Scenario e riassunto delle puntate precedenti
Parigi, Francia, in un prossimo futuro. Maya è gravida di un rinoceronte bianco: un’inseminazione imposta dal Regime. Clemente è il medico che segue la sua gravidanza.
Il Regime ha preso il potere anni prima con un colpo di stato. Il governo è composto da una fazione estremista di ambientalisti. L’estremismo è radicale: l’umanità è marcia, nel paese deve tornare sovrana la natura e – soprattutto – i suoi animali. Tutta la tecnologia è impiegata per realizzare questo unico obiettivo.
Gli esseri umani che hanno contribuito nel passato all’attuale disastro ambientale – ad esempio commerciando in carne oppure in pellicce – devono ora pagare. E tutte le femmine umane devono sempre essere a disposizione, per portare in grembo le specie animali in via di estinzione. La cultura classica è ora tenuta in massima considerazione, proprio perché massimamente improduttiva e incapace di far avanzare oltre la colpevole umanità sul cammino del progresso.
Con questa politica la Francia è all’avanguardia, in un mondo dai delicati equilibri politici – giocati tra America, Russia, India, Cina e addirittura il Bhutan – e sempre più colpito da disastri e calamità, naturali conseguenze dello sfruttamento del pianeta: surriscaldamento, desertificazione, inondazioni e diffusione di malattie (dovute a batteri rimasti congelati per millenni nel Permafrost che ora va sciogliendosi).
Le strade di Maya, studentessa di lettere antiche, e Clemente, medico all’avanguardia e omosessuale, tenuto in grande considerazione dal Governo, sono destinate ad incrociarsi fatalmente in un viaggio che cambierà le sorti del mondo intero.
VIII
Quando entrò nel giardino degli uccelli l’alba dalle dita viola le graffiò la faccia. Era estate? Inverno? Chi poteva saperlo. Vedeva il cielo livido attraverso la cupola di vetro della serra. L’aria sembrava una massa di piombo. Come gli aztechi, cominciò a temere che il cielo presto le sarebbe caduto in testa. Ma nonostante lo scioglimento del Permafrost portasse sempre nuove malattie e continui cambiamenti climatici, la catastrofe tardava a venire. Forse non sarebbe arrivata mai. L’umanità si sarebbe semplicemente ridotta e la terra ripresa, come sempre.
Vide Clemente seduto al centro del giardino: davanti a lui una scacchiera. Una vera scacchiera in legno. Da anni non ne vedeva una. Si salutarono con un cenno del capo. Sulla scacchiera mancavano due pedoni. Lui le porse i pugni. Scelse la mano sinistra. Clemente la aprì e dentro al pugno stava il pedone bianco. Avrebbe dunque giocato coi bianchi, partendo in grande vantaggio. Si sedette sbuffando dalla fatica e rimise il pedone bianco sulla scacchiera e Clemente fece altrettanto col nero.
Lei scelse un’apertura pavida, mandando avanti di due caselle il pedone di Re.
Clemente la guardò in tralice. Non era un inizio degno di lei. In effetti in tutte le altre partite che avevano giocato a mente lei aveva aperto di Regina, o con scelte più rischiose e innovative che lo mettevano da subito in difficoltà.
Rispose in c6, difesa Caro-Kann. In quel momento un’upupa emise un triplice suono che Maya sapeva, secondo le tradizioni baltiche, preannuncio della morte di un uomo o di un animale. Mosse in d4 pedone bianco, due caselle davanti alla regina, Clemente in d5, speculare. Lei mangiò il suo pedone e lui fece altrettanto.
Fissò instupidita la scacchiera e dopo un tempo piuttosto lungo rispose con l’attacco Panov, che apriva una via aggressiva ma pericolosa nel finale. Clemente scodinzolò sulla sedia. Perché non aveva usato la difesa dei due cavalli, sicuramente più efficace? In ogni caso, era felice. Aveva avuto una splendida idea.
In quella clinica non riusciva a dormire o meglio, crollava esausto la notte dopo qualche ora di lavoro al suo progetto. E all’alba era sveglio, solitamente in preda al panico. Fino a che non saliva il sole, vagava inquieto tra le mura della clinica. Poi dopo poco tutto spariva e si rimetteva al lavoro con costanza formidabile. Ora… non si decideva per la prossima mossa. Qualcosa poi lo infastidiva a morte. Come quando preparava gli esami e sentiva un rumore, uno qualsiasi, e diventava pazzo. Quella dannata upupa.
Doveva impegnarsi, doveva vincere. Mosse il cavallo in f6 e lei rispose fulminea con cavallo in c3. Clemente la guardò. Non stava davvero giocando bene. Generalmente a quel punto, nelle altre partite giocate a mente, lei aveva già guadagnato una posizione di grande vantaggio. Lui continuò in e6. Il gioco si prolungò di qualche mossa fino ai rispettivi arrocchi. Alla decima mossa erano ancora a pari merito, con due pedoni presi a testa ed era già passata più di un’ora. Di questo passo non avrebbero finito la partita quella mattina. Aveva calcolato di venir battuto entro la prima mezz’ora. Che stava succedendo a Maya?
Forse era stanca? O non era abituata alla vera scacchiera? O magari la misera infine aveva cambiato idea e preferiva non sapere nulla del suo destino. Capita. Aveva notato negli anni moltissimi casi di pazienti che dopo gli esami medici preferivano rimanere all’oscuro anziché sapere se erano malati o meno. Tanto non le avrebbe detto comunque nulla; se lei avesse vinto, l’avrebbe liquidata con qualche indicazione vaga sul Giorno del ricordo del Giudizio. E poi al diavolo! Lui non era tenuto a darle nessuna spiegazione.
Lei, dal canto suo, dopo aver arroccato si era messa a guardarsi attorno. Tutto era fermo, persino gli uccelli non volavano. Le sembrava di essere alla fine di un impero dove nonostante l’opulenza, si sente odore di morte e miseria. Eppure era una bella mattina. Il sole era sorto sulle loro teste e nessuno era venuto a disturbarli. Strano, fino a poche settimane prima una partita di scacchi all’aperto sarebbe stata impensabile.
“Dottore, per riprendere il discorso di ieri…”
“Uhm, uhm…” balbettò lui infastidito.
“Volevo dirle che la stesura della mia dissertazione procede bene.”
“Lo immagino”, rispose lui freddamente, “infatti non è concentrata sulla partita. Indubbiamente sta pensando ad altro.”
