Alì il Calabrese- parte prima (Daniele Natali da Caminia)

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Guardarono le loro catene per l’ultima volta.

Era l’anno in cui regnava Selim II, Sultano sfortunato.

Costantinopoli era appena sveglia, che già una nave che batteva la bandiera verde con mezzalune d’argento, era attraccata nel porto e tra tutto l’equipaggio, solo un uomo, ben vestito, era sceso a terra.

Il Sole si levava come un uomo in preghiera e pareva dire impudico alla Luna, nei suoi ultimi momenti di trasparenza: “si cchiù beddha tu di ‘na cirasa”, per congedarla, senza sforzo.

La città dei mille imperatori sopra il suolo e sotto fremeva in quelle ore di risveglio: in alcuni bassi, dei contrabbandieri preparavano loschi affari, mentre alle porte, furtivi, la polizia del Sultano e alcuni giannizzeri in divisa, aspettavano le loro prede.

Arresti, tanti in quei giorni, si preparano le catene, in quelle prime ore del mattino; se si vogliono profitti “facili” e veloci, è possibile la via del mare, il bottino, il saccheggio, la “guerra santa”, la criminalità viene vista come una scusa, una diserzione, un non voler prender parte ai disegni dell’Impero, alla guerra di corsa legalizzata e la tortura, la detenzione, la schiavitù anche e la morte, sono le cure per i criminali, quanto per i nemici dell’Impero.

Alcuni mercanti genovesi, passeggiano tranquilli nel Porto, fischiettando, mentre vedono l’uomo sceso dalla nave e lo squadrano nel suo incedere, le loro facce sono di pietra, hanno visto un fantasma oppure una delle personalità più celebri di tutto il Mondo Ottomano. Persino il bailo veneziano, il referente della Serenissima, nel cuore, nella tana del leone avversario, affacciato al suo balcone, sulla costa di Pera-Beyoğlu, (che proprio da “bailo” prende il suo nome), ha notato con una lente quell’uomo, forse già visto, sicuramente riconosciuto, dal suo balcone.

 

Estambul, per gli Spagnoli, Kostantiniyye, nei documenti ufficiali ottomani, avvolta ancora in questo silenzio magico, è questo il Centro del Mondo, nuova Palmira e Gerusalemme, su cui si fonda l’Impero che si sente diretto erede della Romanità e dell’idea di un Impero Universale, ancora molti alti gradi della Politica, che si svegliano in questo momento, vengono dall’èlite bizantina o da cristiani convertiti all’Islam, o sottratti alle loro famiglie, per avere nuovo ossigeno nella capitale e depotenziare possibili rivolte provinciali.

Tutto è studiato per mettere in risalto la nuova veste del Sultano basileus, Kayser-i Rum Imperatore dei Romei, in senso più lato, dei Romani, a scapito del passato nomade dei Turchi, del quale rimangono superstiti la cavalleria leggera e le tende da campo, principesche.

Da Yenikapi, dove ha lasciato la nave, l’uomo benvestito, si muove verso Est, costeggia una tra le marine (“marina” in Turco) più trafficate del mondo, vicino il quartiere chiamato “Fatih”, (Vittoria), a ricordo dell’assedio di Costantinopoli.

Si trova sul piccolo corno più importante e più pericoloso del Continente Europeo, il “Corno d’oro”, proiettato verso quello asiatico, come la mano di un questuante, verso le altrui ricchezze.

Sulla proiezione di questa sporgenza, vicino l’Arsenale, spunta dal terreno e da strette viuzze, la Torre di Galata, costruita dai “Ceneviz”, i genovesi, tantissimo tempo fa, sul punto dove si collegavano gli estremi delle catene indistruttibili del Porto, che i Turchi per entrare in città, aggirarono trasportando a piedi l’intera flotta, in una notte sola.

Nel 1502, Bayazid II, da quel corno, chiese a Leonardo da Vinci, il progetto di un ponte per collegare quelle terre con la lontana sponda asiatica, che non andò in porto, come l’invito di Michelangelo Buonarroti ad Istanbul per lo stesso motivo, che declinò l’ospitalità, inviando un bozzetto del progetto.

Su quel corno, immaginato da grandi artisti, col ricordo in testa di quelle e di altre catene, l’uomo intravede il Dikilitaş, l’obelisco del faraone Tutmosi III, eretto da Teodosio, nell’ippodromo di Costantinopoli, gli antichi geroglifici, celebranti una volta l’Egitto, poi Roma, ora l’Impero Universale dei Sovrani Ottomani, attrae la fantasia puerile dell’uomo di guerra, che ripensa alla sua casa lasciata e alla grandezza dei popoli mediterranei, a cui appartiene.

