Dialogo con Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari
Foto di Raffaella Cavalieri
Nel sito della Compagnia (www.berardicasolari.it), a presentazione dello spettacolo “La prima, la migliore”, si legge:
Volgendo lo sguardo agli spettacoli che dal 2003 a oggi abbiamo realizzato, ci accorgiamo che il conflitto, con noi stessi e con la realtà circostante, è stato e continua a essere il motore della nostra ricerca. Le dinamiche, i mutamenti e le opportunità da questo prodotte e derivate, sono attrazioni irresistibili verso cui tendiamo come attori, autori ed esseri umani.
L’occasione questa volta è quella del centenario del primo conflitto mondiale che sconvolse l’Italia, l’Europa e il pianeta intero. E’ incredibile come studiando un evento accaduto ormai tanto tempo fa ci si senta coinvolti da situazioni e sensazioni che sembrano raccontare la nostra contemporaneità.
Ed allora la condizione di una generazione “perduta” per un’ideologia criminale, propagandata a tutto spiano, la distanza fra il popolo e chi lo governa, il cambiamento epocale ed il conseguente smarrimento esistenziale, diventano metafore per raccontare la nostra condizione, il nostro tempo nel nostro paese.
L’idea ci è venuta qualche anno fa leggendo il romanzo confessione “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di E. M. Remarque. L’autore in maniera lucida e feroce racconta di popoli lanciati uno contro l’altro, per odio e per orgoglio ed al contempo riflette e fa riflettere sulla situazione di depressione e disperazione che avvolge senza tregua la società ieri come oggi.
Di qui è iniziata una indagine, storico-letteraria, ancora in atto, che mescola le materie di interesse, dal politico al sociale, dall’economico all’artistico, fornendo una contaminazione di linguaggi, stili ed argomentazioni in cui è sempre più interessante avventurarsi per proseguire il nostro cammino di ricerca, la nostra avventura alla scoperta di chi siamo, di chi siamo stati e di chi potremo un giorno divenire.
“Vengano i mesi e gli anni, non mi prenderanno più nulla. Sono tanto solo, tanto privo di speranza che posso guardare dinanzi a me senza timore. La vita, che mi ha portato attraverso questi anni è ancora nelle mie mani e nei miei occhi. Se io abbia saputo dominarla, non so. Ma finché dura, essa si cercherà la sua strada, vi consenta o non vi consenta quell’essere, che nel mio interno dice “io”.”
“La prima, la migliore” è regalo prezioso di un teatro, sempre più raro, che svolge il suo “compito” (artistico e sociale) e attua la sua “magia” senza bisogno d’altro che degli attori, e di qualche idea ugualmente forte, a partire da una manipolazione e da un’animazione di elementi semplici, quasi basilari.
Teatro di evocazione, ma a partire da una fisicità potente, che caratterizza anche la voce e la parola: non c’è nemmeno un frammento, quindi nemmeno un gesto, nemmeno un tono, in tutto lo spettacolo, che non arrivi al pubblico come una sollecitazione, uno stimolo, un invito, a cui rispondere con la vita e nella vita, quella vera.
Un teatro di suggestione grande, che lavora sul patto che a teatro sempre dovrebbe stabilirsi col pubblico: la comune adesione a rimanere in un luogo ad immaginare assieme, a fare finta che quel bosco esista, quella sala del trono sia vera, quella morte ci tocchi come quella di un fratello… che quelle assi del palcoscenico siano davvero la trincea fetida, fradicia, gelata, divelta e sconnessa in cui i nostri nonni (mio nonno materno sì) hanno patito un battesimo al valore della vita e della morte che li ha segnati per sempre, violentandoli con un trauma da cui, se non nel corpo certo nello “spirito”, non si sarebbero rimessi mai più e che avrebbero riferito, nella stragrande maggioranza dei casi, col silenzio.