“Sì, veramente, se posso chiederle una precisazione riguardo a quel giorno, io…”
“Un attimo.” Lui la interruppe bruscamente e tirò fuori dal camice un minicomputer.
“Metto un pò di musica. Bach. Forse la aiuterà a concentrarsi meglio sulle mosse.”
E premendo un tasto diffuse per tutta la serra i concerti brandeburghesi ad alto volume. Gli uccelli sembravano non interessarsene particolarmente.
Clemente cominciò a muovere la testa a ritmo, con lo sguardo fisso sulla scacchiera.
Fine di ogni discorso. Era un tipica modalità dei membri del Regime. Coprire tutto con la cultura ed assumere atteggiamenti bizzarri, spesso schizoidi. E pensare che inizialmente li aveva persino sostenuti! Prima della presa del potere alcuni elementi del partito lavoravano negli uffici del precedente governo. Si occupavano specialmente degli ambiti socio-culturali e ambientali. Grazie a loro e ad un concorso che avevano indetto, aveva vinto il posto di studente di letteratura classica. Per questo li aveva adorati. Prima di vincere quel bando si barcamenava tra volontariato per associazioni culturali ed ecologiste e dando qualche ripetizione privata di latino e greco. I suoi genitori la guardavano come una barbona, continuando a chiedersi quando avrebbe trovato un lavoro. Avevano sperato, dopo averla sostenuta negli studi, che sarebbe stata presa come ricercatrice all’Università. Eppure lei non aveva voluto. Detestava i suoi professori, vecchi panzoni supponenti che l’avrebbero schiavizzata a vita costringendola a lavorare notte e giorno per scrivere i loro saggi. E così era entrata nella larga schiera di giovani, apparentemente nulla facenti, che in realtà tenevano in vita associazioni di volontariato e ricerca dandosi da fare giorno e notte. Ma nessuno li capiva. I responsabili del vecchio governo e la maggior parte della gente influenzata dal modello capitalista li trattava come bamboccioni pigri e falliti in partenza.
Per questo, quando i nuovi esponenti del minuscolo partito cultural vegano si erano presentati alle prime elezioni, lei li aveva votati e come lei molti altri. Ma i voti non erano stati abbastanza. Tuttavia una mini rivoluzione era cominciata e iniziavano a ricoprire sempre più ruoli politico-amministrativi. Il partito, che inizialmente si chiamava VIVAVERDI, sembrava al suo debutto non solo innocuo ma totalmente disinteressato al vero potere. L’unico vero scopo, dicevano, era riportare la cultura ai massimi livelli, dando valore ai giovani e ponendo attenzione ai drammi ambientali, promesse che avevano indubbiamente mantenuto. Una volta preso il potere con un colpo di stato le aumentarono di quattro volte il suo assegno mensile di studente, tramutandolo oltretutto in un lavoro a tempo indeterminato e assicurandole qualche pubblicazione. Per la prima volta in vita sua era ricca e aveva un impiego sicuro. Perciò quando il partito cominciò a deportare i grassi professori carnivori nelle riserve, svuotando le ipocrite e decadenti università, lei non solo non disse nulla ma addirittura con la scusa di festeggiare l’aumento di stipendio offrì una cena nel miglior ristorante vegano ai suoi genitori. Che vennero deportati anch’essi qualche mese dopo.
Tutto poi si era sgretolato in fretta. I primi esponenti del partito, quelli che nel pre-Regime avevano ricoperto i ruoli culturali e amministrativi portando avanti le prime campagne elettorali, per lo più erano stati fatti fuori. Corrotti – dicevano i nuovi capi. Troppi anni nella politica, via! Insomma, il potere era stato preso non tanto dai VIVAVERDI, il partito che comunque era stato votato, quanto da una branchia estremista nata in seno al partito, poi impazzita e diventata dominante.
Sfociata segretamente in un catarismo distorto e crudele. Dei vecchi vegetariani colti e miti restavano i più adattabili, quelli che avevano saputo piegarsi senza problemi a nuove e più estreme ideologie. Tutti gli altri erano stati uccisi nel corso dei primi anni della presa di potere. Ed eccoli lì, Maya, vincitrice dell’ambìto posto di studentessa di letteratura classica a tempo indeterminato, col ventre gonfio come una rana, senza più capelli né forza di ricordare. E l’altro, il buon Clemente, che si era bevuto il cervello e canticchiava Bach con lo sguardo vuoto.
Maya provava una sensazione adesso strana, quasi di libertà.
Erano alla fine, il sistema aveva perso. Lo sentiva.
Senza nessun preavviso, lui parlò: “Sono felice che il suo discorso proceda bene. Gli americani resteranno a bocca aperta. Parlerà anche di Aristotele? A loro, intendo agli americani, piace, piace perché non lo capiscono. Credo che solo i francesi siano in grado di comprendere Aristotele, così pragmatico e… categorico!” Clemente scoppiò in una gran risata.
Maya rise falsamente, per cortesia. Non si poteva davvero far finta di non aver capito la battuta sulle categorie. Poi mosse l’alfiere camposcuro con determinazione degna di un killer e lui piombò in silenzio. Spense addirittura la musica e si concentrò.
Da sinistra, veloci come faine arrivarono due uomini vestiti di verde chiaro, seguiti dall’asmatica Ilde. I due si fermarono di fianco alla scacchiera.
“Dottore”, ansimò il donnone, “una notizia terribile! Ptolomeo è stato trovato in stato di shock, disidratato, nel suo appartamento… È stato subito trasportato in una clinica specializzata ed ora sta bene ma è ancora traumatizzato. Si è aperta una procedura sul caso: lei è accusato di averlo trascurato in modo grave.”
“Io? Ma Miguel, mio marito…”
“Suo marito è stato trovato sul pavimento col cranio esploso. Si è suicidato. si rende conto di che shock ha subito il povero Ptolomeo? Pare sia poi rimasto tre giorni da solo con il cadavere. Che cosa orribile. Questi due agenti sono qui per consegnarle una multa.”
“Una multa?”
Maya li guardava perplessi. Il rinoceronte nel suo ventre continuava a dormire.
“Certo, ed è il minimo che le possa succedere! Per legge lei è obbligato a controllare la salute del cane due volte al giorno.”
“Ma era con mio marito. Non potevo sapere che proprio in settimana avrebbe deciso di suicidarsi!”
“Perché non ha chiesto notizie del cane?”
“Avevamo litigato, non ci parlavamo da qualche giorno…”
Ilde sbuffò e divenne viola. Era tornata a far da padrona. Persino le due guardie verdi la guardavano intimoriti. Appoggiò le sue manone sul tavolo facendo tremare tutti i pezzi della scacchiera.
