidata alla rete ma nel caso della Francia tutte le informazioni venivano filtrate dal Regime. Probabilmente il testo era ancora nella casella mail di qualche pigro funzionario.

Nel frattempo aveva cominciato a lavorare ad un saggio sugli abissi del vuoto di Lucrezio ma poi era rimasta incinta e tutto si era bloccato. Peccato. Avrebbe voluto finire quel lavoro. Anche per se stessa, dato che il pubblico di lettori si riduceva di giorno in giorno.

Tuttavia il suo discorso sul vegetarianesimo in età classica la soddisfaceva quasi pienamente. C’era la disperazione di un requiem in quelle pagine. Senza dubbio sarebbe stato il suo ultimo scritto. Per ora contava trenta pagine ma avrebbe potuto aggiungere ancora qualche capitolo. Oltretutto non era contenta del finale: terminare con l’apologia di Caino era interessante ma forse si poteva concludere con una citazione più antica e poi non le andava di finire con la Bibbia. Inoltre avrebbe voluto andare più a fondo nell’analisi della dottrina catara.

In quel momento entrò un’infermiera.

 

Maya alzò lo sguardo e rimase sconcertata.

Aveva i tacchi. Era truccata. Vestita con un camice da infermiera ma blu e oro, chiaramente di un tessuto costoso. Incredibile. Erano anni che non vedeva tanta cura nell’abbigliamento. Il Regime infatti perlopiù se ne fregava. I catari vestivano totalmente di nero; al resto del mondo venivano distribuiti degli abiti confortevoli senza marca, stile o pretese. I funzionari del Regime indossavano delle divise blu eleganti ma tutti uguali. Perché quell’infermiera era così sofisticata? Chiaramente sotto quel trucco complesso c’era una faccia insipida. Eppure così acconciata era bella. Persino indossava del profumo.

Entrando la salutò appena.

La guardava con occhio vacuo, come se stesse pensando ad altro.

“Ha bisogno di qualcosa?” chiese infine.

“Vorrei uscire, fare due passi.”

L’infermiera la fissò, restando immobile vicino alla porta. Maya si chiese se quella ragazza si rendesse conto o meno del suo stato. Sapeva che era incinta di un rinoceronte? Perché non si avvicinava, non la palpava, non le misurava la pressione come tutte le dannate infermiere che aveva incontrato a Coronide? Questa stava lì, come se fosse in posa per una rivista di moda.

Poi finalmente disse: “L’accompagno allora”.

Nessun accenno ad aiutarla a scendere dal letto.

Meglio. Maya si arrangiò, e ne fu fiera. Quando mise a terra i due piedi e arrancò verso la porta, vide che l’infermiera stava sorridendo. Non a lei, ma alla porta. Un sorriso ebete e al contempo fotogenico, pensò Maya.

“Come si chiama?” le chiese, cercando di svegliarla da quello stato ipnotico.

Per tutta risposta l’infermiera la prese con delicatezza sotto braccio e aprendo la porta la condusse fuori senza dire niente. Sempre meglio di Ilde – si ritrovò a pensare Maya, piacevolmente confortata dalla leggerezza di quel tocco.

Una volta fuori dalla stanza, Maya restò a bocca aperta. Si trovavano al piano terra di un enorme edificio completamente in vetro, con le strutture architetturali a vista. I muri interni erano interamente ricoperti di edera, erba e altri rampicanti.

Il rumore di fontane e cascate risuonava nell’aria.

Maya non aveva mai visto una cosa simile: certo, anche Coronide aveva giardini e piscine ma era comunque strutturata secondo un modello classico.

Qui non c’erano muri a chiudere la visione e il verde sovrastava ogni cosa.

“Questo è magnifico!” esclamò ad alta voce.

L’infermiera, sempre tenendola leggermente per un braccio, disse con aria distaccata: “Passive design”.

Silenzio. Forse quella tizia era un robot, si disse Maya tra sé. Ricordava il passive design: uno stile architettonico che aveva tentato di svilupparsi nelle metropoli anni prima delle catastrofi naturali. Ma fin dai primi approcci era risultato troppo costoso e i dirigenti avevano ritenuto lo sforzo inutile ed eccessivamente estetico. Lì evidentemente il Regime non aveva badato a spese.

“Vuole uscire?” chiese il presunto androide, sistemandosi il foulard sul collo bianco e magro. “Oggi le calotte di vetro sono aperte. I pannelli solari su tutti i tetti si stanno ricaricando. È una bella giornata. Forse un po’ d’aria le farà bene.”

Accidenti, quattro frasi di fila e una domanda. Maya abbandonò l’idea del robot e giunse alla conclusione che semplicemente a quella strana infermiera lei non interessava. Era troppo brutta e grassa, senza denti, inguardabile. Inoltre sarebbe morta di lì a poco. Forse nelle riserve i sentimenti erano ancora meno presenti: gli umani si guardavano tra loro come dei pezzi di materia che si stava sgretolando a cui non bisognava interessarsi troppo.

Uscirono in silenzio.

E Maya restò a bocca aperta davanti a quella grande città verde. Nonostante la tecnologia agli ultimi livelli il metallo, il vetro presente in tutti gli edifici, le piante quasi si mangiavano gli edifici. Nessuna traccia di inquinamento, nessun mezzo di trasporto, cartello, segnale, nulla.

Era magnifico.

“Questa è la centrale nucleare?” chiese alla sua guida che si limitò ad annuire.

“Ma gli impianti, i reattori e…”

L’infermiera, guardando dritto davanti a sé, rispose: “Sottoterra. Per non rovinare il paesaggio”.

“Capisco.”

Era chiaro che la conversazione si era esaurita.

A Maya non restò che respirare forte, guardando in alto il cielo.

Esistevano ancora le belle giornate, dopo tutto.

 

Nonostante camminasse in preda alla frenesia e a mille angosce, Clemente non poteva che osservare rapito i progressi architettonici della centrale. Non ci metteva piede da qualche anno, ma era così cambiata! Quanto verde e quanta cura in ogni dettaglio. Gli edifici più brutti erano stati interamente ricoperti di rampicanti colorati, l’asfalto delle strade rimpiazzato da un terriccio che ricordava la soffice terra di Pompei ed Ercolano, nel sud Italia. Inoltre non c’erano molti umani ma quei pochi che circolavano erano talmente ben vestiti…

Alla centrale abitavano quasi solo scienziati e volontari del Regime. All’epoca della presa del potere molti studiosi e luminari di tutto il mondo si erano trasferiti in Francia. Il Regime aveva dato loro sostegno e mezzi per sviluppare i loro studi sull’ecologia e le energie alternative. In gran parte erano finiti a lavorare alla centrale, che non era solo una risorsa energetica già attiva ma un luogo segreto di innovazione e ricerca per nuove fonti pulite. Tutti i lavoratori, volontariamente e con convinzione, si erano fatti sterilizzare. Per dedicarsi al lavoro e togliersi definitivamente il concetto di famiglia e riproduzione dalla testa. Tuttavia, nonostante i giuramenti e le buone speranze di questi scienziati, l’ultima volta che era stato lì ricordava un’atmosfera piuttosto triste. Dottori scorbutici e violenti, infermiere maltrattate e degrado estetico.

Gli venne in mente un’orgia alla quale aveva partecipato nei tre giorni di studio che aveva passato lì cinque anni prima e gli si rivoltò lo stomaco. Raramente aveva visto tanta brutalità: i medici usavano come divertimento gli umani delle riserve. Quella notte ne avevano uccisi una decina. Lui non aveva partecipato attivamente ma il senso di colpa e orrore l’aveva seguito per mesi. Aveva sempre pensato che restare a Parigi fosse una buona scelta: almeno, essendo la capitale e vivendoci umani meritevoli, c’era ancora del metodo nella follia governativa.

Ma ora quasi quasi gli venne voglia di farsi trasferire lì. E chi non avrebbe voluto viverci?

Il sogno era diventato realtà. L’uomo poteva costruire una metropoli immersa nella natura.