Ultimamente, sull’onda delle celebrazioni del Centenario, ho avuto modo di fare una piccola indagine su conoscenti e amici, e tutti mi hanno confermato un comportamento simile nei loro nonni o bisnonni: questo silenzio l’ho ritrovato ovunque. Della grande guerra, gli alpini, i fanti superstiti, non hanno più parlato. Salvo chiedere, magari, negli ultimi anni della loro vita, di poter tornare in visita (o forse sarebbero meglio dire in pellegrinaggio? un pellegrinaggio laico, forse ancora un commiato…) su quei monti, su quei fiumi.
Foto di Raffaella Cavalieri
Uno spettacolo, “La prima, la migliore”, capace letteralmente di “dare corpo” a una (vergognosa) tragedia che ebbe nella mortificazione e nella violenza subita dai corpi, oltre che dalle “anime”, la sua componente fondamentale. Lo fa davanti a noi, seduti nelle poltroncine, lo fa con quell’apparenza di “un niente”, ma così ben composto e ricomposto, da assumere e restituire l’enormità delle dimensioni reali di quella guerra, e da riuscire a farci vedere. Vediamo quel che successe e vediamo quel che succede. Vediamo l’accadere e il ripetersi, percepiamo la Storia per quel che da sempre è: una pericoloso déjà-vu, che però di solito, come specie, fatichiamo a riconoscere come tale.
E così, nel tempo, nei secoli, nelle diverse generazioni, ci appaiono sempre nuove le ragioni per la guerra, ma in realtà sono sempre le stesse: indossano soltanto maschere diverse.
Chiedo a Gianfranco Berardi e a Gabriella Casolari in primo luogo cosa significhi che l’indagine storico-letteraria da cui scaturisce lo spettacolo, sia “ancora in corso”, ovvero se la scrittura drammaturgica sia ancora passibile di modifiche; inoltre chiedo, quindi, di raccontare il percorso drammaturgico, ovvero come siano passati dalla scrittura di Remarque (“Niente di nuovo sul fronte occidentale”) alla scrittura del testo di “La prima, la migliore”. Ascoltando alcune parti dei monologhi di Gianfranco, nello spettacolo, mi sono chiesta cosa fosse di Remarque, ovvero se Remarque avesse già pensato alcune cose che cent’anni dopo possono, con amara sorpresa, rappresentare anche il contemporaneo nostro, e cosa invece fosse di Berardi e Casolari, a partire da Remarque. Io non avevo mai letto “Niente di nuovo sul fronte occidentale” e dopo lo spettacolo sono andata a leggerlo. Anche questa necessità indotta potremmo indicarla come una buona ricaduta.
Di seguito:
- la risposta di Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari
- stralci dal testo di “La prima, la migliore”
- alcuni estratti dal testo di Remarque (traduzione di Stefano Jacini, riveduta da Elena Broseghini, Mondadori, 2015; pp. 94-95, 137-139, 143-147), che sono stati alla base del nostro dialogo.
Marina Mazzolani
Foto di Raffaella Cavalieri
- La nostra drammaturgia è sempre e continuamente passibile di cambiamenti.
Il testo di uno spettacolo è materia in continua evoluzione per qualunque nostra opera e: “La prima , la migliore” non è esente da questo trattamento.
La forza e la dannazione del teatro per noi è proprio questa: è un arte effimera che vive nel momento in cui accade; che permette di modificare, rielaborare, approfondire ma anche adattare alle circostanze di fronte alle quali sera dopo sera ci si trova, non è sempre la stessa recita se il pubblico che hai di fronte è diverso, non è la stessa recita se il luogo dove reciti, fisico e geografico, è diverso, non è la stessa recita se tu che reciti sei diverso.
E noi siamo diversi ogni sera.
Naturalmente questo non vuol dire che i nostri lavori siano improvvisati. Tutt’altro. La struttura è ben definita, è una partitura dalla quale è difficile divincolarsi ma al’interno della quale si cerca la vita attraverso continui, costanti e coraggiosi mutamenti quotidiani.
