Eugenia Delfini intervista Adriano Valeri:
HURRICANE SEASON
D: Questa grande tela presenta un paesaggio apparentemente tranquillo, eppure, più la osservo e più mi fa venire in mente scenari distopici e apocalittici. Lo stesso titolo dell’opera, Hurricane Season, sembra suggerirmi che tu abbia iniziato a considerare il legame uomo-ambiente non solo in termini relazionali ma anche in termini ambientali, ecologici ed esistenziali. Mi chiedo se gli studi sull’antropocene siano per te un riferimento teorico.
R: Si certamente. Quando ho iniziato a dipingere in maniera più consapevole sono diventato più attento a ciò che vedevo. Mi sono concentrato sull’ambiente metropolitano, sulle sue discontinuità, suggestioni che mi arrivavano da quel paesaggio. Da quello che mi piaceva ovviamente, da ciò che mi suggeriva la su forza vitale, energia indomabile, o semplicemente mi incuriosiva. Entrano così nella mia pittura, da qualche anno, soggetti ricorrenti come il cane randagio, la pianta, la palma, il particolare architettonico. Successivamente alla curiosità visiva, si è aggiunto un momento di ricerca e riflessione teorica approfondita. E’ stato quando ho letto Gilles Clement. Il suo “manifesto del terzo paesaggio”. Un testo che mi ha stimolato profondamente.
Cosa ti ha colpito della sua opera?
È un importante architetto di paesaggi e ricercatore di storia dei giardini e di spazi pubblici. La sua riflessione ha cambiato in me la visione e percezione degli spazi aperti e marginali, degli spazi post-produttivi. Piano piano è nata in me un’intensa attrazione per quei luoghi, la vita che si forma in ambienti estremi e marginali, là dove si manifesta una società che cambia. Il volto del cambiamento attraverso ciò che non è più utile, in uno spazio che ha tralasciato. Questo è il ‘terzo paesaggio’. Il primo paesaggio è lo spazio primordiale, la così detta natura incontaminata; il secondo paesaggio è lo spazio della produttività umana, dominata dalle forme geometriche, quindi: campi, industria, residenze, infrastrutture; il terzo paesaggio è invece uno spazio inedito. Quello che nasce dalla crisi della produzione industriale e la conseguente riformulazione del territorio. Un intreccio misterioso e casuale fra le antiche forme della natura e quelle abbandonate, le rovine della cultura tecnologica. L’autore mi ha aperto gli occhi sul potenziale pittorico e paesaggistico degli ambienti marginali, abbandonati a sé stessi nelle metropoli o sconvolti dai disastri ambientali.
Anche gli effetti provocati dai disastri ambientali?
Sì. Sono da considerare nuove forme estetiche che fioriscono sotto i nostri occhi, oltre che nuove evidenze della biodiversità. Sono laboratori per l’ambiente planetario del futuro, che esiste già, come forma del divenire. I sociologi e gli archeologi definiscono da qualche anno l’Antropocene come una fase storica, in cui l’attività umana è stata così massiccia e pervasiva da impattare l’ambiente a livello di strato geologico. Al punto che le future generazioni di geologi, attraverso scavi e ricerche nel sottosuolo, prelevando o facendo campionature dei minerali o dei fossili, vedrà come l’ambiente, i gas, la temperatura, le particelle presenti nell’atmosfera, siano state modificate soprattutto dai residui dell’attività umana. Quest’interesse per l’Antropocene mi ha portato a definire meglio ciò che rappresento nei miei lavori. Le forme, gli oggetti, i colori squillanti che rimandano alle mappe termiche dei paesaggi li vedo e li intendo come testimonianze importanti, non trascurabili del nostro presente, di una fase dell’evoluzione del rapporto dell’uomo con l’ambiente e nell’ambiente stesso di conseguenza. Anche da un punto di vista esistenziale, non solo estetico.
Puoi fare un esempio concreto di “terzo paesaggio” ricorrente nella tua pratica o nella tua quotidianità?