Ma quale natura – si disse poi tra sé – …qui è tutto finto, una riproduzione di quello che nel mondo non c’è più. Un museo dell’estinzione.

Poco dopo fu davanti all’ufficio del direttore. Il nuovo direttore. Forse si dovevano a lui tutti questi cambiamenti. Ne sapeva poco. Dopo la spiacevolissima esperienza di anni prima si era volutamente tenuto alla larga dalle notizie sulla centrale. Quando i catari gli avevano intimato di fare lì il suo esperimento durante il Giorno del Ricordo del Giudizio, naturalmente aveva studiato a fondo i processi necessari per la riuscita ma si era attenuto il più possibile ai soli dettagli tecnici.

Aveva letto qualcosa sulle nuove direttive e distrattamente aveva dato un’occhiata alla biografia del nuovo capo. Weber Hohenzollern, rampollo di una nobile famiglia bavarese che aveva investito l’intero patrimonio nelle nuove tecnologie ed energie rinnovabili. Inizialmente la scelta era stata rischiosa ma ora detenevano un forte potere economico in tutta Europa ed erano i maggiori finanziatori esteri della centrale. Non c’era da stupirsi che il loro pupillo fosse stato messo a capo della direzione.

Chissà che rompicoglioni, pensò tra sé Clemente. E bussò.

“Prego venga, venga, Clemente, entri!” disse una voce eccessivamente squillante.

Entrò e lo vide. Era di spalle. Biondo, non troppo alto.

Poi si voltò e Clemente fu penetrato da due spilli blu. I suoi occhi. Non aveva mai visto nulla di così blu. Doveva avere al massimo quarant’anni e – notò – aveva delle orecchie molto grandi. Avanzò e gli strinse la mano. Anche le mani erano eccessivamente grandi per il suo corpo.

“Benvenuto dottore, benvenuto, benvenuto!”

L’ufficio era estremamente caotico ed elegante. Libri antichi, appunti, mappe, numeri scritti su pezzi di vetro… Non aveva nulla a che vedere con il resto della Centrale.

Era senza dubbio un luogo di studio silenzioso e profondo. Si sarebbe aspettato di trovare un ragazzotto ben vestito, sommerso da piante rare e mobili di design all’ultimo grido, intento a dare ordini a destra e a manca con due modernissimi telefoni, uno per orecchio. Invece Weber, accompagnato da una musica proveniente da un vecchio giradischi, senza dubbio Schubert, sembrava essere stato immerso fino ad un minuto prima in qualche calcolo complesso, a giudicare da tutte le carte e i libri sulla sua scrivania.

Clemente gettò un occhio ad alcuni disegni: erano di certo degli studi sul movimento del reattore a fusione, il gioiello della centrale.

Anni prima gli scienziati avevano calcolato che un reattore a fusione era l’energia del futuro per eccellenza, copiosa e pulita. Quella che si libera quando si riscaldano atomi di idrogeno (l’elemento più abbondante dell’universo) strappando gli elettroni dai nuclei e accelerando questi ultimi fino a costringerli a fondersi tra loro, liberando in campo molta più energia. Accade in continuazione nelle stelle e imparare a farlo in modo continuato sulla terra poteva voler dire aver risolto i problemi energetici del pianeta. Oltretutto non c’erano le scorie radioattive prodotte invece dalle ormai datate centrali a fissione, rifiutate dal Regime.

Ed era proprio per questo che aveva accettato di fare il suo esperimento lì: avrebbe messo Maya a tenere il suo discorso proprio sopra il reattore, facendone incanalare parte dell’energia su di lei.

I disegni di Weber erano fatti a mano e di una precisione impressionante. Notò che parte di essi includevano appunti relativi al suo esperimento.

Non si trovava, per fortuna, davanti ad un idiota.

“Si sieda per carità, non stia in piedi, sediamoci, venga. Sì, qui, vicino alla finestra.”

Si sedettero. Weber non stava fermo un momento coi piedi e lo fissava con un sorriso tutt’altro che rassicurante.

“Allora oggi pomeriggio grande incontro con gli americani! Saranno qui a minuti. Vuole?”

Gli porse un piccolo vassoio con delle strisce di polvere blu. Clemente esitò. Cocaina blu. ne aveva sentito parlare. Era un nuovo composto che non creava dipendenza né effetti collaterali. Almeno stando a quanto si diceva.

“Se non vuole, metto via.”

“Grazie, ne prendo un po’.”

Era diverso tempo che non assumeva della droga. A dire il vero, non era mai stato granché attratto né dall’alcool né da altre sostanze. Soffriva di stomaco. Ma quel Weber era contagioso. Lo ammise a se stesso: gli piaceva. Gli era piaciuto al primo sguardo e non aveva intenzione di sfigurare. Sniffò comunque una quantità molto limitata e Weber, senza insistere, ritirò il vassoio.

“Ho letto il riassunto del suo esperimento: notevole! Mi ha fatto passare più di qualche notte insonne.”

“Grazie”, rispose Clemente, “penso che potrebbe essere attuato solamente in questa centrale, così come la sta gestendo lei. Ho studiato le innovazioni che ha portato al reattore, proprio per questo l’ho scelto come luogo per l’esperimento.”

“Sì”, disse lui pensieroso, “la avviso però che abbiamo ancora dei piccoli problemi. Il campo magnetico è tuttora instabile, ogni tanto avvengono delle interruzioni e il plasma scappa verso le pareti del reattore.”

“Non credo sarà un vero problema. Basterà infatti un’energia minima e convogliata sulla paziente.” Clemente appoggiò le mani bianche sulle gambe accavallate. Sperava che quanto stava dicendo fosse vero. In realtà, pur avendo studiato come un pazzo, non era sicuro che i suoi calcoli fossero corretti.

Weber lo guardò dritto negli occhi: “Ha già cominciato a somministrarle delle micro quantità di energia nucleare?”

Clemente lo fissò perplesso.

Weber continuò: “Se non ho capito male, lei vorrebbe trasformare la paziente in rinoceronte durante la festa mentre pronuncerà il suo discorso”.

“Sì, è esatto. Trovandosi nel cuore del nuovo reattore nucleare a fusione, da quanto ho calcolato l’energia generata dall’idrogeno estratto dall’acqua di mare e dal litio dovrebbe essere sufficiente a innescare una mutazione genetica nella paziente partendo dal feto.”

“Sufficiente!” esclamò Weber alzandosi. “È più o meno l’energia che produce il sole ad ogni secondo.”

“Esatto!” esclamò Clemente ad alta voce. Il cuore cominciava a battergli forte. Maledetta polvere blu, fortuna che ne aveva presa poca.

“Se posso permettermi, dovrebbe darle una scarica o due prima dell’esperimento finale” disse velocemente Weber mettendogli una mano sulla spalla.

“Ma così si rischia di innescare la mutazione prima del momento” osservò Clemente dubbioso. Weber tornò a sedersi di fianco a lui.

“Solamente se le quantità sono elevate. Altrimenti l’unico effetto che potrà ottenere sarà benefico: le cellule della paziente e del feto cominceranno ad abituarsi a quel tipo di energia e al momento opportuno sapranno coglierla senza eccessivo shock. O meglio, lo shock ci sarà ma i tessuti della paziente la assorbiranno meglio e senza grandi impatti.”

“Quindi suggerisce di portarla al reattore già oggi stesso? Alla cerimonia mancano tre giorni.”

“Oggi temo non avremo tempo. Domattina con la scusa di fare delle prove. Non le diremo nulla naturalmente ma quando salirà sul palco che è già stato allestito e isolato in modo tale che le scariche di energia vadano solamente su di lei, faremo partire delle piccole scosse indirizzandole sul feto. In quantità modestissima. Che ne dice?”

“Devo pensarci” rispose Clemente.

Weber gli si avvicinò e posò entrambe le mani sulle sue spalle, poi cominciò a massaggiarlo. Clemente rimase di sasso. Da quanto tempo qualcuno non lo toccava!

Era come se la sua pelle bruciasse.