Questo per noi riguarda anche la scrittura anzi molto spesso riguarda soprattutto la scrittura ed in particolare quel passaggio che trasforma la drammaturgia in scrittura scenica, l’assunzione del testo, quel setaccio particolare e necessario che dà vita alle parole.
Una volta scritto il testo, viene messo da parte per permettere alla scena di condurre il gioco e portare quelle parole scritte su carta ad avere forza in bocca, nel corpo, in sonorità oltre che in significato.
E questa è la forza.
La dannazione sta nel fatto che in tutto questo cambiare e ricercare, bisogna far il possibile perché l’opera resti viva, fresca, credibile e forte.
Puoi continuare a modificare il lavoro replica dopo replica a differenza della letteratura, del cinema della musica dove l’edizione è una e definitiva. Ma proprio per questo non puoi mai considerarti padrone di un’opera.
Ogni volta che credi averla in pugno, ti sfugge dalle mani, specie il testo.
- Il lavoro di riscrittura e riadattamento liberamente ispirato all’opera di Remarque è stato un particolare esperimento di scrittura per la scena e sulla scena del tutto nuovo alle nostre pratiche drammaturgiche e di messinscena. Premettiamo che il nostro lavoro drammaturgico è inseparabile dal quello registico ed attorale. L’attore è al centro del nostro componimento scrittorio e di messinscena. Ogni brano, frammento e testo che prende vita e forma in scena nel nostro lavoro parte dall’attore e si modella sull’attore. Non è un caso infatti che quando lo scorso anno abbiamo insegnato alla accademia Paolo Grassi di Milano, il nostro corso si chiamava: “Mi sono scritto addosso”.
Il lavoro poi cambia a seconda di quello che di volta in volta abbiamo da dire.
Questo è anche legato alla forma che intendiamo dare o meglio alla forma che risulta più affascinante e funzionale rispetto alle cose che abbiamo da dire.
Per quel che riguarda “la prima, la migliore” la sfida è stata dura e stravagante.
In realtà noi non volevamo fare uno spettacolo sulla prima guerra mondiale ma sul testo. “Niente di nuovo sul fronte occidentale,” aforisma della nostra condizione attuale già in sé.
Abbiamo dovuto per dovere di professionalità oltre che per curiosità allargare il raggio di azione dato che il romanzo affronta la tematica del primo conflitto mondiale.
Dopo una lunghissima ricerca abbiamo convenuto che il rischio più grosso di affrontare questa tematica era la retorica oltre che la banalità. Ispirandosi poi ad un romanzo capolavoro di quel calibro c’era l’ulteriore probabilità di restare imbrigliati nel lirismo delle parole, nella letterarietà delle descrizioni, nella lucidità delle riflessioni. Tutte cose meravigliose peraltro sia pur nella crudeltà degli avvenimenti narrati, ma scritte per essere lette e non recitate.
La vita per noi sta nel dar corpo, oltre che voce, alle parole recitate in scena ed ancora nel condividere emozioni dal conferimento di parole , azioni ed immagini che compogono l’atto teatrale.
Era quindi, davvero molto pericoloso avventurarsi in riscritture, rielaborazioni di un testo di quella portata. Così abbiamo tentato una strada che da principio ci pareva improbabile: abbiamo lavorato a costruire una sequenza di immagini, di fotografie che raffigurassero senza parole, come una striscia di fumetti, gli argomenti per noi più rappresentativi della prima guerra mondiale (la pietà, la propaganda, la tecnologia dello sterminio, il fronte interno e quello esterno, il cameratismo). Contemporaneamente a questa ricerca, abbiamo continuato a leggere studiare e contaminare materiali d’ogni sorta utili magari all’ispirazione alla fase visiva della creazione.