Abitando a New York, il mio studio è situato accanto ad un impianto di gas della ConEdison. Non a caso ci sono dei grandi serbatoi di stoccaggio di gas naturale di cui la città si alimenta quotidianamente. Quando entrano in funzione, per controllare la pressione gli addetti alla manutenzione provocano una perdita di gas che viene bruciato. Così dalla finestra posso vedere una ciminiera da cui si sprigionano enormi fiammate incandescenti. La ciminiera è circondata da vasti campi abbandonati, perché lì non si può costruire. In questi campi vedo cani, gatti randagi, roditori, rapaci, piante abbandonate a loro stesse e invasive. È uno spazio molto interessante e in qualche modo stupefacente. Quella zona è vicino a New Town Creek, il tratto di canale che divide Brooklyn dal Queens, una delle prime zone nella periferia di New York dove il petrolio è stato raffinato sin dalla seconda metà del diciannovesimo secolo.
Una delle aree dove il suolo è il più inquinato di tutto il Nord America. Anche per questo è considerata ad alto rischio e in cui non si possono costruire abitazioni. Questo è per fare solo un esempio. In America esistono enormi autostrade, viadotti, migliaia di aeroporti, ex- agglomerati produttivi, line ferroviarie che collegano le grandi città e hanno dei margini, dei bordi off-limit, dove la vita esiste e resiste. Dove scarti, residui tecnologici, mondo vegetale e animale si intrecciano indissolubilmente, in modi e forme come mai prima era accaduto. Creano un mondo nuovo dove si vive una stupefacente quotidianità. Tutto questo fa parte di ciò che dipingo. In questo lavoro, “Hurricane Season”, ad esempio, faccio un chiaro riferimento a una catastrofe ambientale. A quello che potremmo vedere, quali potrebbero essere le nostre emozioni dopo lo shock di un grande cataclisma.
In che misura la città di Venezia (Mestre e Marghera) ha stimolato il tuo interesse per gli spazi residuali e per i paesaggi post-industriali?
Per me l’esperienza di Mestre e Marghera è stata fondamentale. Sono andato a Venezia all’età di diciannove anni, venendo da una fase in cui la pittura che amavo era la pittura barocca e tardo rinascimentale, della tradizione italiana o mediterranea. Essendo un adolescente, certo ingenuo, pensavo: “andrò a Venezia e farò in qualche modo questo, non so esattamente come, però continuerò a fare questo genere di pittura”. Venezia è un posto meraviglioso perché è una città piccola. Lì ho incontrato molti giovani artisti quando ho iniziato a frequentare l’Accademia delle Belle Arti, provenienti da tutta l’Italia e non solo. In qualche maniera fra le acque della laguna puoi vivere immerso nell’immaginazione. Per me vivere a Venezia all’inizio e stato come vivere una specie di sogno; in cui mi allontanavo dal mondo contemporaneo, dalle sue declinazioni estetiche più decadenti. E’ stato come immergermi nel sogno del rinascimento italiano. L’acqua in continuo movimento che determina la sostanza della città, aumenta questa sensazione. Dopo alcuni anni in laguna, mi sono trasferito a Mestre per risparmiare. A Marghera ho condiviso per anni uno studio con Giovanni Sartori Braido, un altro giovane artista dell’accademia. Dialogando con lui ho realizzato come l’esperienza tattile, fisica, estetica della realtà, per la maggior parte delle persone, è quella dettata da un modo di vivere in città. Abitare in costruzioni provvisorie, in continuo rifacimento, per speculazione e ragioni economiche, in presenza di vecchie eredità industriali, o anche nascenti, che condizionano fortemente lo spazio urbano. Da li è partita la mia ricerca per una pittura che abbia senso per me e che può avere senso per uno spettatore contemporaneo.
Il quadro Hurricane Season non è solo un lavoro site-specific — in quanto realizzato appositamente per una delle pareti dello spazio di mh PROJECT nyc —ma è anche context specific. Si riferisce ai cicloni tropicali che solitamente si abbattono sulle coste Americane fra l’estate e l’autunno. È la prima volta che ti capita di lavorare facendo riferimento ad un evento climatico e geografico specifico?