Guarda il palazzo di Ibrahim Pascià, ancora di moda all’epoca e sogna di possederne uno anche lui, un palazzo dove abitare stabilmente con sua moglie, in pace, quando sarà ormai stanco di cacciare tesori sul mare.

Si vedono da lontano i minareti dalla moschea del grande Solimano, mentre la passeggiata tra le bellezze, continua con Aya Sofia, Santa Sofia, chiesa antichissima, ora moschea, più volte imperiale, ancora regina sul mare, nonostante il suo cambio di religione e la sua conversione, quasi fosse una sovrana talmente grande per poter stare chiusa nell’harem, fissa gli Imperi vecchi e nuovi e ammonisce il Sultano nel suo Governo.

Prima di arrivare nella sua destinazione al Palazzo Topkapi, cuore dell’Impero e dei mondi, l’uomo del mare, tra obelischi, ippodromi e moschee gigantesche, passa vicino un altro luogo dalla bellezza inaudita.

E’ il Palazzo dei Cesari, di fronte Aya Sofia, assediato dagli invidiosi crociati europei, con parte degli arredi venduti da decadenti sovrani ricordati da mosaici e già in rovina duecento anni prima della presa di Costantinopoli, manteneva quel giorno tutto il suo splendore, di illustre rovina; qui il primo Sultano della Città, festeggiò il suo trionfo e qui qualche anno più tardi da quella passeggiata, parte di quei ruderi, sarà finalmente seppellita, trovando pace, dall’imponente mole della Moschea Blu, centro della nuova spiritualità ottomana, dove i Sultani avrebbero avuto una cappella personale, raggiungibile direttamente a cavallo.

La Moschea di un Dio che governa il Mondo con le radici sul Palazzo di chi lo ebbe in eredità dagli spietati Romani, sarà progettata da Mi’mār Sinan (l’Architetto Sinan), che diventerà amico dell’uomo di mare, nonché costruttore della sua moschea.

 

 

La città è ormai sveglia. E’ totalmente diversa, dissonante dai suoi monumenti eterni, che l’odore ed il sapore di qualsiasi pietanza del mondo, rigettato su quelle vie antichissime, da sottili pani al miele del Marocco, alla pasta al pesto, dolci importati dal Nord Europa, pietanze di ebrei olandesi, alla carne arrosto, cornetti francesi e specialità indiane, africane, la scuote con un terremoto rumoroso di sensi.

Giocolieri, giovani che stupiscono la popolazione con enormi forme di fuoco, nacchere, chitarre, violini, flauti, oud, arpe, donne col velo e prostitute mezze nude, alcune hanno al piede delle pesanti catene.

 

Due signore turche parlottano tra loro dicendo: “Noi gliele lasciamo costruire le chiese! Però se uno dei nostri prova a costruire una moschea “a casa loro”, lo fanno fuori! Come trattano le loro donne, sono rimasti al tempo di Adamo ed Eva! Mangiano maiale, senza spezie profumate, è normale che puzzino! Noi quando andiamo da loro, dobbiamo toglierci il velo, ma loro da noi non lo mettono… Questi qui, ci porteranno la guerra in casa nostra!”

 

Da Beyoğlu, l’altra riva, tipicamente abitata da “stranieri”, da schiavi liberati o migranti dall’Europa cristiana, i suoni più acuti giungono al Corno d’Oro, sono suoni più giovani, incerti eppure vengono da lontano. “Pesce! Pesce!” gridano alcuni pescatori italiani, facendo sorridere l’uomo di mare, una voce in turco ma con l’accento napoletano lo raggiunge :“Assaggiate! La vera graffa del Pirata Barbarossa!”

Al solo sentire il nome di quel pirata, che conobbe di persona, gli gelò il sangue, pensò: “… ha riempito galee cariche d’oro e fin lì è normale… Chi di noi, non riempe le proprie navi di tesori! In una di quelle navi ci finii anch’io… tra tremila calavresi incatenati ed imporiti, fummo attraccati con la nave, poco distante da dov’è la mia. Sento ancora le frustate… Ma non doveva rapire duecento suore d’Italia, per far regalo al Sultano Solimano di duecento vergini! Cos’è questa terra, il Paradiso? E chi lui? Gabriele?! No, le suore non si toccano, la gente di Dio non si tocca! Para mai!

Barbarossa, dopo a quello morì di febbre gialla… e grazie! Fu dardo divino! Allah non dimentica. Il pirata che mi portò in questa terra di fortuna, pagò da Dio stesso, la profanazione e le mie frustate”.

Detto questo tra sé, raggiunse il Palazzo.

 

Poco distante da là, intanto, nel palazzo del suocero dell’uomo pensieroso, Giafar Pascià, non si va leggeri con la frusta.

E’ stato trovato un uomo con un carretto, maneggiare strano materiale chimico, voleva provocare un’esplosione o un incendio, sotto casa del militare.