“Facciamo così”, continuò Weber con tono allegro, “stasera, dopo l’incontro con gli americani venga da me. Si parla meglio davanti ad una bottiglia di champagne.”

In quel momento bussarono alla porta e Weber fulmineo andò ad aprire.

 

Erano gli americani. Tre donne e un uomo. Entrarono e si presentarono coi loro modi chiassosi e pieni di insensata gaiezza. Solo l’uomo era piuttosto tetro, quasi funereo. Clemente lo riconobbe subito. Stuart Scott, uno scienziato dal dubbio curriculum che da decenni teneva conferenze sul cambiamento climatico. Era uno degli storici fondatori del movimento di protesta degli scienziati contro i governi. Onestamente era l’ultima persona che si aspettava mandassero in rappresentanza gli americani. Evidentemente anche da loro qualcosa stava cambiando.

Se le informazioni filtrate dal governo erano corrette, solamente nell’ultimo anno negli Stati Uniti erano bruciate un quarto delle foreste nazionali per arsura e paradossalmente tre importanti città erano state inghiottite dal mare. Davanti all’evidenza persino l’America capitolava. Le donne, due bionde di una certa età e una rossa più giovane, erano tutte ministre e responsabili di ambiente ed ecologia, in visita per valutare i metodi del governo francese.

Si presentarono con il solito eccessivo calore americano.

“Oh, lei è il direttore della centrale, oh, lei è lo scienziato che farà l’esperimento, ma è fantastico, impressionante, incredibile!”

Clemente era abituato al loro modo di fare: da adolescente sua madre l’aveva spedito in California per due anni in una strana scuola ecologista dove non aveva imparato molto ma si era ben adattato ai loro metodi.

Sapeva che la gentilezza iniziale non era che un metodo per estirpare informazioni il più velocemente possibile, mettendo la vittima a proprio agio.

Infatti, passati i convenevoli, cominciarono a bombardarlo di domande. Chi aveva scelto per il suo esperimento, di quanti mesi era gravida la ragazza, se pensava fosse giusto far subire una gravidanza così difficile, quali erano le tipiche difficoltà mediche delle donne inseminate artificialmente e molte altre questioni piuttosto invadenti.

Weber chiaramente infastidito dal chiasso che si stava formando nel suo studio, interruppe i convenevoli: “Bene, carissimi ospiti, che ne dite di fare due passi per la centrale? Il cielo oggi è stranamente benevolo e ci regala una giornata come non vedevamo da tempo. Venite, faremo un piccolo tour: vi farò vedere gli edifici più importanti e le strutture ancora in costruzione. Poi, non so se può interessarvi, ma non troppo lontano da qui, proprio nel luogo con la più bella vista sulle riserve, tra circa mezz’ora cominceranno le esecuzioni ad bestias. Tra i condannati ci sono anche i due figli del magnate francese della carne, rifugiati in California per molti anni, e che ora il vostro governo ci ha riconsegnato. In questo paese per loro la pena è la damnatio ad bestias, come per i loro predecessori. Noi solitamente non assistiamo, ma se può farvi piacere…”

Quel Weber era davvero un demonio. Naturalmente le bionde americane chiesero all’istante cosa fosse questo ad bestias. Quando capirono che si trattava di umani condannati ad essere divorati vivi dalle fiere e che lo stesso governo americano aveva spedito dei rifugiati politici a farsi sbranare dai leoni, per poco non scoppiò il putiferio.

Clemente fissava attonito la scena. Le donne non facevano che esclamare ad alta voce che tutto ciò era mostruoso.

Poi lo scienziato, Stuart Scott, intervenne con voce calma, rivolgendosi a Weber: “La ringrazio, direttore, per la sua onestà. Vedete? Questo governo è talmente radicale e fiero che non nasconde nulla. Non è ipocrita come noi che condanniamo a morte ogni giorno migliaia di specie e facciamo finta di non vederlo. Quanti bambini muoiono ogni minuto per confezionare i nostri vestiti, raccogliere il nostro cibo e le materie prime su cui noi avidi ci avventiamo? Quante migliaia di animali soffrono ancora, stipati nelle gabbie degli allevamenti intensivi che non riusciamo a chiudere. E le api? Ormai le abbiamo quasi sterminate”.

Il tetro scienziato fissò in silenzio le tre donne.

Poi continuò: “Io andrò a vedere queste esecuzioni. Voglio essere sveglio e cosciente, siamo qui per smetterla con le ipocrisie. Se degli umani hanno sbagliato, è giusto che paghino con la vita. Che senso ha stipare le prigioni o tenere in lussuosi esilii chi ha lucrato sulla sofferenza animale e invece condannare a morte tanti innocenti per l’ingordigia di pochi?”

“Oltretutto, se non ho capito male, questi condannati servono da nutrimento alle bestie, rispettando totalmente l’ecosistema” aggiunse una delle donne, che fino ad un momento prima aveva dato segni di svenimento. Le altre due annuirono.

“Amici”, interruppe Weber, “suggerisco di uscire. Decideremo strada facendo il da farsi.”

 

Una volta fuori gli americani vennero immediatamente conquistati dalla bellezza della centrale. Anche loro – confidavano – non si sarebbero mai aspettati tanto. Abituati alla bruttezza delle loro industrie tanta cura estetica aveva un effetto sconvolgente. Weber camminava ad un’andatura veloce; quasi faticavano a stargli dietro, affascinati dalla quantità di innovazioni tecnologiche che li circondava. Uno di loro chiese notizie della Lefson, loro connazionale, e del celebre maiale.

“Dovrebbero certamente arrivare per la commemorazione. Pigcasso ha accettato di esibirsi all’apertura della cerimonia. Un grandissimo onore per noi” disse Weber.

Stava scherzando. Era evidente solo per Clemente? Sì.

Gli americani si misero a cinguettare di gioia, quasi commossi. Era la prima visita ufficiale di ambasciatori degli States. Per anni l’America aveva guardato con enorme sospetto la dittatura che si era instaurata in Francia. Ciò nonostante negli ultimi tempi si erano molto interessati soprattutto alla modalità di gestione delle riserve. Nel mondo gran parte delle specie animali stava scomparendo e innumerevoli malattie epidemiche che si erano alternate negli ultimi anni piegavano un’umanità sempre più rabbiosa nei confronti dei governi ‘che non facevano nulla’ per risolvere i problemi legati al cambiamento climatico. Pensare che fino a poco tempo prima la definizione ‘cambiamento climatico’ non era neppure accettata dagli States.

“Sono esterrefatto dal vostro lavoro”, disse lo scienziato Scott quasi con le lacrime agli occhi, “per anni mi sono chiesto se fosse possibile concentrare tutte le energie nella salvaguardia del pianeta e non sugli interessi dell’uomo e voi siete la risposta.”

“Grazie” dissero involontariamente insieme Weber e Clemente.

“Venendo qui”, continuò la giovane donna rossa di capelli che fino ad ora era rimasta pressoché in silenzio, “né dall’aereo né durante il percorso sul vostro eco elicottero abbiamo visto molti centri abitati.  Gli uomini sono ritornati a vivere nelle foreste?”

“Una parte” disse Clemente con voce calma.

Eccoci alle questioni spinose. Dov’era finita tutta l’umanità francese?

“È stato semplice”, intervenne Weber rapido come un fulmine, “forse vi è noto che già prima dei grandi cambiamenti dovuti allo scioglimento del Permafrost la Francia aveva arrestato completamente la deforestazione. Avevamo già a disposizione una quantità di bosco importante, dove le persone potevano tornare a vivere.”

Le americane lo guardarono perplesse.

“Ma come vivono nelle foreste? Avete costruito delle comunità nascoste nella terra, magari sottoterra, alimentate da energia pulita?”

“Non ancora” rispose candidamente Weber.

“Ma allora come fanno a evitare di essere attaccati dalle bestie feroci? Avete designato una parte della polizia di stato alla difesa del cittadino? E con quale criterio le famiglie hanno deciso di installarsi nella selva tropicale anziché in quella nordica? Ci sono state delle selezioni?”