“Avrebbe dovuto segnalare suo marito alla Polizia Verde visto lo stato mentale in cui è o meglio, era. Il problema di voi omosessuali, e io vi ho sempre comunque stimato per carità, è che siete troppo tolleranti nella vita di coppia. Lasciate fare finché non si arriva al limite ed ecco il risultato. Nemmeno preoccuparsi di Ptolomeo, se ha mangiato, se ha dormito! Gli animali domestici, che poveri dipendono ancora interamente da noi, si ritrovano smarriti, traumatizzati. Ah, lei non ha idea di quante brutte cose ho visto prima del Regime. Facevo la volontaria per cani e gatti abbandonati, quanti restavano imprigionati nelle case di gente che moriva… E nessun parente se ne accorgeva, anche per settimane. Terribile, straziante.”
Ilde alzò gli occhi al cielo come per invocare l’intervento degli Dei.
Era patetica. Maya cominciava ad essere veramente stanca. Il rinoceronte non si muoveva da due giorni. Forse era morto. Lei non aveva detto niente, altrimenti l’avrebbero sottoposta ad esami senza fine. Si augurava proprio fosse crepato, il mostro. Ci sperava dal primo giorno che l’aveva saputo dentro di sé.
Clemente disse con voce calma: “Una volta pagata la multa, potrò riavere Ptolomeo?”
A quella domanda, i due agenti si inalberarono.
Uno dei due sentenziò ad alta voce: “Secondo la legge, vista la totale violazione da parte sua delle norme previste per la cura di un cane in dotazione, d’ora in poi lei non potrà mai più ottenere l’affido di qualsivoglia animale. Anzi le sarà chiaramente concesso di esercitare ancora la sua professione ma le verrà negato ogni contatto extralavorativo”.
Così disse uno dei due agenti, mentre l’altro gli porse l’avviso.
Maya lesse sul viso di Clemente un enorme sollievo. Quell’uomo non amava gli animali. A stento forse lo interessavano. Per questo forse era impazzito. Doverli addirittura portare alla luce. Non fece nessuna domanda sul futuro di Ptolomeo. Restava lì, immobile, con un mezzo sorriso che nemmeno si dava la pena di nascondere. Si era definitivamente liberato di cane e marito.
“Il pagamento della multa le verrà decurtato dal suo stipendio ogni mese. Riceverà per posta il rendiconto delle sue entrate. Arrivederci e ricordi, d’ora in poi è sotto osservazione.” E come due soldatini di plastica, le guardie sparirono da dove erano arrivate.
Ilde, come una brava donna di casa, cominciò a mettere a posto. Spazzò in un sol colpo i pezzi via dalla scacchiera come fossero briciole. Addio partita e addio informazioni utili.
Tutto era tornato come prima, l’ordine era stato ristabilito.
Il donnone guardò Maya con occhi spiritati ma calmi, poi urlò qualcosa e subito apparve un’altra infermiera che la trascinò in camera sua con gelida cortesia.
Ilde rimase sola con Clemente: “Via anche lei, dottore, torni nel suo ufficio. Mi occupo io di far sparire i vostri giocattoli. Via, via!”
E così, scacciato come un bambino iperattivo, Clemente se ne tornò in ufficio. Era comunque dentro le tempistiche previste, addirittura in anticipo. Gli restava l’intera giornata per completare alcuni calcoli da consegnare verso sera al Segretario dei Perfetti.
Una volta seduto alla sua scrivania si accorse però di non riuscire a lavorare bene; qualcosa lo disturbava enormemente, addirittura era triste. Dopo qualche minuto di riflessione, capì perché. Maya aveva giocato male. Stava forse perdendo parte della sua intelligenza? Sarebbe stata in grado di fare il discorso in modo impeccabile? Lui aveva dato la sua parola ai Perfetti, puntando tutto su di lei. Doveva assicurarsi che negli ultimi giorni lavorasse senza sosta e al meglio.
Per questo decise di sorvegliarla.
IX
Nevicava.
Fiocchi sporchi, nerastri.
Erano partiti alle prime sinistre luci dell’alba su una camionetta blindata: Maya, Clemente e il donnone.
Ilde aveva l’aria contenta, canticchiava e guardava fuori dal finestrino.
Dopo mezz’ora, arrivarono in stazione.
“Eccoci al treno!” esclamò Ilde elettrizzata. Si aprirono le porte della camionetta e Clemente aiutò Maya a scendere dalla vettura. Davanti a loro, un unico binario e un lungo treno, in parte coperto dalla neve grigia. Urla da ogni parte. Centinaia di umani stavano venendo caricati a forza nei vagoni anteriori da diversi poliziotti in divisa verde.
Maya restava immobile davanti alla macchina. Osservava con sgomento quell’umanità disparata. Alcuni di loro erano seminudi, altri vestiti con stracci, volto e mani lerce da una probabile vita di strada. Altri ancora, quelli che gridavano più forte, che si opponevano con più energia, erano ben vestiti, floridi. Probabilmente qualche membro del Ministero che veniva eliminato assieme alle loro famiglie. Notò con orrore che c’erano diversi bambini.
Clemente sussurrò all’orecchio di Maya: “Prenderemo lo stesso loro treno. L’unico che va alle riserve. Fa tutte le fermate. Ad ogni sosta parte degli umani verrà fatta scendere e adibita alla riserva adeguata alle loro capacità”.
A Maya venne da ridere. Chissà quali ‘capacità’ si richiedevano a quei poveri disgraziati.
Che capacità poteva avere un neonato?
Scortati da due guardie procedettero a lato della folla. Ilde marciava spedita, come una regina accanto al suo popolo. Clemente invece sembrava inquieto. Forse si chiedeva tra quanto anche lui sarebbe stato stipato in un vagone merci e dato in pasto agli animali.
Superata la massa urlante, si trovarono all’inizio del treno. Un piccolo ensemble barocco suonava Vivaldi davanti ai vagoni di prima classe. Si impegnavano con vigore, quasi volessero coprire le urla dei disgraziati – e in parte vi riuscivano.
“Eccoci arrivati” disse Ilde soddisfatta. Mise i suoi piedoni uno dopo l’altro a fatica sulle scale del vagone e salì sul treno. Maya venne presa in braccio dalle guardie e caricata come una vacca, seguita da Clemente. La prima classe era elegante, bianca, sterilizzata.