Sì e no. È la prima volta che mi propongo un tema che rifletta su dati di cronaca. Ho ideato il progetto espositivo durante un periodo di uragani, soprattutto nella Carolina del Nord e nella Carolina del Sud. Questi avvenimenti avevano letteralmente invaso i media. Ma già da alcuni anni intitolavo i miei quadri facendo riferimento agli Stati del sud; come ad esempio “The Florida Room”, oppure “Palmeto State” che è anche il motto con cui si definisce la Carolina del Sud. Fa parte della lunga tradizione degli artisti americani che guardano il Sud degli Stati Uniti come colonie interne afflitte da grandi ingiustizie storiche e da una natura selvatica, invadente e incontrollabile. In qualche maniera ostile al razionalismo del Nord. Per me è stato importante andare da ragazzino a visitare mia nonna Dora. Una straordinaria e inossidabile Italo-Americana che si è trasferita in Florida dopo la pensione. L’incontro con la flora subtropicale, la presenza di grandi rettili, vedere gli alligatori finire nelle piscine dei cortili, i fenicotteri sostare di fronte alle case, per me è stato molto affascinante. Per ritornare quindi alla questione Hurricane Season, forse è la prima volta che faccio riferimento ad un evento meteorologico specifico e non solo una situazione immaginifica.
Al tempo stesso trovo molto interessante come nel quadro sia completamente assente la figura umana ma tu sia riuscito ugualmente a rappresentare la traccia del suo passaggio.
Il titolo è ripreso da un disastro naturale, ma il soggetto non fa riferimento ad una determinata catastrofe. Al centro ho dipinto un riparo temporaneo, un bivacco. Veramente la prima volta che ho pensato ai bivacchi è stato all’inizio della crisi economica nel 2008. Allora si iniziavano a vedere sui telegiornali gli accampamenti costruiti dai disoccupati, in California. Gente che veniva da ogni strato sociale, anche da un certo livello di benessere, ma con la crisi economica si era talmente indebitata che, perdendo il lavoro, aveva perso tutto. Quindi un esempio concreto e visibile come, nel ricco occidente capitalistico, la situazione di vulnerabilità economica e sociale sia tale che anche una persona istruita, magari proprietaria di una casa, possa trovarsi da un giorno all’altro per strada. Nei parchi di New York è pieno di bivacchi. Andando in giro in macchina si vedono tante persone emarginate che vivono in queste situazioni. L’idea del bivacco, al centro del quadro, per me era molto importante. Accomuna una situazione di disastro naturale con quella che potrebbe essere, e spesso lo è nelle grandi metropoli di tutto il mondo, una situazione di fallimento del sistema economico egemone, al limite della banalità. È una situazione abbastanza comune, già la vediamo ovunque. Anche se fingiamo di non vedere e non lo registriamo come un fatto significativo. Questo è un rischio permanente in cui siamo immersi. Per quanto riguarda i cani si vede che, in qualche maniera, dominano in questo spazio, è il loro ambiente. Mi piace l’idea che il cane, dipendete dall’uomo, addomesticato e profondamente trasformato dall’uomo, rispecchi la nostra presenza. Possono essere cani randagi inselvatichiti, o animali domestici che il padrone ha dovuto abbandonare in fretta e furia perché’ c’è stato un ordine di evacuazione. Così se ne stanno lì nel giardino, in attesa.
Nella tua pratica, cosa hanno in comune vulnerabilità e banalità?
La mia esperienza è l’esperienza di una persona cresciuta in occidente. Abituata ad un certo livello di benessere. Nata da una generazione per metà italiana e per metà americana, con un innato ottimismo; perché ha avuto modo di vivere in un periodo di espansione economica e benessere tecnologico enorme; dove la crescita e sviluppo della tecnologia è stato inteso generalmente come fattore positivo, portatore di benessere. Ma quello sviluppo è finito, Credo che la società stia vivendo un momento acuto di destabilizzazione, perdita di questo ottimismo. Non solo io, tanti altri scrittori, artisti, sociologi, politologi, psicologi sentono e vedono questo periodo come una fase di crisi dei fondamenti della nostra ‘umanità’, delle istituzioni, delle democrazie; si ha la sensazione che ’idea stessa di democrazia oggi si vada restringendo, irrimediabilmente, di pari passo con lo sviluppo e crescita economica. Così ci troviamo di fronte alla banalità del disastro, la banalità dell’emarginazione, la banalità dell’odio razziale, la banalità dell’ingiustizia, l’abbandono di quel sentimento di ottimismo verso il futuro, la possibilità di cambiamento in senso positivo della società, che aveva caratterizzato il secondo dopo guerra sia in America che in Europa. La banalità del disastro io la leggo nel modo in cui le forme, le strutture fisiche e sociali della vita si mostrano, cedono il passo e riflettono questo sentimento di pessimismo, di crisi generalizzata. Che siano le grandi migrazioni di popoli della fascia tropicale del mondo, le frane ed esondazioni, i roghi nel sud, le guerre, i massacri quotidiani che si compiono nelle scuole, nei luoghi di culto, nelle manipolazioni del sistema economico planetario, in chiave di privilegio di pochi a discapito della maggioranza…ormai tutto fa parte del discorso che nutre, avvilisce la gente, che la gente assorbe ogni giorno.
