CLANDESTINO
Si smagliano
i lacci
che stringono
le scarpe,
e cede
insieme a loro
quella volontà ostinata
che da sempre,
come roccia profonda,
mi incatena al suolo.
Si allentano i passi
e non trovo lavoro
né indirizzo
né casa.
Vivo,
clandestino
ma vivo,
e senza numero
né nome,
fuggo gli elenchi,
le voci e gli sguardi
curiosi di sapere
o catalogare.
Si smagliano
i lacci
delle mie scarpe
e poco importa
(tornerò a camminare
a piedi nudi
come da fanciullo
per le strade
del mio paese);
ma cedono
quelle stringhe
che tengono in piedi
la vita intera,
e muoio,
mille volte al giorno
ad ogni passo
da clandestino
muoio.
LE GEMME DA INNESTO
Quella che da fuori si vede
è soltanto una
delle nostre innumerevoli vite,
soltanto uno
dei nostri maledetti mestieri.
Come per delle lettere
iniziate con molti errori,
di tutte le vite precedenti
ne abbiamo strappato le pagine
buttandole chissà dove.
Abbiamo migliaia di vite
che nessuno vede
nascoste nelle ossa,
nelle mani callose di zappa
e di piccone,
nelle schiene curve sopra i tetti
di migliaia di case
che mai saranno
nostre.
Abbiamo vite silenti
cariche di dignità
che nessuno ha mai ascoltato.
Siamo stati commercianti,
chimici e ingegneri,
contadini, fabbri,
falegnami e infermieri.
E qualcuno di noi
era perfino un maestro
che insegnava ai bambini
a leggere fiabe
e a scrivere il proprio nome,
quello che molti ora
non sanno più pronunciare.
La nostra
è vita riciclata,
come la carta, il vetro,
il ferro da buttare.
I nostri indumenti
sanno di tabacco amaro,
di calce e di cemento,
di sudore sanno.
Siamo l’odore guasto
sugli autobus,
siamo i denti mancanti
di un sorriso,
le camicie sbagliate
su pantaloni di lana.
Siamo carne da bastimento,
viscere di stiva.
Siamo il nero
di una notte senza stelle,
pecore da recinto,
sorvegliati spesso
al limite con la galera.
Siamo vagoni abbandonati
adibiti a case.
Siamo la cronaca nera
il capro espiatorio:
per qualcuno che sbaglia
migliaia ci accusano,
per tanti sfruttati
che lavorano
nessuno ci assolve.
Così,
della vita più recente
ne abbiamo nuovamente
strappato la pagina
buttandola chissà dove,
ma per tutte le nostre
vite future
avremo ancora speranza,
e voglia di ridere
e ballare
e bere.
Avremo ancora
voglia di scrivere
e magari un giorno,
forse sull’ultima pagina,
riusciremo
a farlo anche bene.
***
E voi,
come è scritto,
non lasciatevi turbare,
dal solo albero
che il fulmine abbatte e sradica
con grande frastuono,
ma compiacetevi,
invece,
per tutti quegli altri alberi
che nel bosco,
silenziosamente,
continuano a crescere
e a fare una, cento,
e mille altre vite.
Perché noi oggi
siamo gemme da innesto
capaci di dare buoni frutti
anche con altre radici
e su altri rami.
FRATERNITÀ
È assai triste
vivere
seduti
sulla pagina
sgualcita
della propria
solitudine.
Più saggio
sarebbe
forse
tendersi la mano
e
in un abbraccio
adagiarsi
l’uno
sul cuore
dell’altro,
come fanno
al vento
le spighe
del grano.
MANI DI DONNE
Erano livide e fredde
le mani delle donne
curvate a lavare lungo il fiume
o alle vasche di cemento
al Muraglione.
Unghie consumate
a raccogliere olive
tra foglie secche
e pietre d’arenai,
a raschiare la terra
(come galline e cani)
per scovare patate
o in cerca di cicoria e talli
lungo i sentieri.
Erano mani di donne
a infuocare i forni,
a impastare
la farina con l’acqua
e la fatica col sale.
Mani a sfogliare vigne
come pagine di calendario
e di un anno intero
da strappare amaro.
Mani pazienti
a rammendare la vita,
mani a tessere
dentro al telaio.
Mani forti
ad ammaccare il pane,
il pane duro e nero
dentro al mortaio.
Mani azzurre
a sciogliere al pozzo
la pietra del verderame,
mani d’inchiostro
immerse nel mosto
in cerca di raspi
da ripulire.
Mani bambine
che portano il sonno
tenere e dolci
mani a cullare,
giunte e silenti
nelle notti fredde
sotto le coperte
mani a pregare.
Erano queste
(e lo sono ancora)
le mani di molte donne:
mani amorevoli e calme
che pure non vennero
sfiorate mai
da due labbra d’amante,
da un bacio galante
o una carezza appena.
IL TRENINO SFERRAGLIA
Dal cuore di Roma
Porta Maggiore,
bussola di acqua e di marmo,
guarda al sud delle cose
e indica il cammino.
Il trenino sferraglia
sulla Casilina
col suo carico di digiuno
e di spezie orientali.
Tor Pignattara,
ferro e catrame,
è incrocio del mondo,
non più stiva
né onde,
né carretta del mare,
ma strada dritta
che stride e trema
sotto le rotaie;
e a Grotte Celoni,
capolinea dei poveri,
ad attendere immobile
c’è altro cammino
e tutta la pazienza
necessaria a percorrerlo
senza inveire.
Da qualche parte
si ha almeno qualcosa
che somiglia ad una casa.
La preghiera
stasera
è per altri fratelli,
per quelle speranze
impresse negli occhi
che a largo di Lampedusa
sono state invece
inghiottite dal mare.
Bastasse amare
per far nascere amore!
Poesie tratte da “A sud delle cose” di Pasqualino Bongiovanni, Edizioni Lepisma, Roma, 2006, per gentile concessione dell’autore.
Pasqualino Bongiovanni è nato nel 1971. Ha pubblicato la sua opera prima dal titolo “A sud delle cose” (Roma, 2006), una raccolta che vanta la presentazione di Mario Rigoni Stern, uno dei maggiori scrittori italiani del Novecento (scomparso nel 2008). L’opera è stata poi tradotta prima in spagnolo da José M. Carcione e pubblicata in Argentina in edizione bilingue con il titolo “Al sur de las cosas” (Buenos Aires, 2012), e successivamente in inglese da Giuseppe Villella e pubblicata in Canada in edizione bilingue con il titolo “To The South of Things” (Thunder Bay – Ontario, 2013). Attualmente Marie Marazita, giovane intellettuale francese di origini italiane, si sta occupando della traduzione in francese della stessa raccolta, mentre è in corso di pubblicazione una nuova edizione in italiano dell’opera insieme ad un audiolibro interpretato dall’attrice Aurora Cancian.
Foto in evidenza di melina Piccolo.
Foto dell’autore a cura di Pasqualino Bongiovanni.