Ilde, con inquietante cortesia la invitò a sedersi su una poltrona larga e comoda e le si accomodò accanto, ferma come una guardia. Il dottore si ritirò in uno dei posti vicino al finestrino. Maya lo fissò mentre il treno lentamente partì. Lui si guardava indietro preoccupato, come temesse di essere seguito.
Nell’ultimo mese non aveva fatto che spiarla da lontano. Non si erano quasi più parlati. Lei aveva lavorato al suo discorso con tutte le forze che le erano rimaste. Si era divertita, specialmente nell’ultima parte della dissertazione: riabilitare la figura di Caino le aveva, tutta sola, fatto toccare vette dialogiche sconvolgenti. Aveva anche avuto il permesso di ascoltare della musica e così, cuffie nelle orecchie e cotone intorno al cuore, era andata avanti un mese intero. Concentrata. Vigile.
Clemente, oltre a spiarla, aveva finito di progettare il suo esperimento. La festa si sarebbe svolta nella più grande centrale nucleare di Francia – ITER – un progetto colossale messo in piedi con l’aiuto della Cina e dell’India oltre che naturalmente dell’America. ITER era stato costruito diversi anni prima, quando la Francia si era dichiarata totalmente ecologista. L’idea di utilizzare solamente enormi quantità di energia nucleare, ora che si era riusciti a neutralizzarne le scorie, sembrava l’unica soluzione possibile per gestire le riserve e quel poco di umanità che restava. ITER era enorme, vi lavoravano oltre tremila persone. Visto che varie potenze mondiali avevano investito grandi somme, ITER veniva tutt’ora considerato un prototipo possibile per tutto il mondo. Ma a quanto pare Cina e India, plagiate dai monaci del Bhutan, cominciavano ad avere altre idee. Sicuramente a breve avrebbero mandato dei controlli. Magari delle piccole delegazioni sarebbero state presenti alla festa, anche se principalmente l’evento era dedicato agli americani.
Era preoccupato.
Non aveva avuto tempo per il suo esperimento, tutto era estremamente empirico e l’idea di farlo davanti ad un pubblico lo terrorizzava. Ma non aveva avuto scelta. Nelle ultime settimane inoltre una delegazione Perfetti si era presentata alla clinica tutti i giorni, chiedendo di vedere e rivedere le sue carte e facendogli perdere una marea di tempo. Più di una volta, andando a letto la sera, si era augurato di affogare di nuovo nelle acque del sogno e incontrare Balena che Cammina. Mai, mai più dopo quella volta aveva sognato ancora. A fatica dormiva due tre ore per notte. Avrebbe dato la sua carriera per sentire ancora una volta quella vecchia sui tacchi nell’acqua dirgli: “La metamorfosi è un processo logico e naturale, regola il mondo nei più piccoli dettagli”.
Stava per trasformare Maya in un rinoceronte. Forse solamente dopo Balena che Cammina sarebbe riapparsa. Ben presto sarebbe diventato importante quanto lei. Il primo medico a realizzare una metamorfosi. Guardò nuovamente fuori dal finestrino, questa volta con animo calmo. L’idea di fallimento veniva spesso seguita da deliri mitomani, facendolo passare dall’angoscia a una serena sicurezza. Anche il regime sarebbe sopravvissuto, anzi ne sarebbe uscito rinforzato. Al diavolo quei quattro monaci del Bhutan!
In quel momento entrarono i musicisti. Erano pieni di neve, ma felici.
Clemente fissò a lungo il direttore. Lo aveva incontrato più di una volta assieme a Miguel. Se non ricordava male, suo marito lo odiava. Probabilmente doveva essere molto talentuoso. Era un giovane di origini russe, sempre sorridente. Anche adesso, probabilmente accortosi di essere guardato, si voltò verso di lui e con insensata allegria, andò a stringergli la mano.
“Dottore, che piacere, l’ho intravista prima ma non ero sicuro…”
Clemente dopo qualche secondo di cortesia tolse la mano. Le dita del russo erano sottili e fredde.
“Piacere mio. Siete anche voi in viaggio per le riserve?”
“Veramente suoneremo alla cerimonia principale della festa.”
Già. Ora Clemente si ricordò che Miguel avrebbe dovuto essere lì, in quel momento, al posto del giovane russo sorridente. Dirigere il concerto in memoria del Giorno del Giudizio era sempre stato il suo sogno. Perché si era fatto saltare il cervello proprio alla vigilia della sua grande occasione? Cretino. Il referto dell’autopsia diceva che era completamente ubriaco al momento dei fatti. Chissà se quei giovani musicisti barocchi sapevano. Probabilmente il russo, scaltro e furbo, aveva intravisto un’ombra sulla sua faccia.
“Sono desolato per suo marito. Era un eccellente direttore.”
Sapevano. Oramai erano rimasti così pochi a Parigi! Una piccola comunità paesana.
“Non si preoccupi, è solo un umano e negli ultimi tempi non andavamo d’accordo.”
“Ah” sospirò il russo recuperando il sorriso. Gli altri musicisti nel frattempo si erano avvicinati. C’era qualcosa di singolare in questo piccolo gruppo di giovani. Erano contenti. Ancora coperti di neve, non avevano avuto nessun problema a suonare come un’orchestrina da sagra per il loro arrivo. L’arte per il Regime in qualsiasi forma, se ben fatta, era una benedizione. L’artista un umano graziato. E pagatissimo. E così i migliori musicisti di stato potevano suonare in qualsiasi occasione senza vergogna. Lo guardavano adesso, pieni di curiosità: era un medico del Regime, di quelli che facevano gli esperimenti? E le due donne deformi, chi erano? Maya era immersa nei suoi libri, probabilmente non si era nemmeno accorta della loro presenza.
“Cosa avete preparato per la Commemorazione?” chiese sinceramente incuriosito Clemente.
Il direttore si guardò attorno e sussurrò: “Purcell. Estratti da King Arthur e Didone”.
Russo paraculo. Aveva scelto l’unico celebre compositore barocco in lingua inglese, tanto per ingraziarsi gli americani.
“Ah benissimo, sono certo sarà un concerto straordinario. Ora se volete scusarmi, devo tornare al mio lavoro.”
Ciò detto Clemente si risedette, affondando la testa nei suoi appunti. I musicisti salutarono con rispetto le due donne e si accomodarono nel vagone successivo da dove, poco dopo, cominciò a provenire una celestiale musica di Bach. Sì, quel russo era davvero bravo e Miguel aveva fatto bene a tirarsi un colpo in testa, pensò Clemente guardando fuori dal finestrino.