La questione ha assunto grande rilevanza, quando l’uomo, senza complici nelle vicinanze, catturato e spogliato, ha rivelato sulla schiena un tatuaggio: è un emblema con tanto di Toson d’Oro, gigli francesi e simboli portoghesi ed aragonesi, contro ogni dubbio, sotto il disegno, è la scritta “NON·SUFFICIT·ORBIS” (“Il Mondo non basta”), è il motto di Filippo II di Spagna; l’incatenato è una spia!

 

Tra le campane dei cristiani, il richiamo alla preghiera dei minareti, gli inni ortodossi provenienti dalla chiesa Theotokos Pammacaristos, non ancora trasformata in moschea e centro spirituale degli ortodossi dell’impero, trovano la loro collocazione il cinguettio degli uccelli dei giardini porticati del Palazzo del Sultano ed il rumore dei tacchi degli stivali dell’uomo che all’ingresso del palazzo si è così presentato sono “Ulug Alì, il rinnegato, capitano Corsaro, Servo Fedele di Dio e di Sua Maestà”.

Servo fedele e rinnegato, alle orecchie di un non turco può suonare strano, eppure quanti ce ne furono!

 

 

Il Corsaro era emozionato, ripeteva tra se e se ciò che aveva premeditato per il suo dialogo col Sultano, si sentiva fortunato e preoccupato allo stesso tempo.

Da persona non andata a scuola, che ha incontrato la scrittura e la lettura solo in tempi recenti, per una comprensione migliore della nuova religione, non sapeva cosa fossero gli esami, eppure si sentiva teso, quasi avesse dovuto sostenerne uno.

I piedi gli tremavano negli stivali.

 

 

 

Rumori religiosi e deliranti, arrivano alle sue orecchie, col rintocco potente delle campane di bronzo.

“Pentitevi!” Alcuni personaggi in catene, con dei vestiti di stracci, le barbe lunghe e puzzolenti, camminano gridando: “Pentitevi! Il Regno di Dio è vicino! L’opulenza di questa città ricadrà sui vostri figli!!!”.

E di opulenza si può ben parlare. Il Corsaro di Sua Maestà il Sultano, indossa vesti sopraffine, è armato fino ai denti di armi costose e predate al nemico, ma senza dilungarsi troppo, basta notare le sue calzature per capire il resto del suo abbigliamento.

I suoi stivali sono di rosso velluto, vengono direttamente dalla Siria, che è la perla dell’Impero ottomano, laboriosa, pacifica, piena di vitalità intellettuale e commerciale; i fili d’oro con cui sono intessuti, vengono dal Portogallo, è uno strano giro, ma siccome gli europei non hanno di che pagare l’oppio alle popolazioni asiatiche, con manifatture che interessino a quei Popoli, sono costretti a far affluire tramite le carovane del Maghreb, attraverso i territori degli Ottomani, immense quantità di oro provenienti dalle Americhe, fino in India e l’attuale Pakistan.

Dall’India nuova alla vecchia, a soddisfare la sete di sangue degli europei da un lato e di sfizio dall’altro, con un re Filippo II, il Cattolicissimo, che ha assunto la Corona del Portogallo per ragioni dinastiche; il Cattolicissimo Filippo, nemico numero uno del Sultano e del padrone degli stivali è a capo di un traffico internazionale di stupefacenti! Buona parte di quell’oro si ferma prima, nelle commissioni dei carovanieri e alcuni lingotti finiscono nelle mani di orafi libanesi, che ne fanno dei fili per tessere; alcuni di questi raggiungono la Siria per decorare stivali preziosi.

 

I tacchi ed il loro padrone si fermano, sono uno, dieci, venti, trenta guardie, che riconoscono l’uomo, il suo grado militare e lo fermano per salutarlo “At-ten-ti”.

L’uomo, Ulug Alì, schivo alla fama, risponde in maniera frettolosa con i primi “Riposo”ma i continui “At-ten-ti”, “Riposo”-”At-ten-ti”-”Riposo”, lo fanno sbottare con un:

“Mannaja a mmia e a ccu mu ficia fara, ma vegnu ccà stamatina!”, smorzando il suo entusiasmo.

Passa alcune sale e prima della porta che lo divide dal Sultano, gli viene intimato di disarmarsi da una ventina di guardie e giannizzeri, che prima, naturalmente ha dovuto salutare con un disaffezionatissimo, quanto mai formale e ripetitivo “Riposo”.

Il Sultano Selim II, che era solo sul trono del Sultano a girarsi il pollici, con la lingua fuori dalla bocca, visto l’impegno, è felicissimo di vedere una vecchia conoscenza.

“Ulug Alì, Diogene, Rinnegatuccio mio!” esordisce il Sultano.