Foto di Raffaella Cavalieri
Ci siamo ritrovati così a metà del percorso che avevamo costruito un montaggio scenico in cui c’era una sequenza di scene, di immagini e di azioni dove però praticamente non c’era testo, avevamo un’idea degli argomenti che avremmo sviluppato in ogni singola scena ma mancava di testo. Non c’erano dialoghi, non c’erano monologhi. Non sapevamo se sarebbero stati in prima o terza persona. Era una sorta di film del quale si vedevano benissimo le scene e le inquadrature ma di cui non si sentiva l’audio.
Nella pausa estiva ognuno di noi ha letto e riletto più volte il testo di Remarque che si è imposto dentro e fuori la scena come caposaldo dell’indagine.
Alla ripresa delle prove però ci siamo resi conto che nessuno dei frammenti scritti o rubati a Remarque avrebbe potuto funzionare in scena.
Tante parole, tutte belle, toppo alte .
Ci è così venuto in mente di provare a tradire oralmente il testo e la guerra.
A seconda della scena e dell’argomento affrontato abbiamo lavorato ad improvvisare in scena i monologhi e dialoghi come fossero dei ricordi. Non vissuti ma letti.
Ad esempio nella scena dei prigionieri russi quella che tu hai preso come riferimento letterario. Gianfranco si è messo dietro agli elastici tirati da Gabriella come fossero una gabbia.
Quella dei prigionieri appunto.
Poi senza toccar il testo ha iniziato a raccontare la scena come se la ricordava. È venuto così fuori un ricordo che da principio pareva verosimile alla scrittura di Remarque ma molto più quotidiano e basso.
In realtà rileggendo poi in seconda fase il brano dal romanzo ci si accorge che è solo un lontano parente del testo originale di cui però resta una fedeltà alle intenzioni ed una appartenenza emozionale.
Così siamo andati avanti. Ricordo dopo ricordo. Lasciando alla scena l’onere di scandire il tempo e lo spazio d’esecuzione.
Ovviamente non è stato così per tutto il testo perché i pezzi recitati da Gabriella sono scritti quasi tutti da lei. Sono brani originali, così come le canzoni interpretate da Davide che non sono canzoni di guerra ma sono paesaggi emozionali che rievocano lo stato psichico del soldato. Sono canti di nostalgia, di amore, ballate popolari che parlano della terra, delle radici e che possono in qualche modo richiamare al cuore più che alla memoria quello che un milite provava, faceva , in maniera empatica non celebrativa.
Abbiamo scoperto così quello che tante volte abbiamo noi stessi definito il potere della tradizione orale.
L’arte effimera del teatro fa si che molte volte gli spettacoli è meglio farseli raccontare che vederli in video o leggerli su carta.
Noi lo sappiamo bene. Sempre andando a teatro in due, vediamo gli spettacoli in uno.
Io vedo gli spettacoli con gli occhi di Gabriella. Il miracolo che a volte capita e di rivivere il lavoro tradito e tradotto da ciò che il mio immaginario rielabora ed acquisisce, potrei anche ripetere le azioni che Gabriella mi descrive ma difficilmente , pur essendo lei molto competente nella descrizione, riuscirei a replicare fedelmente la scena.
Accade quindi naturalmente una creazione originale data dalla trasformazione della creazione raccontata.
Non sempre è così sia chiaro. Dipende dalla bravura di chi racconta, dallo stato d’animo di chi ascolta e… naturalmente dalla bellezza cui si assiste!
Si possono vedere capolavori dove non ci sono e viceversa!!!
Di seguito 4 scene tratte da “La prima la migliore” che pensiamo possano essere significative.
La prima, che noi abbiamo chiamato “i politici” l’abbiamo scritta lasciandoci suggestionare dalle atmosfere della propaganda pro-guerra di allora e di “adesso”.
La scena quarta e nona sono state scritte interamente da noi tenendo presente sempre la guerra, il potere e l’ingiustizia ma partendo dalla nostra condizione umana, come persone prima che personaggi.