Anche Maya aveva abbandonato i suoi studi per il panorama. Del resto non era mai stata nelle riserve. Aveva visto migliaia di documentari, letto centinaia di articoli, ma agli umani era proibito entrarvi, fino alla ‘chiamata”’ Nessuno, ad eccezione degli addetti ai lavori, faceva ritorno. Era un viaggio di sola andata. Chissà se i suoi genitori erano ancora vivi. Aveva ricevuto un paio di lettere dove sua madre raccontava di essere stata adibita alle mangiatoie per le giraffe. Del padre invece non si era più saputo nulla.
Sbadigliò e per completare il quadro pensò a sua sorella, deceduta sul lavoro un paio di mesi prima. Stavano morendo tutti. Il piano del Regime funzionava inderogabilmente. C’era chi moriva e chi invece subiva un lungo martirio. Il rinoceronte cresceva ad una velocità smisurata. Lei era ingrassata di quarantatré chili. Aveva smesso di nevicare. O meglio, il treno era entrato sotto un’enorme calotta di vetro che sostituiva il cielo.
Dunque era vero: il Regime aveva ricostruito sotto gigantesche bolle vari microclimi in grado di ospitare animali esotici. Per ora si trovavano ancora in un clima pseudo europeo. La vegetazione era fitta, sembrava di essere in uno dei boschi descritti nei libri medioevali: selva scura, uccelli e cervi dalle alte corna.
Tuttavia c’era qualcosa di strano e sinistro. L’erba era curata, il pelo degli animali pulito e luccicante. Maya vide grossi covoni di fieno distribuiti al limitare del bosco. La mano dell’uomo era ovunque: discreta, nascosta, assicurava ad ogni singolo animale il nutrimento e le cure per una vita perfetta. Un’umanità schiava delle bestie, pronta a sacrificarsi con fede razionale alla natura. Il futuro dell’uomo per il Regime era uno solo: ritornare, estinguendosi, alla terra madre. Gli animali non erano minimamente spaventati dal treno, che del resto procedeva ad una lentezza esasperante.
Improvvisamente si fermò.
Maya udì urla e ordini secchi. Poi sfilarono davanti ai loro vagoni una quarantina di umani tirati giù a forza dal treno. I soldati li spingevano avanti. Avevano volti neutri, contrariamente ai ‘prigionieri’ che guardavano disperatamente in tutte le direzioni alla ricerca di una via di fuga. Poi uno di loro tentò la corsa: uscì dalla fila pronto a gettarsi nel bosco. Dopo qualche metro venne raggiunto da due soldati che con gesti pazienti e annoiati lo riportarono nella fila. Si comportavano come guardie di bestiame da macello. Nessun odio particolare, ma neanche pena. Non si poteva dire che si limitassero a fare il loro lavoro senza farsi troppe domande. No.
La Polizia Verde era convinta della necessità dell’estinzione della razza umana. Loro stessi prendendo il servizio avevano giurato che una volta ‘inutilizzabili’ si sarebbero suicidati. Vero era che molti anche inconsciamente avevano accettato il lavoro per ritardare la morte. O per poi suicidarsi. Il suicidio non era sempre permesso a tutti. Maya ad esempio, fino a quarantacinque anni non avrebbe potuto, dato che il suo ventre doveva essere a disposizione. Molti umani venivano inviati nelle riserve per riparare ai danni fatti ed era loro vietato togliersi la vita. Inoltre molti segretamente speravano che quel folle Regime cadesse e nel frattempo tentavano di sopravvivere.
Dopo qualche minuto il treno ripartì.
Passarono sotto un’altra enorme calotta di vetro e si ritrovarono in una specie di steppa. Il paesaggio diventò monotono. In assenza di un vero cielo, nulla contrastava lo squallore della terra secca e grigia. Nessuna nuvola correva nel blu. Rocce, sabbia e un vento artificiale che spazzava i pochi arbusti sul terreno. Nessuna traccia di animali. Maya, annoiata, si chiedeva chi potesse vivere in quello spazio vasto e desolato.
Poi in lontananza vide due uomini correre. Tenevano con forza un fagotto. Il treno cominciò a rallentare e Maya poté osservarli meglio. Erano adesso piuttosto vicini e li vide adagiare con calma il fagotto a terra. Era una donna o meglio, una ragazzina.
Il treno si fermò.
La ragazzina uscì dalle coperte che la avvolgevano. Rideva, rideva forte. Nonostante i vetri blindati, le pareva di sentirla. Era nuda. I due uomini cominciarono a spogliarsi dei quattro stracci che tenevano addosso. E lì, nella sabbia, incuranti del treno, del vento artificiale e dei numerosi prigionieri che cominciavano a scendere, iniziarono a toccarla quasi con dolcezza. Lei, in ginocchio, prese in bocca il pene di uno dei due mentre l’altro cominciava a strusciarsi da dietro. Poi la sodomizzò. Con lentezza. I tre andavano ora all’unisono verso un unico orgasmo. Maya notò che la maggior parte dei prigionieri che venivano fatti scendere facevano finta di non vederli; nemmeno i soldati sembravano interessarsi a quella piccola orgia. Procedevano spediti verso una direzione precisa, oltre alcune colline di sabbia.
“Dietro a quella collina si trova una delle più grandi centrali geotermiche mai costruite. Gran parte dei lavoratori è destinata lì, dato che ancora non ci sono macchine in grado di rimpiazzare gli umani. Ma ci stiamo lavorando” disse Clemente. Si era avvicinato al loro finestrino e guardava i soldati sparire dietro la collina con i prigionieri. Maya invece non riusciva a staccare gli occhi dai due uomini e soprattutto dalla fanciulla, che sembrava in estasi. Era magra, sporca. I suoi lunghi capelli neri coprivano in parte la fellatio.
“Ah, ah, il sesso! E chi se lo ricorda più!” esclamò inaspettatamente Ilde interessandosi alla scena. Pareva una vecchia suora che guardava due adolescenti baciarsi. Rideva.
Poi distolse lo sguardo e si fece seria: “Dottore, quanto manca alla riserva degli Yak?”
“Temo dovremo fare una piccola deviazione e prendere una carrozza. Ma come promesso saremo lì a breve” disse lui con fare conciliante.
Il treno ripartì.
Maya vide la fanciulla staccare la testa dal cazzo dell’uomo, forse distratta dal rumore delle rotaie. Li guardava adesso, con le labbra piene di sperma e un sorriso innocente. L’uomo che la stava inculando non smetteva di martellarla, ma sembravano immobili. Figure congelate nel tempo. Ferme in una steppa senza cielo. Clemente staccò la testa dal finestrino e la fissò.