“Mio Sultano, Alba dell’Oriente greco, Disastro dell’Occidente latino, Fratello del Sole, basileus, Califfo illuminato, conoscitore delle Scritture, Mio Sovrano” risponde Alì.

“Le ho trovate!” esordisce il corsaro.

“Si!!!” dice entusiasta il Sultano

“Da Tropea, partono per Marsiglia, per Valencia, per Roma, per Madrid, arrivano addirittura a Bruges, dove prendono la rotta per il nord Europa, la Germania e l’Inghilterra”

“Ohhhh” Il Sultano è compiaciuto come un bambino.

“Pensate che il Papa ha alla sua corte dei sommellieri speciali

per capire quale vino di queste botti sia veramente Chiarello di Cirella!”

“Ulug sei il migliore!” Dice emozionato il Sultano.

“Sire, ho catturato delle navi cariche di vino per lei, mio Sole”

“Com’è?!” chiede morboso il Sultano ma Ulug non sa come rispondere.

“Mio Sole, ecco, io non mi sento di bere… ma ne parlano benissimo!”

“Io Selim II, non sono qui per parlare con te di vino calabrese, vero?! Di ben altro dobbiamo parlare, della tua terra… C’era dell’altro…”

Il Sultano sembra leggere il cuore del Corsaro che ha davanti.

“Non una quinta parte, ma tutto il vino lo offro a Sua Maestà, e parte del bottino che prendo per me, dal battello, tolta la botte, potrei usarla per pagare le spie e portare avanti i nostri piani” dice il Corsaro, ormai scoperto.

“Ne parlerò con Scipione Cicala, più giovane e più bello di te! Ahahah” lo prende in giro il Sultano e continua: “Cosa ne pensi?!”

“Che facciamo bene a tenere tutto taciuto, Mio Sole”. Risponde Alì. “No… cosa ne pensi?” interrompe il Sultano. “Di cosa sua Maestà?” i due non sembrano capirsi.

“Non di cosa… di chi? Di Scipione…”

“E’ un bravo soldato” giudica Alì “si sta muovendo bene. Mi rivedo un po’ in lui.”

 

“Intendevo… come lo vedi?” continua malizioso il Sultano.

 

“Bene, lo trovo bene…” disse Ulug Alì.

 

“E’ bello!” Esplose Selim II.

 

“Questo ed altri, sono gusti di Sua Maestà!” disse tra il risentito e l’emozionato, il fervente credente calabrese.

In maniera sommessa, sentendo forse il giudizio su di se del corsaro, il Sultano, detto dopo le vittorie in Persia, “padiscià”, ovvero re dei re:

“E’ una vita di merda, la mia…”

 

“Mio Sire…” lo riprende il Corsaro. E il Sultano finalmente sbotta:

“Ma sì! Mustafa doveva fare il re, ma fu strangolato per volere di mia madre, da mano di mio padre!

O Bayezid, mio fratello di madre, arrestato ed ucciso in Persia con i suoi quattro figli, per intrighi di palazzo!

Tutti volevano il “Grande Selim” come Sultano! Selim, Selim! Fino a qualche anno prima mi sputavano, mi chiamavano peccatore, degno della maledizione più grave.

Guardami se non sono maledetto! Ulug devi aiutarmi! Non sono nemmeno all’altezza di mio padre!

Lui era “Il magnifico” Solimano! Io invece sono “Il biondo” Selim, quando non Sarhoş: l’Ubriacone!!!

Le mie gesta di cui si parla sono solo le carezze alla bottiglia e alla pelle liscia di Scipione!!! Oh-oh-oh!” Il padrone di mezzo mondo si mette a piangere ed il suo pirata lo consola:

“Si trattenga Mio Sole…”

“O-o-ohhhhhh o-o-o-ohhhhhh! Mio padre scriveva versi, io li faccio… Sigh-Sgh” dandosi persino al singhiozzo sincopato.

 

“Guarda mio figlio Murad!” continua disperato il Sultano” Quant’è più fortunato di me! Sua madre è un’italiana, una veneziana, astuta e maneggiona, conosce tutte le donne dell’aristocrazia italiana, gente spietata! Se vedrà che non è adatto al governo, zac! Lo farà far fuori! Non come me! Messo qui su un trono posticcio!

 

Guarda lì, lo tengo sempre vicino a me… è il trono di mio padre, tengo il suo trono vuoto a ricordo della sua grandezza comparata con la mia nullità. io non sono degno, Mustafa era degno… Bayezid… non io… Allah mi salvi…”

 

“Mio Sovrano, Mio Sole…” cerca di riprenderlo Ulug Alì.

 

“Un Sole che piange!” lo riprende con polso il Sultano ormai scoraggiato: “Quali raggi fiochi e appassiti che partono da me! Sono un “figlio d’arte”!