Vorrei chiederti di parlare dell’uso che fai del colore. In Hurrican Season il colore non solo delimita le forme ma connette anche tutti gli elementi narrativi in un singolo corpo. Trovo questo molto affascinante perché vedo che usi il colore non tanto per riempire gli spazi ma per costruire gli spazi. in particolare noto che il giallo è ormai diventato un elemento caratteristico e ricorrente del tuo stile. Quando e per quale motivo hai iniziato ad usarlo?
Quando ero all’accademia ho capito che mi interessava appiattire l’immagine. Renderla sempre più grafica, descrivendo oggetti quotidiani che non ci aspettiamo di vedere in un dipinto, questa tensione nel descrivere la bottiglia di una bibita o il sacchetto di plastica ben si coniugava con una pittoricità dura e grafica. L’uso del giallo per me denota luminosità, solarità e forza biologica. Rimanda a quello che per me era stato importante da bambino: leggere i fumetti tipo Asterix e Corto Maltese. Pubblicazioni degli anni Settanta dove i colori erano molto limitati e dove questo giallo, piuttosto innaturale, si trovava spesso.
Quali sono “i soggetti che non ci aspettiamo di vedere in un dipinto”? E come agiscono nella narrazione?
Per me è sempre più importante inserire un elemento che faccia riferimento ad un marchio o un prodotto commerciale riconoscibile. In questo caso ho inserito una bottiglia di Gatorade, alcuni la notano, altri no. Per me è un aspetto importante perché ci ricorda quanto l’esperienza visiva sia condizionata dai prodotti del commercio globale, perché sono marchi riconosciuti; quello della Mitsubishi o una lattina di Monster Energy o McDonalds parlano della nostra esperienza materiale sempre più globale. Un prodotto McDonalds lo puoi consumare quasi ovunque. Quello che ho apprezzato della grande pittura, della grande grafica del passato, sono i piccoli dettagli, magari non centrali della narrativa, ma che fanno capire qual’era l’esperienza comune di quel tempo. Penso alle stampe di Piranesi dove lui mostra la meravigliosa architettura ‘berniniana’, ma anche le pecore che pascolano con la pastorella fra le rovine riconquistate dalla vegetazione mentre Roma era socialmente collassata, sull’orlo dell’apocalisse.
Hurricane Season occupa una superficie di tre metri di larghezza per quasi due metri di altezza. Incorniciato tra le due mura della galleria, si offre come spazio da co-abitare più che come oggetto da contemplare. Di fronte al quadro, percepisco la tua intenzione di costruire uno scenario piuttosto che una finestra attraverso cui guardare. Ho così l’impressione che tu abbia pensato al visitatore come protagonista del tuo lavoro e il quadro abbia preso connotazioni quasi teatrali come per invitare a parteciparvi. Sei d’accordo con queste mie definizioni?
Sì, mi piace quello che dici. I soggetti che rappresento sono tratti dalla quotidianità, non sono grandi narrazioni, non sono grandi eventi, non sono sogni, non sono semplici astrazioni ma sono sospensioni; sospensioni in cui vorrei collocare chi guarda. Credo sia molto importante che un’opera ci trattenga, voglio che l’opera condivida qualcosa che già sapevamo, ma che non sapevamo di sapere. Quindi in questa mostra ho voluto fare in modo che il quadro occupasse tutta la parete per dare una certa dinamicità, quasi fosse teatrale. Il visitatore non è solo invitato a guardare un quadro ma a provare un’esperienza. Poi l’esperienza del quadro diventa collettiva, ci sono diverse persone poste in relazione fra di loro dall’osservazione del quadro nello stesso momento. Questo non è fattibile con un’opera piccola o con un’opera di dimensioni medie dove bisogna aspettare il proprio turno; anche perché questo mi riporta agli incontri più importanti che ho avuto in passato con la pittura; che sono appunto dipinti inseriti nelle architetture delle chiese, nei templi, nei palazzi.