La sedicesima che abbiamo chiamato “I russi” è una riscrittura di un capitolo del testo di Remarque al quale anche tu hai fatto riferimento.
Gianfranco Berardi e a Gabriella Casolari
Foto di Raffaella Cavalieri
LA PRIMA, LA MIGLIORE
Di:
Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari
SCENA PRIMA
Si sente una voce registrata. In scena c’è seduto al palo destro Gianfranco
Voce off:
(Oggi nella patria della nostra giovinezza camminiamo come viaggiatori di passaggio.
Gli eventi ci hanno consumato.
Non siamo più spensierati ma atrocemente indifferenti.
Siamo diventati crudeli come macellai, accorti come mercanti.
Sapremo forse vivere su questo mondo ma quale vita?
Siamo rozzi, vili, superficiali.
Io penso che siamo perduti.)
Gianfranco esce di scena.
S’illumina Davide seduto al palo sinistro. Inizia a cantare tamburo della guerra.
Durante la canzone entra Gabriella che trucca Davide trasformandolo in un reduce poi Gabriella esce.
Sul finire della canzone si abbassa il fondale come fosse un siparietto e appaiono Gianfranco e Gabriella mascherati da politici:
SCENA SECONDA:
Politici
GI: Amici, cittadini, compagni.
GA: popolo.
GI: popolo di santi, poeti, navigatori ed eroi.
GA: ma soprattutto di eroi.
GI: Ci rivolgiamo a voi, ai vostri cuori, alle vostre menti,
GA: alle vostre anime;
GI: per dirvi grazie.
GA: GRAZIE
GI/GA: Grazie.
GI: La vostra presenza qui così numerosa, ci riempie il cuore di gioia.
GA: di felicità
GI: di orgoglio.
Per questo siamo venuti, per dirvi due parole:
E’ giunta l’ora cittadini,
GA: l’ora di agire
GI: di scendere in campo, di impegnarci tutti in prima persona, per cambiare questo paese, nel profondo, radicalmente.
GA: per riformarlo
GI: Giusto sradicarlo dalle antiche logiche massoniche che ci immobilizzano.
GA: Ci rendono schiavi.
GI: Non è più il momento dei ripensamenti.
GA: Dei dubbi.
GI: Dei tentennamenti
GA: E’ il momento del coraggio,
GI: Dobbiamo liberare il paese da questi governanti, vili mercanti che lo stanno svendendo senza vergogna.
GA: Dobbiamo difenderci, da questi invasori stranieri che spingono alle porte, ai confini della nostra nazione.
GI: Dobbiamo riportare nostro paese torni ad essere l’antica, gloriosa nazione di cui tutti hanno memoria, di cui tutti hanno avuto dimostrazione e
GA/GI: di cui tutti hanno ancora paura.
Sì paura.
GA: Noi non siamo qui per farci prendere in giro,
GI: noi diciamo NO e siamo disposti a combattere perché il nostro NO abbia il suo posto in Europa e nel mondo.
GA: Ma per fare questo dobbiamo tornare a sentirci uno.
GI: Giusto un grande popolo, un grande paese, un grande esercito.
GI/GA: ..NAZIONALE:
GI: Per questo dobbiamo lavorare tutti insieme congiuntamente, lottare strenuamente dobbiamo rinunciare hai nostri piccoli affari personali, hai nostri averi personali.
Tutti insieme ce la possiamo fare.
GA: ce la possiamo fare.
GI: Andate allora.
Cosa aspettate andate di corsa ad arruolarvi nelle fila di volontari.
Andate voi , giovani, studenti, operai, disoccupati, disabili, vecchi, extracomunitari, preti, suore, donne in cinta, meridionali!
GA: e se non potete andare voi passate voce.
GI: Dateci tutto quello che potete.
GA: dateci un figlio
GI: dateci un occhio.