Stavolta fu Clemente a rispondere: “Certamente gran parte della polizia di stato si occupa della sicurezza nelle riserve. Quanto alla scelta dell’ambiente, abbiamo utilizzato dei metodi di assegnazione a seconda delle capacità e attitudini naturali degli uomini e delle donne”.

Le americane sorrisero e una di loro disse con voce stridula: “Io sarei certamente voluta andare a vivere nella riserva montana. Ho sentito dire che siete riusciti a far riprodurre in molti esemplari il rarissimo leopardo delle nevi. Chissà quanti uomini fortunati possono vederli oggi nel loro ambiente naturale”.

L’unico che non poneva domande era Scott. Lui sapeva.

Era logico, si leggeva dal suo volto tetro e cosciente. Sapeva. E approvava.

In quel momento sentirono un rantolare annaspante provenire da dietro le spalle. Il primo riflesso di Clemente fu la paura. Sicuramente un cinghiale o qualche altra bestia scappata dalle riserve li stava seguendo per attaccarli.

Si voltò di scatto e tirò un sospiro di sollievo: era Ilde. Ansimante e trafelata era spuntata da non si sa dove; chiaramente per arrivare lì aveva corso e adesso grondava di sudore.

Era orrenda. Sbavava e li guardava con quegli occhi folli e dalle orbite mezze esplose all’infuori.

“Dottore, ho una cosa importante da dirle.”

“È successo qualcosa a Maya?” quasi strillò Clemente.

Gli americani, diplomatici per natura, si misero a guardarsi attorno cercando di non immischiarsi in quello che sembrava un evento drammatico.

“No”, disse seccata Ilde, “o almeno non che io sappia, dato che da qualche ora la sua pupilla è stata assegnata ad un’infermiera del posto, una ragazza stupida e truccata.”

“Mia sorella” precisò Weber sorridendo ad entrambi. Poi aggiunse: “Vede, Clemente, ho pensato che qui alla centrale fosse meglio mettere la sua assistita nelle mani di qualcuno che conosca bene il posto, i macchinari, i percorsi. Mia sorella è un’ottima infermiera, soprattutto riservata”.

“Ha fatto bene, la ringrazio” disse Clemente, lanciando ad Ilde un’occhiata piena di odio.

“E che ne sapevo io che quella era sua sorella! Non mi ha detto nulla. All’inizio pensavo fosse muta, poi…”

“Basta così”, tagliò corto Clemente, “se non è per Maya, allora perché ci sta seguendo, cosa voleva dirmi?”

“So che state andando ad assistere i condannati che vengono dati in pasto alle bestie.”

“Sì, e quindi vuole venire anche lei?” rispose seccato Clemente.

“In tal caso è la benvenuta” disse Weber conciliante.

Nel frattempo gli americani si erano spostati di qualche metro e stavano osservando un edificio interamente ricoperto di edera rossa.

“Non solo voglio seguirvi…” rispose Ilde. Poi fece una pausa e assunse un’aria solenne.

“Allora?” Clemente stava perdendo la pazienza

“Dottore, so che lei non sarà d’accordo ma dopo averci a lungo pensato ho preso una decisione.” Sospirò e riprese a parlare lentamente: “Ora che ho rivisto mio figlio Arjuna posso dire che il mio animo è in pace”.

Clemente sbottò: “Senta non so se si rende conto che abbiamo degli ospiti americani che ci aspettano pochi metri più in là, se non le dispiace…”

Ma sentì una mano di Weber, calda e rassicurante, prendere la sua calmandolo all’istante. “Insomma si sbrighi!” tagliò corto Clemente.

Ilde per tutta risposta gettò il suo sguardo lontano, poi ritornò su di loro.

“Come dicevo, ci ho riflettuto a lungo. Poi nel cuore della notte è come se avessi avuto una visione: anch’io voglio essere data in pasto alle bestie. Potreste prenderlo come un dissenso al nostro dovere ma so cosa sto facendo. Loro mi divoreranno e io sarò felice. Sbranando la mia carne, nutrendosi di me, faranno del mio corpo cibo per creature elette. Non oso immaginare morte migliore.”

Clemente e Weber la guardarono sconcertati: era una pazza. Che intendeva fare con quel gesto, una professione di fede al Ministero? Divenire martire volontaria e per la seconda volta, dato che aveva già tentato il suicidio con la gravidanza del bue?

Weber rispose con aria calma e conciliante: “Ma è sicura di quello che dice? Non le piacerebbe vedere la commemorazione e partecipare ai festeggiamenti del Regime tra soli tre giorni? La damnatio ad bestias è prevista per oggi e se oggi si fa sbranare non sentirà nemmeno il discorso della sua assistita. Tantomeno potrà assistere al parto. Non le interessa vedere nascere questo rinoceronte tanto atteso?”

“Se Maya fosse prossima al parto”, rispose Ilde a voce bassa quasi sussurrasse un segreto, “potrei aspettarla e poi proporle di farci sbranare dalle bestie insieme come le martiri Perpetua e Felicita. Ma mancano troppi mesi, io desidero immolarmi subito. Dottore, la supplico…”

“Non c’è bisogno di supplicarmi”, rispose Clemente, “se vuole buttarsi alle bestie faccia pure. Sa bene che per noi la morte di un essere umano non è che un sollievo.”

Ilde rimase di sasso.

Aveva sperato in una reazione quantomeno di stupore, seguita magari dalla supplica di aspettare, di assisterlo ancora a Coronide. Lei avrebbe risposto ferma nella sua volontà di morire e lui allora assieme al direttore ne avrebbe lodato l’immensa fede nel Regime.

Essere liquidata così, senza neanche una parola, la sorprese.

Nondimeno, ringraziò.

E li seguì silenziosa fino al luogo del suo martirio.

 

CAPITOLO 12

  

Come promesso da Weber, il posto dove sarebbero avvenute le esecuzioni era incantevole.

Un Belvedere isolato e altissimo che dava su una vasta pianura verde.

Dietro alla pianura la foresta faceva da scenografia naturale, creando un gigante teatro all’aperto. Era una giornata di sole, le calotte di vetro continuavano a restare aperte. Stavano respirando aria vera da più di qualche ora. Tutti erano felici. Gli americani osservavano la pianura, lodando le bellezze incontaminate e la vastità di farfalle e insetti che fluttuavano nell’aria limpida.

Ilde stava di qualche passo dietro a Weber e Clemente, bisbigliando ossessivamente: “E giunse il giorno luminoso della loro vittoria. Uscirono dalla prigione per recarsi all’anfiteatro come se si stessero recando in cielo, allegri, tranquilli in volto, trepidando semmai di gioia, non di paura…”

“Cosa va farfugliando, Ilde?” chiese Clemente, disturbato da quella litania.

“Un pezzo tratto dal diario di Perpetua, la coraggiosissima martire di Cartagine. Precisamente sto citando il momento in cui lei e gli altri cristiani vengono portati al circo dove verranno sbranati dalle bestie.”

“Non per disilluderla”, seguitò Clemente, “ma le suggerirei di moderare questa sua dimensione eroica. Lei non è che carne umana e non si sta immolando a nessun Dio. Come ben sa, il Regime ritiene che se Dio esiste è un mediocre e non vale la pena pensarci. Inoltre lei è l’unica pazza che va a morire allegra. Quando vedrà gli altri condannati magari le faranno passare l’idea di andare al macello.”

In quel momento dalla foresta sbucò all’improvviso una grande gabbia con ruote, spinta a mano da alcuni soldati in divisa verde. Nella gabbia erano stipati una ventina di uomini e donne, sporchi e seminudi. I soldati fermarono la gabbia in mezzo alla pianura, davanti al Belvedere. Weber con un gesto delicato passò a Clemente un binocolo.

Il Belvedere permetteva una visione ampia sulla pianura ma i corpi restavano distanti. Di certo il proposito di quelle esecuzioni non era come nell’antica Roma il divertimento del pubblico, che poteva tuttavia assistere con discrezione. Gli appartenenti al Ministero ritenevano infatti edificante guardare con quanta naturalezza le bestie in una dimensione ideale uccidevano e si nutrivano di uomini.