Vorrei terminare la nostra conversazione chiedendoti di parlare dei piccoli collages qui in mostra. È bello passare dal grande quadro alle “piccoli visioni.” Diversamente dalla grande tela, questi lavori su carta presentano dei paesaggi surreali, un grado di astrazione maggiore. Per esempio, noto che molti dei soggetti rappresentati, o meglio incollati, sono fuori misura. Nel contesto di questa mostra come descriveresti la relazione tra opere su carta e il grande quadro?
Una sensazione che mi piace è quella di perdita di connessione con il suolo. Quindi quando sei talmente preso da un’esperienza visiva che senti venire a meno la tua corporeità. I collage sono un’opportunità per giocare un po’ con gli elementi rappresentati; fino a trovare un punto di apparente conflitto fra l’irrealtà e la normalità, quindi sostare in una condizione di vertigine, di limite…
Questa intervista si è svolta nel Dicembre 2018 nello spazio di mh PROJECT nyc, nell’East Village, di fronte al quadro Hurricane Season da cui prende il titolo la mostra personale di Adriano (Nov 14 – Dec 16, 2018).
Eugenia Delfini (1983, Roma) è una curatrice d’arte che abita a New York.
Dopo aver conseguito la laurea triennale in Storia e Critica dell’Arte Contemporanea presso La Sapienza di Roma, e aver ottenuto un master in Arti Visive presso l’Università IUAV di Venezia, Eugenia ha co-fondato e diretto il project space Sottobosco (Venezia, 2009-13).
Recentemente, si è laureata al Center for Curatorial Studies, Bard College (CCS Bard, NY) con un master in studi curatoriali e ha allestito mostre a New York presso The Hessel Museum of Art e 80WSE Gallery. Eugenia è anche stata curatrice in residenza at Residency Unlimited, NY, e ha lavorato al The Drawing Center, NY, e La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma.
PAESAGGI AL MARGINE: RIFLESSIONI DEL PITTORE
(da 119: Platform Green, 2016 – Per le immagini che seguono ringraziamo la Galleria Marcolin di Forlì)
“Fra le cose che mi danno maggiore soddisfazione c’e’ la pittura e l’osservazione del mondo naturale, e per me le due attività sono ormai profondamente complementari, anzi li sento personalmente necessari.
Con ciò non intendo un’attività terapeutica, o conoscitiva in modo oggettivo, ma credo che per molti pittori, dipingere sia una forma specifica per reintegrare le esperienze che sfuggono alla verbalizzazione, di tradurle, fissarle e rivisitarle al di fuori della lingua. Quindi quando guardo il paesaggio, sento il bisogno di indagarlo pittoricamente, non di celebrarlo, né di descriverlo fedelmente, ma proprio di costruirne delle immagini utili a riviverlo e fissarlo.”
“Se consideriamo il paesaggio come una matrice che registra l’azione di tutte le forze che vi agiscono: biologiche, meteorologiche, antropiche, allora gli spazi marginali diventano molto significativi, i nostri scarti parlano della nostra cultura materiale, gli impianti termici e i ventilatori parlano dei nostri corpi, di come la tecnologia agisce sulle nostre esperienze dei luoghi.
Quando raffiguro le lattine, i sacchetti di plastica, i fazzoletti sporchi, i tubi delle condotte, le confezioni alimentari e i cavi elettrici, mi concentro su tutti questi materiali collocati ai margini del nostro vivere, che sono pur sempre presenti che ci piaccia o no. I colori che scelgo riflettono un senso di alienazione ed urgenza, ma sono anche i colori della segnaletica, degli energy drink, dei volantini, di un luogo caldissimo, come l’asfalto sotto il sole d’agosto. La giustificazione migliore che posso dare della mia attività’ pittorica e’ di produrre una testimonianza della Terra come la viviamo in questo momento storico, annodando le forze antiche e apparentemente eterne della natura con gli scarti inconsapevoli della nostra civiltà attuale”.(A.V.)
Adriano Valeri (1987, Milano) è un artista che vive a New York. Dopo aver conseguito un Master all’Accademia di Belle Arti di Venezia si è trasferito negli USA. Ha vinto vari premi e concorsi internazionali di pittura. Ha esposto in numerose gallerie in Italia e all’estero. E’ stato co-fondatore del progetto collettivo How We Dwell (2012-15), per il quale è stato in residenza presso la fondazione Bevilacqua la Masa di Venezia. Si è recentemente conclusa la sua prima personale alla galleria MhProject, (New York, novembre 2018- febbraio 2019).