GA: Dateci un dente.
GI: Dateci un rene, dateci tutto il vostro valore.
GA: Sì il vostro valore….
GI: I soldi, i vostri soldi noi li useremo per ricostruire poi il vostro futuro quello dei vostri figli, della nostra patria.
GA: Forza amici, che cosa state aspettando.
GI: Che cosa state aspettando prendete i vostri giovani estirpateli dalle loro piccole realtà, e buttateli in prima linea, sulla ribalta internazionale.
GA: Mandateli all’estero, a studiare l’inglese.
GI: qualcuno si brucerà certo.
GA: è necessario,
GI: è inevitabile,
GA: ma altri si troveranno face a face con la storia.
GI: con la gloria.
GI: Guardate lui. Guardate questo ragazzo ma non vi riempie il cuore di orgoglio di onore.
Certo non sarà tutto prosa e fiori.
Perché questo è un sacrificio, sia chiaro, ma che non vi chiedo io, è un sacrificio che vi chiede il paese, che vi chiede l’Europa, che vi chiede Dio. Cristo.
GA: E’ una guerra,
GI: certo, ma è la prima, la grande, la migliore.
(Si rialza il siparietto, e Gianfranco entra in scena vestito da soldato)
SCENA QUARTA:
Lettera
Canzone (oh re re)
(Gabriella entra in scena va verso Gianfranco. Prende la lettera dal suo taschino e comincia a leggere camminando sulla strada di sale.)
Gabriella legge le lettere:
La notte è lunga e agitata qui, non si riesce a dormire in questo posto, anche se cadi dal sonno e ti addormenti di botto poi ti risvegli sempre di scatto per questi rumori continui.
Sempre allerta devi stare, i nervi tirati e questo peso al cuore è come una cortina gelida che ti avvolge.
Hai la testa pesante, un senso di impotenza, la voglia di correre per strappartela di dosso, ma non puoi muoverti, sei prigioniero non c’è speranza.
Vorresti l’aiuto di qualcuno ma nessuno ti può aiutarti.
Da solo, devi fare tutto da solo.
Devi reagire, anche quando tutto sembra perduto, devi rialzarsi, ributtarti in piedi.
Da quando sono qua non ho visto un sorriso ma solo musi lunghi e malcontento.
E’ il capitano che tiene alto il morale delle sue truppe, se il capitano è un parassita tutta la nave affonda, tutta la nazione affonda.
Dov’è la responsabilità individuale?
Mi domando.
Perché al comando c’è sempre incompetenza?
Perché c’è sempre mediocrità?
Ma in fondo non avete niente.
Potenti senza onore.
Potenti senza coraggio.
Potenti senza forza.
Come sanguisughe vi nutrite del sangue degli altri, delle idee degli altri, della gioia degli altri, dell’amore degli altri.
E le menti geniali, intelligenti, acute, lungimiranti, perché vengono sempre schiacciate?
Questo essere che si chiamo uomo quanto è deludente!
SCENA NONA:
Pietà.
Gianfranco:
Basta, basta, basta
Io non ne posso più di vivere così in questa condizione sempre avvolto dalle tenebre in questa notte atroce senza fine rotta solo di tanto in tanto da qualche lampo, razzi artificiali che mi abbagliano, mi accecano e non mi fanno mai capire dove sono.
Pietà di me pietà della mia giovane età mi sento un topo sempre curvo, nascosto in questi incamminamenti scuri e infiniti.
Mi trascino rasentando le pareti con le mani.
Le mie dita sono baffi con cui cerco qualche cosa che non trovo mai.
Mi sento un animale, una talpa costretta ad annusare l’aria per capire dove sono se ho qualcuno intorno a me .
Ombre grigie, tutte uguali ed uniformi che non riconosco mai.
Nemici o forse amici sempre pronti a farti fuori con le loro lingue di fuoco dietro quelle feritoie.