“Non si preoccupi, vengono tutti sterilizzati prima di entrare nelle riserve. Il genere umano è talmente perverso da non legare il sesso alla riproduzione e secondo le statistiche una volta in natura gli uomini tendono ad aumentare il loro desiderio sessuale. Vista l’enorme quantità di umani impiegati tutt’ora nella manutenzione degli impianti, per evitare incidenti il governo ha adottato una soluzione finale per i condannati. Abbiamo comunque preferito donare una libertà che reputiamo creativa, il sesso, anziché ridurli ad automi. Abbiamo sterilizzato e non castrato.”
“Sempre meglio prevenire. Ci mancano solo dei piccoli selvaggi umani in giro per le riserve a disorientare i nostri poveri cuccioli” sentenziò Ilde, tirando fuori dalla borsa un mattone di tofu fresco e ingollandolo senza ritegno. Sbavava.
Il rinoceronte nella pancia di Maya si agitò. Poco.
Ma fu una scusa sufficiente per mettersi la mano sul ventre e chiudere gli occhi.
E rivedere quel sorriso. Qualcosa in quella ragazza l’aveva sconvolta: la sua allegria, la sua innocente indecenza, l’abbandono estatico pornografico davanti a decine di persone, con gioia.
X
Il treno ora correva veloce e Maya realizzava la verità. La verità non è mai pura, né semplice. Forse il Regime aveva ragione: una volta in natura l’umano non sapeva come comportarsi. Sterilizzato, senza famiglia e senza nome, si lasciava essere carne priva di ragionamento e morale. Sarebbero morti tutti. Erano schiavi, costretti a lavorare e dormire in luride baracche. Dopo massacranti turni di lavoro, era questo ciò che facevano per divertirsi?
Non era nemmeno un atteggiamento bestiale. In qualche modo era identico alle vite di prima per molti nelle città, nei paesi. Lavoro coatto e depravazione nei momenti liberi. Solamente, qui non c’erano locali, case, coperture. Chi era quella gente? Ricordavano qualcosa della vita di prima? Da quanti anni erano qui?
Decise di dormire. Era stanca, esausta. Uno dei fastidi e al contempo benefici della gravidanza era un perenne stato di sonnolenza.
Scivolò nel torpore.
Venne svegliata in modo brusco da Ilde, che quasi le stritolò un braccio: “Forza svegliati, siamo arrivati finalmente!”
Maya aprì gli occhi.
Non erano più nella steppa ma in un mondo innevato. Si sarebbe detto un piccolo Nepal. L’assenza di un vero e proprio cielo era compensata dal riflesso della neve sui vetri della grande calotta di vetro che ricopriva quel mondo fatto di piccole montagne striate di bianco.
Ilde, non appena il treno si fermò, si precipitò all’uscita. Clemente invece aiutò Maya ad alzarsi.
“Non siamo ancora arrivati al luogo della commemorazione. Ho promesso all’infermiera Ilde che ci saremmo fermati qualche momento alla riserva delle nevi per salutare suo figlio.”
Maya strabuzzò gli occhi: “Lo yak?”
“Sì, sì, Arjuna” disse impassibile Clemente. “Venga, si appoggi a me, scendiamo. Non si preoccupi, non dovrà fare troppa fatica. Sta arrivando una carrozza che ci porterà direttamente al luogo dove dimora lo yak. Vedrà, le piacerà. Questa è una delle nostre migliori riserve, la vegetazione ha attecchito alla perfezione e gli animali si riproducono senza problemi.”
Maya notò che nessun prigioniero era stato fatto scendere. Forse in quel paesaggio così perfetto non dovevano comparire umani. Era comunque impressionante. Sotto un’altissima calotta erano state ricostruite in miniatura montagne, sassi, radure, neve. Quanto denaro era stato investito in una simile impresa?
Era mostruoso e meraviglioso al contempo. La Francia era diventata un’immensa arca di Noè in terraferma, dove migliaia di specie stavano ritrovando la possibilità di vivere. Per un attimo la sua mente vacillò. Avevano ragione loro? Clemente stesso le appariva ora diverso. Dentro Coronide sembrava un pericoloso psicopatico mentre qui, in questo mondo creato da gente come lui, immerso nel suo risultato, le appariva quasi normale. Si muoveva in modo consapevole. Anche adesso le era accanto sorreggendola appena, quasi con dolcezza.
Le sussurrò: “Sa, qui abbiamo ormai una vasta comunità di leopardi delle nevi, specie praticamente estinta. Siamo riusciti a salvare gli ultimissimi esemplari e qui hanno trovato la pace. Se avremo fortuna, potremo vederli a breve”.
Dunque era così. Loro, i ministeriali, credevano veramente nel loro progetto. Clemente, che non aveva visto l’ora di liberarsi di cane e marito, guardava ora con dolcezza le timide volpi che li fissavano a distanza. Sembrava addirittura felice ed emozionato.
“Da un po’ non vengo nelle riserve. Devo dire che tutto funziona benissimo, sono piacevolmente sorpreso” le disse a bassa voce.
“Ah, ecco la carrozza!” esclamò Ilde quasi ringhiando.
Maya vide avanzare un gruppo di uomini legati tra loro con briglie e lacci di pelle nera. Erano sei. Una carrozza a sei uomini. Un settimo sedeva al posto del conducente e frustava con vigore i tiranti. Quando si fermarono, poté leggere negli occhi di tutti e sei un crescente terrore: le stavano mentalmente pesando, lei e Ilde. Due enormi fardelli da portarsi a suon di frustate sulla montagna.
Maya, presa da sinistra pietà per quei disgraziati, chiese ad alta voce: “Non sarà rischioso per il feto? Sobbalzare su una carrozza nel mio stato….”
“Sciocchezze!” esclamò Ilde, “E come hanno fatto allora tutte le donne fino all’avvento delle maledette automobili? No, cara, per secoli femmine gravide hanno usato carrozze e spaccato la schiena a migliaia di cavalli. Ora tocca a questi qui!”
E così dicendo montò a bordo della carrozza. Clemente la aiutò a salire e quando anche lui fu dentro, chiuse la porta. Il cocchiere scoccò la frusta e partirono.
La fatica era percepibile dalla lentezza con cui procedevano; inoltre i poveracci correvano a piedi scalzi. Nonostante procedessero quasi a passi d’uomo, Clemente e Ilde non sembravano spazientirsi. Osservavano rapiti il panorama. Avevano ora cominciato a risalire una piccola montagna. Ad un certo punto Maya vide delle case in legno e delle tende colorate. Stupita, si sporse dal finestrino. Quando furono più vicini, constatò che erano abitate da uomini.