Un cane bastardo! Ma sai cosa scrivono di noi gli europei?! E poi? Io sono mezzo russo, tu sei calabrese, Scipione è italiano, anche la mia favorita… di chi stanno parlando, scusa?!

Regna la pace dentro il nostro Impero.”

 

“Gente senza sogno, sua Maestà.”

 

“Vorrei sterminarli tutti! Dal primo all’ultimo! Prima gli Spagnoli, poi quei voltafaccia dei Francesi…” dice il Sultano, muovendo le mani che gli muovono i vestiti pregiatissimi.

 

“Signore, è giunto il tempo che vada, se mi congeda…”

 

“Fammi un po’ di compagnia, mio eroe fidato” dice Selim II, dimostrando la sua umanità.

 

 

“Sokollu Mehmet, quel serbo, è amatissimo!

Suo fratello, un alto grado della Chiesa ortodossa, e lui stimatissimo da musulmani e cristiani, è il capo qui: contratta con l’Austria, impone la sua politica in Yemen, ha sognato due grandi canali, per collegare il Mar Nero al Mar Caspio e il Mari Mediterraneo al Mar Rosso, sull’istmo di Suez! E’ un visionario, è forte, io sono un uomo da harem, preferisco la compagnia al Governo…”

 

Facendo quasi finta di volerlo sentire, Ulug Alì continua.

 

“La forza del visir non mi convince… Sto lontano dalla sua cricca. Fratello del Sole, sapete cosa si dice… nella cricca del Serbo… si fuma l’erba dei burloni!!!”

 

Il Sultano, tentò di cambiare argomento sul potere acquisito dal visir corrotto e subito prese la palla al balzo per deviare la conversazione:

“Sulle droghe sono molto informato! Mio caro, leggi cosa scriveva Al-Ukbari…”

Tirò fuori dal gilet un libro che sembrava essere la sua lettura preferita. Lo aprì e lo mostrò al corsaro: “Leggi: “Devi sapere che la legge islamica non proibisce il consumo di farmaci cordiali, con effetti come quelli dell’hashish. E poiché non vi è alcuna notizia sulla sua illiceità, il popolo considera che è permesso usarla, e la usa.”

 

 

Ulug Alì, il Rinnegato più famoso e agguerrito delle acque imperiali, cambia argomento e come in mare, tira a se la mente del Sultano, ormai invaghito di vino e droghe, mentre è ancora lucido, vuole proporgli la conquista della Calabria, da sottrarre agli Spagnoli, non può farsi sviare così dagli attacchi di inferiorità del Sultano dei Mondi.

“Perdonate le mie manie di monologo, ma se non vi riferisco le novità, potrei perderle, avendo io niente di scritto ma tutto d’imparato”

“Sono qui per te, amico mio” disse il Sultano, firmando la sua condanna all’ascolto di tutto ciò che il pirata aveva da dirgli.

“Re Marcone, Marco Berardi in una terra in cui i poveri crescono, esso li fece la sua massa.

Mandai alcune spie per essere informato dei suoi movimenti e ne fui rapito nel core!

Guardate Sire, esso, andato a scuola dali eretici di San Sisto, per i quali venne imprigionato, prima di evadere, parlava di“servirsi di quanto Dio spontaneamente elargisce” in libertà, di campi ai contadini e non ai principi, e de “la distribuzione dei prodotti secondo i bisogni di ciascuno”.

Creò il suo piccolo governo ed io fornii in segreto di notte, alcune armi ai suoi ribelli. Pregai per lui, non lo nascondo.

Gliela fece pagare cara agli spagnoli e ai principi messisi sulle sue tracce.

Lo batterono sul campo ma lui fuggì.

Se fosse ancora vivo, sarebbe un eroe ad averlo con noi!”

 

“Oh, Ulug” disse il Sultano “Il Governo non si fa con le storielle…” “Ma non sono storielle mio Sole”, rispose il Corsaro risentito, come un bambino corretto.

“I nostri sono sotto Malta, il Visir ha mandato lì, a morire probabilmente o a farsi eroi per me, i miei uomini più fidati.

Come pensi di trovare senza di loro, un uomo in territori spagnuoli?!”

“Conosco la mia terra, sire, i suoi abitanti e tutto il resto che contiene” Ulug guardò il Sultano, lo fissò misterioso negli occhi e tirò fuori dal suo gilet uno chiave.

“Chi mi diede questa chiave? Eh…

Don Diego Gaetani, il podestà di Reggio, provocò il Barbarossa che attaccò la città, venendo da Messina, oltre a molti gli rapì la figlia e la sposò. Flavia, la conoscete? Non vive più qui…” Selim II ammutolito annuì “Essa abita a Tropea!”