Io non voglio più vivere così, voglio ritornare a casa mia alla mia vita normale,
rivedere gli occhi azzurri di mio padre, l’espressione addolorata di mia madre, il sole alto in celo e i miei occhi, il mio volto sfigurato dal dolore.
Canzone (sogna fiore mio)
Dopo 2 strofe l’arpeggio diventa inni nazionali.
SCENA SEDICESIMA:
Prigionieri.
Gianfranco:
Appena tornato, mi hanno messo di guardia ai prigionieri.
Che pena.
Li vedo girare come animali catturati e tenuti a morire dietro le sbarre di filo spinato.
Con le loro barbe da apostoli ed i visi da fanciulli.
Li vedo appoggiarsi a quei reticolati che li tengono prigionieri.
Stanno così per ore intere.
Cercando di intercettare la brezza che viene dai boschi.
Di tanto in tanto li vedo venire verso i nostri accampamenti.
Vengono a rastrellare i bidoni dell’immondizia.
Già il nostro vitto è scarso e cattivo.
Immaginarsi che cosa vi trovano loro dentro.
Una brodaglia liquida e torbida di bucce di patate e qualche torsolo di rape.
Fra di noi c’è chi li prende a calci per cacciarli via ma per fortuna non sono in tanti.
È vero anche che quando ti guardano con quelle facce spaurite ti fanno innervosire.
È incredibile quanta miseria possono nascondere due occhi.
Ti viene voglia di cavaglieli perché la smettano di fissarti così.
Qualcuno di loro ti mostra il lembo della camicia sporca di sangue.
Per loro la guerra è finita è vero ma anche starsene a morire di diarrea con le viscere che vomitano sangue non è vita.
Si vendono tutto quello che gli è rimasto per avere un pezzo di pane o qualche salsiccia.
I loro stivali sono i più ambiti sono ottime calzature di cuoio resistente.
I nostri zoticoni sono irritanti quando si avvicinano alla rete e lentamente tagliano una fettina di pane , poi strappano un pezzetto di salsiccia e adagio, adagio se lo infilano in bocca . Quelli quasi impazziscono sbavano, e sembrano pronti a donare qualunque cosa per avere un pezzo di pane duro.
Di notte vedo le loro facce illuminate dalle braci delle sigarette.
Con le loro gambe magre, le loro ginocchia gonfie sembrano cicogne malate.
Che aspettano che arrivi la morte o forse la pace.
E non appena ne muore uno, un altro prende il suo posto e si aggrappa con gli artigli alla gabbia in cui sono reclusi.
Che assurdità la guerra: un ordine scritto in una stanza lontana migliaia di kilometri, li ha trasformati in nemici e ci impone di tenerli prigionieri.
Loro farebbero lo stesso con noi a parti inverse.
Ma la cosa più incredibile è che un altro ordine scritto nella stessa stanza, potrebbe trasformarli in amici.
Allora li chiameremmo alleati e combatteremmo fianco a fianco contro qualcun altro.
Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
A seguire alcuni estratti da “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, di Erich Maria Remarque (traduzione di Stefano Jacini, riveduta da Elena Broseghini, Mondadori, 2015)
Foto di Raffaella Cavalieri
(pp. 94-95)
Questa volta abbiamo molte perdite, reclute per lo più. Al nostro reparto giungono nuovi complementi, dai reggimenti di nuova formazione: quasi tutti ragazzi delle ultime classi di leva. Non sono quasi formati. Appena hanno potuto fare un po’ d’istruzione, prima d’essere mandati in linea. Sanno che cosa sia una bomba a mano, ma non hanno idea di cosa significhi coprirsi, e soprattutto non hanno occhio. Una gobba del terreno sfugge alla loro attenzione, se non è alta almeno mezzo metro.
Quantunque si abbia tanto bisogno di rinforzi, queste reclute ci portano più lavoro che aiuto. Non sanno disimpegnarsi, in questo terreno così battuto, e cadono come le mosche.