Ora grazie al bel binocolo di Weber poteva vederli benissimo. Erano terrorizzati. Le donne strillavano forte mentre gli uomini si buttavano sulle pareti della gabbia come uccelli impazziti.

Clemente vide uno dei soldati, probabilmente il capo, scostarsi dal carro e risalire il declivio. Veniva verso di loro. Era un ragazzo giovane, piuttosto bello. Quando arrivò al Belvedere si inchinò con un sorriso a Weber e fece a tutti un cenno del capo. Gli americani, evidentemente scossi dalla scena, risposero impauriti restando in un angolo.

Weber strinse calorosamente la mano all’ufficiale chiamandolo ‘caro’.

Clemente ebbe un moto di gelosia. Chi era quel soldato? Lui e Weber avevano una relazione? O l’avevano avuta? Oppure trombavano di tanto in tanto? Era fottuto: si stava innamorando. Chi l’avrebbe mai pensato: proprio lì, sperduti nel nulla e nella ferocia della dittatura in mezzo a urla lancinanti di umani che stavano per venir fatti a brandelli, ecco che il suo cuore cominciava a battere forte per il biondo scienziato. Il dubbio che non fosse omosessuale non lo aveva ancora sfiorato. Ma un’ondata di odio per il giovane soldato lo travolse in pieno. Giovane, appunto. Doveva avere al massimo venticinque anni, fisico atletico, capelli forti e spalle robuste. Il classico cliché gay. No, Weber doveva avere gusti più raffinati, all’altezza del suo genio. Magari in qualche momento di malinconia lo aveva chiamato nel suo studio per fargli un pompino, sicuramente quasi mai da solo: era probabile organizzassero piccole e discrete orge assieme a soldati ancora più giovani e atletici.

Il maledetto ora si presentò a lui: “Piacere, dottore, un onore conoscerla. Sono Marcus, il capitano delle guardie addette alla damnatio ad bestias”.

Marcus: non poteva chiamarsi altrimenti. Sicuramente però non era il suo vero nome, probabilmente si chiamava Jean-Charles e prima di esser messo dal governo a capo di un branco di assassini faceva un mestiere misero e deprimente. Lo vedeva nella sua prima adolescenza in uno squallido bar di provincia a servire caffè magro e pallido, preso in giro da tutti perché frocio e vegetariano. Molti capi del regime avevano avuto un’esistenza da sfigati prima, Clemente incluso. Weber no, Weber era cresciuto in Bavaria tra la ricchezza e i giochi dell’alta aristocrazia. Probabilmente da piccolo correva da un lato all’altro del lugubre castello dei nonni, aveva dieci educatori e parlava già quattro lingue.

Clemente con gesto nascosto si toccò la pancetta. Negli ultimi tempi si era trascurato, aveva quasi del tutto smesso yoga e si abbuffava di dolci. Non che fosse ingrassato ma sicuramente inflaccidito. Sentì la depressione arrampicarsi nel suo stomaco fino alla gola. In fondo perchè Weber avrebbe dovuto desiderare uno come lui quando poteva avere Marcus.

“Il piacere è tutto mio” rispose con la solita falsità che lo accompagnava in quasi tutti gli incontri formali. Quando vide poi Weber mettergli una mano sulla bassa schiena invitandolo a leggere ad alta voce i crimini dei prigionieri, a stento trattenne le lacrime. Una mano sulla bassa schiena doveva per forza significare qualcosa: forse erano fidanzati? Che Weber fosse addirittura capace di monogamia? Era talmente affranto che a fatica si concentrò sulle condanne.

Marcus tirò fuori un mini computer e cominciò a leggere ad alta voce: “Oggi vengono condannati due progettisti di allevamenti intensivi, due figli di magnati della carne, tre veterinari responsabili di castrazione massificata di cani, gatti e conigli. Queste sette persone erano fuggite all’estero alla presa del potere del nostro Ministero ma grazie alla cooperazione con altri stati, dopo diversi anni siamo riusciti a riportarle in patria. Abbiamo inoltre undici spie russe che per qualche mese hanno tentato di rubare dati dalla nostra centrale sotto falsa identità e un membro del Ministero sorpreso a mangiare una tartina al granchio in uno dei ristoranti oltre il confine con la Spagna”.

Marcus fece una pausa e cadde il silenzio.

Era evidente che le americane stavano pensando all’ultima sogliola che si erano pappate prima di venire lì, magari in aereo. L’America infatti si stava affacciando solamente adesso all’idea di vietare la carne ma un vegetarianesimo o veganesimo collettivo era ancora distante. Tacevano terrorizzate. Se questi erano capaci di buttare alle bestie un loro ministro per essersi mangiato una tartina al granchio cosa avrebbero potuto fare di loro? Scott invece, vegano da metà della sua vita, si ergeva fiero come un vecchio maniero scozzese, fiero e felice nella sua tetraggine di trovarsi finalmente nel posto giusto.

Marcus continuò: “Seguendo la tradizione romana gli animali che oggi prima giocheranno e poi si nutriranno di queste prede sono: dodici iene, due tigri, dieci lupi, cinque leoni e un orso”.

Nessuno osava chiedere se l’esecuzione fosse di massa oppure se i condannati venivano fatti fuori ad uno ad uno. Clemente aveva assistito ad altre esecuzioni ad bestias anni prima. In realtà era un modo per divertire gli animali. Generalmente la carne umana veniva loro mescolata nei pasti quotidiani senza dover ogni volta farli correre dietro a persone terrorizzate. Non c’era abbastanza personale, era più semplice uccidere gli uomini in qualche macello e poi distribuire la carne già macinata in tutte le riserve. Inoltre, diciamocelo, la condanna ad bestias era piuttosto crudele. Potevano volerci ore, a volte si veniva sbranati solo a metà e rimessi via per il prossimo pasto. Era una pena riservata a colpevoli gravi. Se Clemente non ricordava male, le bestie non venivano liberate assieme per non correre il rischio si sbranassero tra loro.

Il dubbio fu presto chiarito dall’odioso Marcus: “Prima verranno liberate le due tigri che si occuperanno dei progettisti. I lupi seguiranno sbranando le spie russe; i leoni sono invece abbinati ai tre veterinari. L’orso verrà aizzato contro il ministeriale che ha osato mangiare pesce. Le iene invece verranno liberate in caso di bisogno di rinforzi e naturalmente, quando gli umani saranno morti, aiuteranno i loro amici a finire i cadaveri”.

Di nuovo piombò il silenzio ma fu presto interrotto da Weber, che si complimentò per la scelta degli abbinamenti. Questa volta però Clemente notò una certa freddezza. Forse si aspettava qualcosa di meglio dal suo amante oppure semplicemente si era inventato tutto e quei due non avevano nulla a che fare.

Ringalluzzito, se ne uscì con: “E desidero personalmente ringraziare i nostri ospiti americani, per aver permesso il ritrovamento dei due figli del magnate della carne. Senza il vostro prezioso contributo oggi non sarebbero qui”.

Scott sorrise. Era uno di quei finti sorrisi pieni di modestia che celava in realtà una ferocia senza limiti. Probabilmente era stato lui a pianificare la cattura e lo scambio dei due figli del magnate della carne, guadagnandosi così la possibilità di essere lì. Le altre tre donne, senza dubbio a disagio, si limitarono a brevi cenni del capo, lo sguardo a terra.

Clemente inforcò il binocolo e guardò i prigionieri nella gabbia. Parevano più calmi ora, quasi rassegnati. Marcus fieramente chiese quando dovessero cominciare le esecuzioni. Se bisognasse attendere l’arrivo della delegazione perfetta o no. Ah, quindi gli spiriti guida dei catari, i Perfetti dei perfetti, stavano per raggiungerli proprio lì, comprese Clemente.

Finalmente avrebbe avuto modo di conoscere il loro capo. Non l’aveva mai nemmeno visto in foto: era riservatissimo e correva voce non uscisse dal loro centro decisionale che chiaramente nessuno sapeva dove fosse.