Il Sultano, stupito, mutò il suo atteggiamento e più che ai suoi problemi, ora era molto più attento al discorso di Ulugh Alì, verso il quale era proteso, con la sua pelle bianca e le sue guance rossicce, devastate dall’alcol.

“Flavia è una tra le mie spie più importanti, se un giorno gli spagnoli le si dovessero, malauguratamente, avvicinare a meno di venti braccia, a Madrid, Cosenza, Reggio e Messina, sentirebbero di aver fatto un passo falso!

Queste, mio Sire, sono le chiavi di Mileto, l’antica capitale normanna della Calabria e porta delle Serre.

Da Gioia Tauro si può arrivare al Paese e da lì ci si può collegare persino sullo Ionio, da Mammola, a Gioiosa a Siderno.

Se delle nostre navi, attraversassero lo Stretto, salendo dal Lungo il Tirreno oltre Gioia Tauro, le nostre truppe potrebbero sbarcare e Tropea, Vibo, Serra San Bruno, Stilo e Monasterace col suo castello, sarebbero gli avamposti di una testa di ponte insidiosissima. Da lì conquistando il poligono Paola, Rossano, Neocastro, Krotone, ci apriremo alla conquista completa della Regione.

E questo sarà possibile, con molte meno truppe di un decimo di quelle che abbiamo a Malta, Sire!

A Capo Colonna, vicino a dove fu il mio nido, la popolazione scende in spiaggia e aiuta li nostri nella risalita!

In Calabria, le città hanno tacitamente tenuto li accordi con Algeri et Tunisi e le altre città della Terra islamica, sotto il Vostro dominio, Mio Sole”

 

Il Sultano, distratto da tanta strategia e vedendo nell’impresa sia un possibile trionfo che un disastro di uomini e mezzi, avanzò dei dubbi, a dir poco puerili:

“Ma le tue spie non hanno paura delle Guardie spagnole?!”

 

Il Corsaro per poco non si scoraggiò a morte.

Ma come? Fino adesso aveva spiegato che le sue spie erano irraggiungibili, essendo capillari in buona parte dei dominii spagnoli ed ora il Sultano cosa dice?

Ma no! Perle ai porci, pensa Ulug, non vuole crederci, il suo superiore, il suo eroe, è un inetto, l’unico al mondo, il cui permesso potrebbe cambiare la storia della sua regione, è talmente idiota che non capisce assolutamente nulla di strategia militare!

Cerca di rispondere ad una domanda con un’altra, vuole portare il Sultano su alti temi, il cavallo di battaglia dei ragionamenti filosofici e non della logica popolare calabrese.

“Lei crede che funzionino le guardie spagnole?”

“Le mie guardie funzionano” ribatte Selim II, staccando degli acini di uva da una coppa a lui vicino. Da un lato pareva volere la compagnia del marinaio ma solo per il diritto umano di annoiarsi. I due si sfidavano e si rincuoravano a vicenda, si motivavano e demotivavano in un movimento quasi ondulatorio di passioni che da sole possono muovere o stazionare il mondo, all’interno della propria epoca.

“Noi portiamo tutti alla guerra, mio Sole, gli Spagnoli, affossano il Popolo con metodi vari.

Essi hanno concepito…” ecco che già il termine, faceva capire

dove voleva andare a parare, la Filosofia ormai, era prevedibile!

“…una società in cui i mastini sono guardie e prepotenti di paese. Noi poveri non veniamo difesi dai prepotenti. Sono loro che vengono difesi da noi ed essi difendono parte di noi da altri di noi, ma non difendono mai noi da loro.

Le Guardie sono un paravento di sicurezza, esse non sono poste a sicurtà del Regno, di questo o quel principe, esse difendono solamente il sopruso, altrove forse, hanno altre mansioni, ma in Calabria, Signore, esse difendono il Popolo da se stesso e dalle sue vittorie”

I ragionamenti, stavolta non erano più sofismi, forse erano partiti come tali ma avevano fatto tremare per un attimo il corsaro analfabeta.

Alì il Rinnegato guardò il pavimento, poi il cielo, si fermò un momento prima di parlare al Sultano.

I suoi occhi per poco non si bagnarono, nella sala scese una strana atmosfera.

Per un attimo, l’uomo più potente sulla Terra, il Sultano, ebbe timore e paura del Corsaro, l’uomo più potente sopra il Mare.

 

Occhiallì disse: “Il male della Terra mia ha nome ed ha cognome, il nome lo conoscono in tanti ed è traduzione di Prepotenza ed usurpazione; il cognome che ha è un’Idra ed ecco le sue teste”

Il bambino calabrese divenuto corsaro, iniziò a scaldarsi: “Alacorn y Mendoza, hanno ventritrè mila vassalli, gli Spinelli di Scalea hanno ventimila vassalli, mentre quelli di Fuscaldo sedicimila, i Borghese ne hanno “solo” diciassette mila e poi a seguire Caracciolo, Pignatelli, Mazza, il Viscovo di Reggio, i Passalacqua, i Saluzzo, gli Aldobrandini e i D’Aquino! Se li avessi qui sotto mano, vi offrirei le loro teste ad una ad una, parola mia!