Ma non erano schiavi sporchi e sofferenti. Le sembravano piuttosto autentici nepalesi. Vestiti di rosso e oro come nella tradizione himalayana, quella piccolissima comunità, senza minimamente badare al loro passaggio, continuò a restare immersa nello svolgimento dei propri mestieri: chi cucinava, chi tagliava legna e verdura, chi se ne stava con lo sguardo fisso. Fu come piombare al centro di una montagna fatata ed immobile nel tempo.
Cosa ci facevano degli umani lì, ben curati, vestiti con abiti tradizionali, quasi contenti?
Clemente, adagiato comodamente nella carrozza, le spiegò che vari esponenti del Regime anni prima, al momento della creazione di quella riserva, si erano recati in Nepal e Bhutan per studiarne la flora, la fauna e la riproducibilità animale. In accordo con i due paesi avevano poi selezionato vari esemplari di yak allevati nelle piccole comunità dall’Himalaya, per essere importati nelle riserve sperimentali in Francia. Tuttavia i padroni degli yak non avevano voluto saperne di separarsi dai loro bovini. Piuttosto li avrebbero seguiti in un altro mondo. Estimatori di quel legame ormai raro e imprescindibile, gli esponenti del Regime acconsentirono con gioia all’importazione di yak e autentici umani himalayani nelle riserve. Chissà se all’epoca i nepalesi si erano resi conto che da allora in poi avrebbero vissuto senza cielo… Maya guardò le capanne ben fatte di quella gente che sembrava a proprio agio in mezzo ad una natura completamente artificiale.
Clemente di nuovo le fece da guida nei suoi pensieri: “Vede, in Himalaya oramai moltissime piccole popolazioni stanno scomparendo a causa dello scioglimento dei laghi nei ghiacciai. Il paradosso è schiacciante. Nonostante queste persone non abbiano mai fatto nulla per incrementare l’inquinamento e le emissioni dei gas, sono state travolte dall’innalzamento della temperatura climatica molto più di noi europei. I loro villaggi hanno subito inondazioni e arsure. In poche parole, ormai buona parte dell’Himalaya è invivibile. Anche per questo sono venuti qui. Per salvarsi insieme agli yak”.
“Quindi il Regime li considera un’umanità pari agli animali. Un ritorno all’età dell’oro, dove le specie possono convivere in natura? Per questo in fondo li avete portati qui?” chiese Maya allibita.
“Non esageriamo” rispose Clemente distogliendo lo sguardo.
Intervenne la voce stridula di Ilde: “La verità è che sono stati portati qui per far adattare meglio gli yak, ingenua! Pensa a questi poveri grandi animali, così sensibili, costretti ad un lungo viaggio via mare e ora lontani migliaia di chilometri da casa, senza un …cielo! Non so se vi rendete conto di cosa possa significare…”
E prima che il donnone si lanciasse in uno dei suoi discorsi senza fine, fu interrotta da Clemente: “Il Ministero pensò all’epoca che la compagnia degli uomini che li avevano cresciuti e allevati avrebbe potuto facilitarne l’adattamento”,
“Capisco” disse piano Maya. Ilde si era rimessa a guardare ansiosamente fuori dal finestrino. Avevano ormai superato le case e quella piccola comunità felice.
Lanciando loro un ultimo sguardo, Maya non poté trattenersi e chiese sottovoce a Clemente: “Anche loro, questi uomini che avete portato dal Nepal, sono stati sterilizzati?”
Il medico annuì. Ed entrambi piombarono nel silenzio.
Gli uomini che tiravano la carrozza annaspavano e si lamentavano sommessamente. La frusta prese a schioccare feroce: era iniziata la vera salita. Dopo un tempo indefinito, dove Maya si sentì in colpa ad ogni passo dei disgraziati, eccoli al luogo convenuto. Lo capì guardando le pupille di Ilde: si dilatavano.
Stava raggiungendo suo figlio.
La carrozza si fermò.
Quando scesero, Maya notò che a stento gli uomini-tiranti stavano in piedi. Venne dato loro da bere. Girò una grossa ciotola di latta, grande e pesante. Colma d’acqua. Bevettero con avidità. Stava lì, impalata, a fissarli.
Clemente la tirò per un lembo del suo vestito, allontanandola dagli uomini. Avevano l’aria minacciosa e li guardavano con odio, si sarebbero detti pronti ad azzannarli: ma erano troppo deboli. I piedi sanguinanti, braccia e schiena logorate dai segni dei lacci e delle briglie. Cosa mai avevano combinato per essere costretti a fare da soma a sconosciuti? Forse alcuni di loro avevano gestito macellerie equine, molto in voga a Parigi prima del Regime.
Ilde li fissava sprezzante. Sadica com’era, non poteva che rallegrarsi del loro stato.
Poi, come chiamata da una forza segreta, guardò in alto verso le pendici della piccola montagna dove si erano fermati.
E lo vide.
Arjuna, suo figlio, accompagnato da un paio di umani in abiti nepalesi, stava scendendo il declivio. Maya osservò Ilde andargli incontro. L’infermiera aveva cominciato a camminare in salita, incurante della fatica e del suo corpo affannato. Tutt’a un tratto, le parve inaspettatamente radiosa. Durante quella lenta camminata verso l’essere che più amava al mondo, perdeva tutta la sua mostruosità; passo passo diventava leggera, alta. A Maya sembrò di vederla prima della gravidanza. Una donna fiamminga, forte e fiera, dall’occhio chiaro e già folle. Ma bellissimo. Finalmente arrivò di fronte al bue muschiato, suo figlio. I due uomini che l’accompagnavano si fecero da parte per lasciare a quel saluto la dovuta intimità. Quando Ilde abbracciò la testa di Arjuna, Maya a stento trattenne una lacrima. Persino lo yak sembrava emozionato: guardava immobile Ilde, coi suoi occhi grandi e bovini.
Clemente appoggiò leggermente la testa sul collo di Maya, sussurrandole all’orecchio: “Quello non è Arjuna. Il vero yak di Ilde è morto poche settimane dopo il parto per problemi nutrizionali. All’epoca si decise di insabbiare il caso: la gravidanza era stata comunque portata a termine, non si doveva creare sfiducia nelle nuove partorienti. Ilde ovviamente non sa nulla. È convinta quello sia suo figlio. Uno yak vale l’altro, a quanto pare. Noi umani non siamo così sottili da saperli veramente distinguere. Nemmeno la presunta madre”.