I suoi pensieri furono interrotti dalla voce di Weber: “Potete cominciare, sono certo che i Perfetti saranno felici di arrivare a damnatio iniziata. Inoltre immagino che gli animali comincino ad aver fame”.

“Sì, sono digiuni da quattro giorni” sentenziò Marcus.

“Oh, ma è terribile” disse senza riflettere una delle americane.

“Sciocchezze”, la interruppe Weber con tono secco, “gli animali che noi chiamiamo feroci sono abituati a digiunare. Anzi sono consapevoli dell’efficacia salutare di questa pratica. I lupi ad esempio cacciano per giorni ma poi possono restare settimane senza mangiare e nello stesso tempo percorrono grandi distanze per procacciare altro cibo vivendo con il solo grasso corporeo, come del resto quasi tutti i predatori. Io stesso pratico il digiuno: è una delle poche abitudini salutari che mi concedo, non avendo tempo di fare ginnastica. Tutti gli umani dovrebbero digiunare almeno una volta al mese. Rende migliori.”

L’americana si ritirò nuovamente nel suo angolo.

Weber, rendendosi improvvisamente conto di aver usato un tono un po’ brusco, cercò di rimediare: “Ma, cari ospiti, non ho pensato a farvi portare delle sedie! Immagino siate stanchi dopo il lungo viaggio. E dei binocoli, chiaramente! Così potrete seguire con attenzione la Caccia. Marcus, caro, puoi occuparti tu di far arrivare una decina di sedie e i binocoli e… Perché no, vi va un po’ di musica? Faccio subito chiamare i musicisti e… Magari anche un paio di vassoi di pane e hummus, olive, tartine al sesamo e sì, forse del vino! Ah no, arrivano i Perfetti, per carità, tutti astemi. Marcus, allora sedie, binocoli, musicisti e pane e acqua tiepida in abbondanza!”

Lui si inchinò, guardando il suo capo con reverenza.

Sì, ogni tanto scopavano. Ma non era niente di serio. Non valeva la pena di preoccuparsi, si disse tra sé Clemente.

“Allora intanto posso far uscire dalla gabbia i progettisti e liberare le tigri?” chiese Marcus prima di andarsene.

“No, ci ho ripensato” disse Weber.

Tutti rimasero attoniti e lo guardarono. Stava immobile con lo sguardo nel vuoto, come se contasse a mente qualcosa. Clemente colse nelle facce delle americane delle deboli e mal celate espressioni di speranza. Forse tutta quella crudele farsa sarebbe stata annullata. Questo speravano. Magari era uno scherzo orchestrato per spaventarli, per far veramente capire alle altre nazioni in visita cosa sarebbe potuto succedere di male sotto una dittatura vegana estremista.

Infine Weber uscendo dalla sua dimensione trasognata disse con voce allegra e convinta, la voce di chi aveva riflettuto sulla cosa migliore da farsi: “Fate arrivare i leoni a sbranare i tre veterinari. È meglio iniziare con un classico per i nostri ospiti! Inoltre i leoni sono più veloci e sbrigativi, teniamo le tigri coi progettisti per i Perfetti. Sono certo apprezzeranno questa mia accortezza. E poi…”

“E poi ci sono io!” Ilde, nella sua immensa mole, si fece avanti.

Fino a quel momento era rimasta in silenzio dietro a Clemente, come un grosso eunuco a cui fosse stata tagliata la lingua. Marcus, quando la vide avanzare, sobbalzò. Era in effetti persino più brutta del solito, pensò Clemente. La voglia di venire sbranata dalle sue adorate bestie la rendeva paonazza in volto e i suoi gesti parevano maggiormente aggressivi e brutali.

Weber, guardandola come un sacco di immondizia che si era dimenticato di buttare, disse a Marcus: “Ah sì, poi questa infermiera vorrebbe sacrificarsi ed essere data anche lei in pasto alle bestie. Possiamo metterla con le spie russe e i lupi?”

Marcus lo guardò con aria di rimprovero, come dire “…e le sedie, le tartine, l’acqua, e apri le gabbie, e chiama i Perfetti, e cambia all’ultimo i leoni con le tigri… va bene tutto, ma questa adesso, dove la metto?”

Eppure, da bravo inferiore, si limitò ad annuire dicendo: “Vedo cosa riesco a fare. Magari per ultima”.

Stranamente Ilde fece un passo indietro e, senza troppo protestare, disse: “Grazie”.

È già convinta di essere una santa, constatò Clemente.

 

Come promesso, in tutta velocità arrivarono sedie, binocoli, acqua e pane.

I musicisti erano stati avvisati ed erano in arrivo.

Faceva piuttosto caldo, il sole stava diventando aggressivo. Succedeva quasi sempre durante le belle giornate. Dopo un po’ il calore diveniva insopportabile. Infatti le calotte si stavano lentamente richiudendo, riportandoli ad un’atmosfera artificiale. Gli americani erano rimasti sconvolti dalle enormi infrastrutture in vetro create per proteggere ciascuna riserva. Eppure non c’era stata altra soluzione per preservare le piante e gli animali dagli improvvisi sbalzi climatici. L’Europa oramai stava cominciando a soffrire di desertificazione da un lato e di glaciazione al nord. Per l’America era diverso: nonostante i tremendi uragani e gli incendi la natura era ancora presente e in molte aree addirittura florida. Ma cominciava ad esserci la consapevolezza che qualcosa di tremendo e sconosciuto stava avanzando. Poco prima che arrivassero i panini Scott aveva dato la notizia, non senza una certa inquietante soddisfazione, che un’altra grande città della Florida era finita sott’acqua proprio in quelle ore a causa di un tifone.

Il cambiamento climatico annunciato da molti anni e altrettanto ignorato si stava scatenando con una violenza degna di una divinità inferocita.

Qualcuno in lontananza giù nella radura gridò e dalla foresta apparvero i leoni, sicuramente liberati da qualche soldato. Erano cinque. Quattro femmine e un maschio.

“Assolutamente maestosi” commentò Scott, binocolo alla mano.

“Già” annuì Weber.

Clemente notò che il suo bello pur essendo magro aveva un mento leggermente sfuggente e un po’ di pappagorgia. In effetti come aveva dichiarato poco prima, non doveva fare molto esercizio fisico il buon Weber. Pazienza – si disse Clemente. Una volta finita questa faticaccia avrebbero ripreso insieme yoga, ritrovando in pochi mesi un corpo dignitoso e vigile. Sicuramente se l’esperimento fosse andato a buon fine, il Regime avrebbe loro concesso un paio di settimane di ferie. Sarebbero potuti restare a rilassarsi in qualche area suggestiva nelle riserve ma lontani dalla centrale. Lontani soprattutto da Marcus.

Intanto nella radura un soldato con modi bruschi e plateali fece uscire dalla gabbia quelli che dovevano essere i tre veterinari. Due uomini e una donna, tutti sulla cinquantina. La gabbia con gli altri umani venne subito allontanata cosicché nel semicerchio naturale con dietro la foresta rimasero solamente i veterinari e i leoni.

Non appena usciti dalla gabbia i tre si resero subito conto di non avere via di scampo. Ai lati della radura erano piazzati i soldati che al primo tentativo di fuga verso la foresta li avrebbero riportati nel prato a farsi massacrare.

Era piuttosto penoso vedere quei corpi ormai prossimi al declino, flaccidi e immiseriti dalla prigionia, avanzare nudi nell’erba. I tre restavano attaccati l’uno agli altri come sperassero di venire divorati in un sol boccone tutti assieme e il più presto possibile.

Naturalmente non andò così.