Ucciderli preferisco, che rilasciarli per riscatto!!!

Una volta, per uno di loro, chiesi un riscatto talmente elevato, che la sua “grande” famiglia, lo recimulò davvero! Ancora lo piangono, egli sputa sangue nel bagno di Algeri.

Aveano più oro di quello del Re di Napoli!!! Quando lo portarono sulla mia nave, lo guardai, non era finto! Era tutto l’oro che avevo richiesto! Quando allora adirato, essendo la gente sotto loro, morta davvero di fame, chiesi il doppio di quell’oro, essi mi risposero che quella cifra la avevano, ma dovevano tornare a riva per prenderla!

Quale terra d’oro è la Calabria, Sire, d’oro e tiranni, di ladri padroni ed onesti piagati…

Feci mettere delle catene intorno le loro caviglie ed i loro polsi, poi diedi ordine a settanta dei miei uomini più valorosi, di tornare a riva con quello forziere di ricchezze.

Dio vede e sa che l’oro maligno non lo poto!

Così, feci la voce grossa e dissi a quei padroncini, che se volevano salva la loro miseraccia vita, avrebbero dovuto distribuire quel denaro, alla gente a cui l’avevano sottratto.

La gente visti li nostri tornare, si chiusero nel paese e per poco non tiravano contro i nostri, se non issata la bandiera bianca.

La folla incredula, sortì dagli usci, naturalmente poco a poco, a capolino.

Videro il loro principe, legato alle catene, con il forziere in mano, che tirava lingotti e monete d’oro, implorando “Scusa” ad ogni essere vivente che si trovava sul cammino.

Aveva delle alabarde dietro la schiena e se i miei uomini fossero stati corrotti da quel dimone, li avrei cannoneggiati come mai in vita mia!

Persino ai cani e ai somari, feci chiedere scusa da quelle serpi.

La folla gridava “Viva Occiallì!” “Viva il Re della Calabria!”

“Abbasso i baroni!” “Lunga vita alli Turchi!”.

Io amo la vita del mare, in quei poveracci redenti, che diedero ai miei uomini, viveri e stoffe pregiate di telaio, carne e strumenti musicali, rividii i miei genitori e tutta la gente povera oppressa”.

 

“Bellissima storia” il Sultano rimase di stucco davanti il gesto del suo Corsaro, che forse per un attimo, gli aveva instillato il germe del buon Governo.

 

“Se mi date il via, voi secondo solo a Dio, al Sole e al primo Sultano Selim, vostro nonno, basileus della terra e del mare, porterò ai dominj dell’Impero, una nuova Grecia, ancora più strategica, bella e grande della prima e la Spagna tremerà”

 

Selim II, in quel momento davvero Sultano, ragionava sulla fattibilità della cosa, ne avrebbe parlato sicuramente nell’harem e con Scipione Cicala per chiedere consiglio.

Ulug Alì era convincente, motivato, navigava i mari in pace ed in guerra, senza aver ricevuto da bambino alcuna istruzione scritta! La sua sapienza e la sua conoscenza, come la sua tenacia ed il suo coraggio senza fronzoli, venivano dal suo popolo. Il Sultano immaginò di usare migliaia di calabresi, come quelli che raggiungevano le sue coste in catene o per scelta personale, per farne un corpo speciale e contrastare lo strapotere dei giannizzeri e dei visir.

Ulug Alì, Giafar Pascià e altri calabresi convertitisi all’Islam, o divenuti “dimmi”, li avrebbero addestrati, proprio loro che da semplici ragazzini, senza una famiglia facoltosa alle spalle, capace di pagare riscatti, avevano raggiunto i più desiderati scalini dell’esercito, dell’amministrazione e della marina ottomani.

Selim II, stava per proferire parola senonché, sul più bello, suonò una campana, dopo un corno. Poi si aprì la porta della Sala del Trono.

Era il Generale Capo delle Guardie del Sultano, un altissimo grado dei Giannizzeri, uno dei pochissimi che poteva interrompere le riunioni di Sua Altezza:

“Sua Maestà, Fratello del Sole, Custode delle Due Sacre Moschee, è un’emergenza! I Cavalieri di Malta! Sono in città! Hanno creato il diversivo di finti attentati in città! Stanno incendiando le navi nel porto e quelle in costruzione nell’Arsenale! Tantissime navi sono in fiamme!!! Alcune piccoli legni nemici stanno tornando illesi al Cristiano!!!”

Decine di giannizzeri scavalcarono il loro generale e si posizionarono intorno al Sultano.