Maya sentì bruciarle gli occhi, come se le lacrime indignate si fossero ritirate in profondità, facendole male.
“So che ci reputa mostri venuti a distruggerle la vita”, continuò Clemente, “ma le assicuro che invece sto facendo il possibile per risparmiargliela. Nemmeno io ho nulla da perdere: dopo l’esperimento potrebbero osannarmi oppure uccidermi e non posso prevedere cosa succederà. Ma intendo provare a salvarla, Maya.”
Clemente si udì dire queste parole e fu felice: negli ultimi tempi aveva perso di vista il suo obiettivo, preso com’era dai catari e dalla loro fretta di trasformarsi in animali.
In fondo lui aveva cominciato l’idea dell’esperimento su Maya perché era stanco di lasciare morire donne inutilmente: tanto più che ora, alla vista delle riserve così floride, riteneva ancora più superfluo proseguire quegli assurdi esperimenti. Le specie in estinzione si sarebbero salvate comunque, senza ficcare feti nei ventri di ragazze destinate per questo ad una morte atroce. Lasciò Ilde coccolare il falso cucciolone una buona mezz’ora e andò a farsi una passeggiata. Maya si era seduta su un sasso poco distante.
Davanti a lei c’era una grande pozzanghera dove poteva perdersi. Contrariamente a Narciso, contemplava stupita la sua mostruosità. Spalancò la bocca e appurò che aveva perso anche i denti davanti. Ormai sembrava una vecchia divorata da qualche malattia incurabile. Quella visione le fece talmente male che mise mano alle pillole che portava sempre con sé in caso di emergenza. Calmanti rapidi contro crisi di panico. Ne ingoiò un paio e deglutì forte. Dopo qualche secondo si perse nuovamente nell’acqua sporca. Le sembrò di sciogliersi lentamente in quella visione melmosa. La depressione e la rabbia stavano via via scomparendo, lasciando il posto ad un’indifferenza che conosceva bene.
D’un tratto sobbalzò: un’altra figura era ora nell’acqua accanto a lei. Alzò gli occhi e lo vide. Un ragazzo giovane, forse diciassettenne, vestito completamente di nero.
Sguardo fisso, pupille puntate. Su di lei. Fermo, immobile. Era bello, scavato, consapevole. Un’età presente. Partì nella testa di Maya un pezzo di Scarlatti. Domenico. Sonata in D maggiore KK96. Lui la guardava. Lei si vide allo specchio, anni prima.
“Sei tu Maya?”
Era come se la voce di quel ragazzo battesse i tasti di un pianoforte ad ogni sillaba.
Suonava le parole. Precisamente.
“Sì” rispose lei con la stessa purezza.
Un bel silenzio si installò. Pacifico.
Poi lui disse: “Non vediamo l’ora di sentire il tuo discorso sul vegetarianesimo in età classica. Nel giornale on line delle riserve c’è scritto che partirai dai presocratici, con accenno particolare a Pitagora. Che personalmente adoro”.
Fece una lunga pausa. Sempre guardandola.
“In generale noi tutti amiamo i presocratici.”
“Noi chi? Se posso…” chiese lei curiosa coprendosi con la mano la bocca, ora che si sapeva tanto mostruosa.
“Non saprei come definirci” disse lui senza mai staccare lo sguardo.
“Siamo dei giovani attivisti europei in esilio. La Francia ci ospita da cinque anni. Viviamo nella Centrale Nucleare.” Pausa. “Hai mai sentito parlare del collettivo Wake Up!?”
Maya si rabbuiò. Certo che sì.
Wake Up! era stato un coraggiosissimo tentativo di far ragionare i governi sull’inquinamento. Maya se ne ricordava bene. Circa otto anni prima una bambina svedese di nome Gaia, angosciata per il cambiamento climatico, aveva cominciato a scioperare davanti al parlamento anziché andare a scuola. Ben presto giovani e giovanissimi di tutto il mondo avevano cominciato ad imitarla, generando forse il più grosso movimento ambientalista dell’ultimo secolo. Maya aveva seguito tutti i discorsi di Gaia, che all’epoca le era parsa come una sorta di Giovanna d’Arco, l’adolescente venuta a svegliare un’umanità crudele e sonnolenta.
Tuttavia dopo qualche mese, forse un anno, di gloria in cui tutti i social e i media avevano dato spazio e attenzione al collettivo, erano stati dimenticati. Sepolti dagli stessi governi che cercavano di far ragionare.
L’Unione Europea aveva addirittura vietato qualsiasi pubblicazione sull’argomento, accusando i giovani di istigazione al comportamento negativo. I governi avevano capito che la soluzione migliore per liberarsi di loro era infangarli ed in seguito ignorarli. Del resto in quel periodo l’Europa era sommersa da ondate di odio, razzismo e malattie dovute allo scioglimento del Permafrost. Ogni nazione voleva ritornare indipendente e ogni tentativo di comunicazione globale veniva guardato con sospetto.
Chissà se esiste ancora l’Unione Europea, si chiese Maya senza lasciare il giovane con lo sguardo. Tutti questi pensieri le facevano vorticare la testa. L’immagine del ragazzo cominciò a diventare intermittente. Andava e veniva.
Lui però continuava a fissarla con grande intensità. Poi di nuovo la sua voce.
“Tutto bene, Maya?”
“Sì sì…” disse lei riprendendo il controllo, “ e certamente, mi ricordo del vostro collettivo. Anche se non sapevo foste tutti qui nelle riserve.”
“Sì.”
Lungo silenzio, poi il ragazzo riprese: “Qui stiamo bene, continuiamo i nostri studi e penso che il tuo discorso ci aiuterà a capire perché l’umanità ha preferito razionalizzare anziché seguire i primi insegnamenti filosofici legati alla natura. I più antichi. Parlerai anche di Eraclito?”
Lei annuì, incredula.
Erano anni che non vedeva qualcuno così. Libero. Interessato al presente. Fiducioso in un futuro creativo. Il rinoceronte si svegliò e, crudele, si rigirò su se stesso. Lei sentì come se un enorme cucchiaio le stesse scavando l’utero. Vide il volto di quel ragazzo, fino ad ora bello e immobile, preoccuparsi. Osservò i suoi piedi affondare nella pozzanghera per correre verso di lei.
E un attimo dopo si sentì cadere a terra come un sacco di pietre.
Buio.
Immagine di copertina: Opera di Mihaela Suman.