Le leonesse presero il loro tempo prima di avvicinarsi; procedevano a testa bassa tra l’erba, accerchiandoli. Non era davvero necessario vista la loro supremazia ma trovandosi in un ambiente naturale e non in un’arena gli animali agivano secondo l’istinto. Non spaventati né aizzati dagli umani avanzavano ad una lentezza esasperante, spesso sedendosi ancora distante dalle prede e guardandole. Era come se non osassero attaccarli finché stavano tutti insieme, fermi. Probabilmente in quanto veterinari le vittime erano coscienti di questa abitudine dei felini: sapevano che stando compatti le bestie avrebbero esitato ad attaccare. Ma i nervi presto cominciarono a saltare e le facce tradirono una disperazione vicina alla follia. In meno di una decina di minuti il triumvirato per la sopravvivenza crollò tra urla di terrore e i tre cominciarono una corsa disperata verso il nulla, ognuno in una diversa direzione.

Clemente, binocolato, prese ad osservarne uno in particolare. Era chiaramente uno stronzo: nelle situazioni di pericolo gli umani rivelano sempre la loro vera indole. Quel tizio, un veterinario piuttosto grassoccio, aveva iniziato la fuga spintonando gli altri e quasi buttandoli a terra in modo da guadagnare un eventuale vantaggio. Ma le bestie, ah le bestie come sanno essere giuste! Le tre leonesse che fino ad ora erano rimaste compatte stavano infatti scegliendo lui come prima preda.

In quattro balzi velocissimi lo accerchiarono e senza che ci fosse veramente il tempo di rendersene conto, si avventarono su di lui. Una sulla testa, mordendogli la bocca, per farlo lentamente morire di asfissia mentre l’altra cominciava ad aprirgli lo stomaco a morsi, cercando le interiora. La terza fiera stava seduta dando le spalle alle compagne, assicurandosi che nessuno venisse a minacciare il bottino. Ben presto il leone con la sua criniera d’oro raggiunse il gruppo e si avventò sullo stomaco ormai lacerato. L’uomo non era ancora morto ma aveva smesso di urlare anche perché non aveva più la bocca. La prima leonessa aveva finito per divorargli mezza faccia.

Ma un uomo solo non sarebbe potuto bastare per tutti e la quinta leonessa, furba, nel frattempo aveva continuato a puntare i due superstiti. Infatti non appena il primo fu definitivamente morto, i leoni lo lasciarono dov’era e raggiunsero la sentinella. E si avventarono con violenza, inebriati dal sangue, sugli altri due. Le modalità furono più o meno le stesse anche se alla donna piccola e magra sfondarono subito il cranio con un morso mentre all’altro, dopo qualche lacerazione superficiale, perforarono la trachea: poi cominciarono a divorarli. In effetti il primo era stato il supplizio più spettacolare: il pingue veterinario aveva continuato a muoversi anche mentre gli strappavano le viscere dallo stomaco e aveva persino emesso un ultimo grido prima che la sua faccia venisse maciullata. Con gli altri due furono più sbrigativi.

Ora erano tutti morti e i leoni si divisero, chi sull’uno chi sull’altro. Pareva che nessuno all’inizio volesse finire di mangiare la donna quasi pelle ed ossa. Alla fine una delle leonesse, forse la più buona di cuore, si decise ad accontentarsi di quel magro pasto. Il leone naturalmente si avventò sulla prima vittima, la più pasciuta, seguito a ruota da due leonesse che con calma serafica affondarono le teste nel ventre squartato e sanguinolento del morto.

 

Clemente abbassò il binocolo e si voltò: un’americana era svenuta sulla sedia mentre un’altra stava vomitando in silenzio poco più in là. Scott, neanche a dirlo, era tutt’uno col suo binocolo e fremeva sulla sedia come un ragazzino. L’americana più giovane invece si guardava attorno smarrita, gli occhi stralunati, come se avesse appena visto la propria famiglia massacrata a colpi d’ascia.

Eccoli, gli ipocriti. Falsi umani che di fronte ad una violenza piuttosto coreografica e di breve durata si sconvolgono, incapaci di collegare che loro stessi ogni giorno causano infinite pene e mortali agonie a tutte le altre specie. Umani maledetti che fino ad un momento prima si erano mangiati la coscia di un pollo nato e cresciuto in lager senza luce, sporco, chiuso in gabbia, mentre i suoi fratelli erano finiti vivi nel tritacarne. Sciocchi umani che hanno inventato il bene e il male solo per il gusto di credere di fare l’uno o l’altro.

Weber gli si avvicinò. Era raggiante, quasi saltellava.

“Incredibile, stiamo facendo passi da gigante. Fino a poco tempo fa era difficile che le leonesse attaccassero gli uomini con tanta decisione. Indugiavano povere, forse incerte. Ma adesso in questo ambiente le loro paure stanno sparendo. Qui l’uomo non è più una minaccia per loro.”

E si voltò con la faccia di un ragazzino che vede per la prima volta la primavera. Guardava i leoni masticare lentamente quelle viscere bluastre, felici e assolutamente privi di senso di colpa.

“Lo meritano, poveri. Pensare a quanto male abbiamo fatto alla loro specie”, sentenziò Clemente avvicinandosi un po’ a Weber e mettendogli timidamente una mano sul fianco, “se si pensa che fino a diecimila anni fa era il secondo grande mammifero più diffuso dopo l’uomo…”

Dopo una lunga pausa silenziosa, Weber si girò. Il suo buonumore era completamente svanito. Guardò Clemente con i suoi occhioni blu quasi umidi, improvvisamente tristissimi, e disse con voce infantile: “Quando vedo un leone avanzare, non posso non inchinarmi alla sua straordinaria potenza, eleganza, dolcezza. E gli uomini”, singhiozzò all’improvviso come i pazzi, “invidiosi della sua bellezza, l’hanno umiliato prima nelle arene, poi nei circhi… Lo sai che quella troia di Margherita d’Angiò chiuse centinaia di leoni nella torre di Londra facendoli praticamente morire di fame e di freddo?”

“Sì” disse Clemente fingendo una forte emozione e facendo scivolare la mano dall’anca di Weber verso il culo. Gli aveva dato del tu. Le cose cominciavano ad ingranare.

Era il momento di calcare le emozioni: “È così che è nata l’idea di zoo. Dalla torre di Londra e da quella baldracca di Margherita d’Angiò, fino a divenire menagerie pubblica. Se penso che nel millesettecento per entrare o si pagavano tre sterline oppure si portava un cane o un gatto da dare in pasto ai leoni, mi viene male”.

Tolse la mano dal culo di Weber. Non voleva sembrare invadente e poi in effetti considerare le misere condizioni dei leoni nella torre di Londra lo depresse davvero.

Weber rimase immobile, con la testa bassa, lo sguardo sull’erba secca. Piangeva come un bambino. Poi dopo qualche minuto con aristocratica dignità si asciugò le lacrime e lo guardò, sorridendo improvvisamente.

“Mettiamo un po’ di musica, stanno arrivando i catari, non dobbiamo farci trovare col morale a terra. E poi tutto va bene!”

Clemente annuì e riprese le distanze.

Quegli improvvisi sbalzi d’umore lo insospettivano: forse la decantata cocaina blu non era affatto priva di conseguenze. Decise che in poco tempo l’avrebbe tirato fuori da quella brutta abitudine. Era ovvio: prendeva droghe perché era sensibile e solo. Ma presto tutto sarebbe cambiato. Probabilmente smettendo di colpo con la cocaina sarebbe ingrassato ma lo yoga avrebbe provveduto. Insomma come aveva appena detto lui, tutto stava andando bene. I veterinari erano morti e i catari stavano arrivando. Non vedeva l’ora di conoscere finalmente il loro capo, forse avrebbe avuto occasione di parlargli del suo esperimento…

Chissà se l’aveva letto…

In quel momento la testa iniziò leggermente a girargli e lo prese una strana nausea. Cominciava a sentire nell’aria uno strano odore di acqua marcia. Che fosse l’odore dei cadaveri? No, troppo presto, chiaramente.

Era come se quell’odore venisse da lontano.

L’aveva sicuramente già sentito, ma non riusciva a ricordarsi dove.

Marcus arrivò trafelato: “Weber, i Perfetti stanno arrivando, siamo davvero in ritardo! Faccio uscire le iene ad aiutare a finire i cadaveri? Sennò andrà per le lunghe: i leoni, come potete vedere, cominciano ad avere sonno”.