“Oh mio Dio!” esclamò il Corsaro “Le mie povere navi! Con permesso Sua Maestà!”

Il Sultano fece un cenno attraverso la barricata umana che lo proteggeva, poi cascò sul suo trono, attonito.

Ulug Alì riprese le armi che aveva consegnato all’ingresso della stanza, si sporse dalla finestra e poi suonò un fischietto, acutissimo.

Era il richiamo di emergenza con cui chiamava alcuni tra i più temibili, sanguinari ed esperti pirati che lo avevano servito e che avevano il permesso di rimanere a terra, a meno che non ce ne fosse stato estremo bisogno.

Il Corsaro si precipitò di corsa fuori dal Palazzo e a tutte le guardie che lo salutavano in maniera militare, rispondeva correndo, “Riposo, Riposo, Rispopo, Risopo!”. Mangiava le parole ed il tragitto mentre in un rimorso quasi bestiale, immaginava di stritolare i nemici, o chiunque si fosse mai permesso di toccare le sue navi, quelle di suo suocero o dei suoi colleghi e amici.

 

“Gentile Abate,

volevamo informarla, come da Ella accoratamente richiesto, riguardo li sviluppi de li collegamenti con Costantinopoli turchesca e di possibili viaggiatori e/o schiavi captivi liberati lì, in Gerusalemme o in Barbèria, per poter disquisire intorno le leggende e la figura illustre di Ulucciallì, corsaro calabrese turchesco.

Siamo felici di avvisarla che ieri, 14 Giugno 1722, gli Arciconfrati di Santa Maria della Neve, detta del Gonfalone, di Bologna, si sono riuniti per decidere a pieni voti di movere li quattrini, per andare a prendere a Livorno, a termine della Quarantena, il RISCATTATO, Caporale di Compagnia di Guardia NATALI, Gio Batta, bolognese miliziano della Serenissima Repubblica di Venezia, per la gran Guardia personale del Signor Generale l’Eccellentissimo Boni, catturato a Napoli di Romania, detta Nauplia,

Di Natali, catturato il dì funestuoso, 20 luglio 1715 e tenuto in padronanza da Scidì Meemet di Bey, abbiamo saputo in città tramite suo zio, Stefano Natali, che servì in casa l’Illustrissimo Carlo Alfonso Conte e Senatore Marescalchi, che decise di acconsentire alla libertà del Giobatta, promessa sul letto di morte e tramite le preghiere del Natali a suo cugino e al Padre Prefetto in Tunesi.

Tutta la città lo aspetta e speriamo anche lei, per disquisire col REDENTO, sui fatti tramandati tra schiavi in Terra di Barberia e Costantinopoli.

 

PS: tramite confrattelli della Serenissima, abbiamo trovato parte di scritti sul pirata dei secoli scorsi, che riportiamo:

 

-“Non sa né leggere né scrivere..E’ uomo di natura crudelissimo ed inumano, specialmente quando entra in collera, che allora ha più sembianza di mostro che di creatura umana, perché si lascia trasportare a stravagantissime iniquità, né v’è alcuno, per grande che sia, che ardisca di parlar seco in quel procinto…”

 

Codesti dalla relazione di Gianfrancesco Morosini al Senato Veneziano.

 

Esso è Ulucciallì, corsaro “di nazione calabrese”, pensiamo trattasi de l’istesso corsaro che più l’interessa.

 

Con la speranza di averla a Bologna, presto, le mandiamo un caloroso abbraccio.

 

DEO OPTIME MAGNO.

 

Addì Bologna 15 giugno 1722”

 

L’Abate guardò la lettera e già gli sembrò di navigare direttamente in Turchia.

 

 

di Daniele Natali, parte prima di un Feuilleton postmoderno che verrà ospitato nei numeri successivi  lamacchinasognante.com LogoCreativeCommons

 

Immagine in evidenza da DeviantArt, BricksandStones photography, 2013-2016

 

 

 

Riguardo il macchinista

Daniele Natali

Daniele Natali è uno dei macchinisti fondatori e ha collaborato fino al numero 4 del contenitore. Si è ritirato dal gruppo operativo a novembre del 2016. Nato a Catanzaro nel 1988, cresce in un ambiente stimolante di migrazioni ed incontri nella sua casa sul Golfo di Squillace. Fin da piccolo si occupa di teatro, trasferitosi a Torino inizia a scrivere. Partecipa a varie edizioni di Festivaletteratura di Calabria posizionandosi sempre tra i primi tre posti. Menzione d'onore per il premio nazionale "Penna d'autore" di Torino. Trasferitosi a Bologna, conduce il programma "Parola Sonora"., format di Ciao Radio. Vince nella sezione Poeti per "Musici e Poeti", premio di radio Città Fujiko.

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