Clemente inforcò il binocolo: era vero. I leoni, soddisfatti del pasto, si erano accovacciati vicino ai cadaveri. Alcuni si leccavano le zampe col muso lordo di sangue, altri erano prossimi ad addormentarsi. Un’abitudine dei leoni piuttosto nota è di restare accanto alla preda morta anche per svariate ore, prendendo delle pause di tanto in tanto, per poi lentamente divorarla in un secondo tempo. In natura la presenza di iene e avvoltoi generalmente li costringe a mangiare più velocemente o ad andarsene, lasciando i resti ai parassiti.

“Sì, fate entrare le iene” sentenziò Weber con tono napoleonico.

Fu presto fatto e una decina di iene comparvero dal bosco nella radura. Clemente riconobbe all’istante il loro fastidiosissimo verso collettivo. Non si era mai abituato inoltre alla loro bruttezza, quell’andatura infida e quel muso maligno. In poco tempo avrebbero infastidito i leoni a tal punto da farli scappare; poi come sorellastre litigiose si sarebbero contese gli avanzi, tra grida e schermaglie.

Invece successe ciò che avveniva di rado: i leoni non volevano mollare l’osso. Erano pronti a lottare. Forse pensavano: chissà quando ci ricapita. Cominciò una scena lunga e acusticamente fastidiosa. Le iene urlavano senza tregua, correndo intorno alle prede ma i leoni, non appena una si avvicinava, ruggivano spaventandole e tornavano a affondare le fauci nei cadaveri. Adesso non dormivano più, anzi sembravano avere tutte le intenzioni di non lasciar loro neanche una briciola. Le iene, esasperate e preoccupate di restare a bocca asciutta, si fecero mano a mano più temerarie. Due di loro riuscirono ad afferrare un pezzo di gamba del morto e poi corsero via ridendo lontano, dove avrebbero potuto mangiare in santa pace. Ma restavano ancora sul campo almeno sette, otto iene affamate e pronte a tutto. Dopo altri disperati tentativi di rubare la preda al capo branco, la caccia si fece feroce. Il leone maschio ne acciuffò una e la sbranò, tra urla strazianti della vittima, aiutato da un’altra leonessa che non esitò a maciullarle il muso per poi tuffarsi sul suo stomaco. Tutte le altre iene indietreggiarono impaurite e restarono a pochi metri, ululando affamate.

“Ora basta, non posso più vederle soffrire così. La mia ora è giunta!”

Ilde avanzò come un carro armato, implacabile. Oltrepassò Weber e Clemente e cominciò a scendere il declivio, verso la radura. Persino gli americani uscirono dal loro stato di shock e cominciarono ad urlarle di tornare indietro. Niente da fare: la pazza procedeva con l’andatura fiera di un caporale che va a morire per la patria. Fu patetico vederla inciampare prima di arrivare alla radura, rotolando per qualche metro. Ma lei si rialzò fiduciosa e con rinnovate forze giunse al prato. Le bestie in un primo momento non si accorsero di lei, intente com’erano nella loro lotta. Lei allora avanzò. Cominciò a correre come una suora che avesse visto Gesù. Correva verso il cerchio di iene, chiamandole.

I leoni di scatto alzarono il muso dal pasto e la fissarono. Così fecero le iene. Ci fu un momento di silenzio. Clemente ridacchiò dentro di sé. Chissà se stanno calcolando quanti chili di carne riusciranno a ricavare da quel mostro.

E poi successe l’inaspettato.

Due leonesse avanzarono verso di lei. Quando le furono ad un metro di distanza lei si inginocchiò, pronta. Ma le leonesse l’annusarono e fecero dietro front. Il leone e le altre due femmine nemmeno si degnarono di avvicinarsi. Seccati dall’intrusione, gettando un ultimo sguardo ai resti di cadavere se ne andarono nel bosco. Ilde restò sola con le iene. Persino loro tacevano. Le stavano attorno a cerchio e lei cercava di buttarsi ora verso l’una, ora verso l’altra, offrendo un braccio, un piede, infine urlando: “Mangiatemi!”

L’urlo spaventò le bestie che cominciarono ad allontanarsi. Clemente sentì scalpitare dietro di sé. Si girò e vide Marcus arrivare con un enorme fucile sulle spalle. Dieci secondi dopo Ilde giaceva a terra morta, sparata in testa come direbbero in Sicilia.

“Bravo Marcus, ottima iniziativa” disse Weber fissando felice le iene che a poco a poco cominciavano ad avvicinarsi all’enorme cadavere.

Scott si alzò dalla sedia, per la prima volta con un’espressione profondamente contrariata: “Avete ucciso una santa! Non avete visto come i leoni hanno rifiutato di mangiarla? E le iene? Solo ora osano, perché è morta, uccisa da voi!”

Weber scoppiò a ridere: “Ma quale santa… Almeno metà delle testimonianze delle arene dell’antica Roma ci riportano che in molti casi i leoni ignoravano la vittima, specie se erano sazi. Avremmo potuto tenerla per le tigri, ma ormai è tardi. Hai fatto benissimo, Marcus!”

“E le iene allora?” continuò Scott imperterrito, “nemmeno loro hanno voluto mangiarsela, né attaccarla da viva!”

“E quando mai una iena attacca un umano in piedi, grossa così poi? Andiamo, Scott, si vede che in America studiate poco… E anche quell’infermiera, cosa pensava di fare? Comunque ha avuto quello che voleva.”

Fine dei discorsi.

Weber aveva ereditato dalla sua stirpe il tono perentorio dei re e dei principi. Se sentenziava, tutti dovevano tacere. Clemente inforcò nuovamente il binocolo e vide dieci iene (anche le due che erano riuscite a mangiucchiare una gamba poco prima erano tornate) sul corpo morto della sua ex collaboratrice. Ora in effetti mangiavano a sazietà.

“Lasciatele fare ancora qualche minuto poi spostate il cadavere dietro alla radura, che lo finiscano lì. Dobbiamo liberare il campo prima che arrivino i catari. E per loro, Marcus caro, per i Perfetti, voglio i lupi.”

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foto Toich

Francesca Sarah Toich è un’artista che vive a Parigi e lavora principalmente in Francia, Italia e America. Specializzata in Commedia dell’Arte e letteratura italiana  è stata premiata come migliore giovane interprete della Divina Commedia, vincendo per due volte il Lauro Dantesco a Ravenna. Insegna e recita in italiano, inglese e francese in numerose compagnie di teatro e ricerca, ed ha  portato le sue performance a New York, Mosca e Tokyo. Da sempre collima la scrittura con le sue performance e messe in scena teatrali; ha vinto il primo premio nel concorso internazionale di scrittura per lo spettacolo “Premio Goldoni  Opera Prima” con la tragedia intitolata “Diotallevi” e ha pubblicato due romanzi fantasy per ragazzi. Alle Bestie! e’ il suo primo romanzo di Climate Fiction.

 

Riguardo il macchinista

Walter Valeri

Walter Valeri poeta, scrittore e drammaturgo è stato assistente del premio Nobel Dario Fo e Franca Rame dal 1980 al 1995. Ha fondato il Cantiere Internazionale Teatro Giovani di Forlì nel 1999. Successivamente ha diretto il festival internazionale di poesia Il Porto dei Poeti a Cesenatico nel 2008 e L’Orecchio di Dioniso a Forli' nel 2016. Ha tradotto vari testi di poesia, prosa e teatro. Opere recenti Ora settima (terza edizione, Il Ponte Vecchio, 2014) Biting The Sun ( Boston Haiku Society, 2014), Haiku: Il mio nome/My name (qudu edizioni, 2015) Parodie del buio (Il Ponte Vecchio, 2017) Arlecchino e il profumo dei soldi (Il Ponte Vecchio, 2018) Il Dario Furioso (Il Ponte Vecchio, 2020). Collabora alle riviste internazionali Teatri delle diversità, Sipario, lamacchinasognante.com Dal 2020 dirige i progetti speciali del Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”. È membro della direzione del prestigioso Poets’ Theatre di Cambridge (USA).

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