La guerra di posizione odierna richiede cognizione ed esperienza; bisogna conoscere il terreno, aver fatto l’orecchio ai calibri, ai loro suoni ed effetti diversi; bisogna saper prevedere dove vanno a scoppiare, fin dove arrivano le schegge, e come ci si protegge.
Questi ragazzi naturalmente non sanno quasi nulla di tutto ciò, e vengono sterminati, falciati, perché neppure distinguono uno shrapnel da una granata; ascoltano con ansia l’ululato dei grossi calibri innocui, che scoppiano lontano dietro le nostre spalle, e non sentono il sibilo leggero delle piccole bestie malefiche che esplodono in mezzo a noi. Come pecore si stringono in un mucchio invece di sparpagliarsi intorno, e perfino i feriti vengono freddati dagli aviatori, come lepri.
Oh le pallide facce di questi sempliciotti, le tristi mani penosamente abbrancate, il miserabile coraggio di questi poveri diavoli, che nonostante tutto vanno avanti e attaccano; di questi bravi, poveri diavoli, così intimiditi che neppure osano urlare la loro sofferenza, e col petto e con la pancia squarciati, con le braccia e le gambe sfracellate non sanno che gemere piano, chiamando la mamma, e tacciono subito se qualcuno li guarda!
I loro volti smorti e aguzzi, con poca peluria, hanno l’atroce espressività dei bambini morti.
È un’angoscia che prende alla gola, vederli balzar fuori e correre a cadere. Si vorrebbe picchiarli, tanto sono stupidi, e insieme renderli in braccio e portarli via di qua, dove non hanno niente a che fare. Portano come noi la giubba grigia e pantaloni e stivali, ma per la maggior parte l’uniforme è troppo larga e balla loro sulle membra. Hanno spalle troppo strette, troppo esili i corpi, non v’erano taglie adatte per fanciulli messi così.
Per un anziano che cade, cadono da cinque a dieci reclute.
Un attacco improvviso, col gas, ne falciò parecchi. Non riuscivano a comprendere ciò che li aspettasse. Abbiamo trovato un ricovero pieno di morti con la faccia bluastra e le labbra nere. In una buca si sono tolte le maschere troppo presto, ignorando che a fior di terra il gas si mantiene più a lungo. Quando hanno visto gli altri, sopra, togliersi la maschera, se la sono strappata anche loro, e hanno ingoiato ancora abbastanza gas per bruciarsi i polmoni. Il loro stato è senza speranza, soffocheranno fino alla morte fra sbocchi di sangue e attacchi di asfissia.
(pp. 137-139)
Monto spesso di guardia al campo dei russi. Nell’oscurità si vedono muovere le loro figure, come di grandi uccelli, come di figure malate. Si avvicinano al reticolato e premono la faccia contro le maglie del filo di ferro, mentre vi si aggrappano con le dita adunche. Spesso sono lì in molti, l’uno accanto all’altro; e respirano il vento che viene dai boschi e dalla brughiera.
Parlano di rado, e solo poche parole. Fra loro sono più umani e, mi pare quasi, più fraterni di noi qui. Dipende forse soltanto dal fatto che si sentono più sventurati. Tuttavia la guerra per loro è finita. Ma anche essere sempre in attesa della scarica di dissenteria, non è vita.
I territoriali incaricati della loro custodia raccontano che erano più vivaci dal principio. Come sempre accade, avevano relazioni tra loro, e non di rado entravano in gioco i pugni e i coltelli. Ora sono torpidi e indifferenti, la maggior parte non si masturba neppure più, causa la debolezza; mentre spesso la faccenda andava tanto oltre che veniva praticata collettivamente, per camerate.
Stanno appoggiati al reticolato. Di quando in quando uno barcolla via, e subito un altro subentra al suo posto. I più tacciono, qualcuno mendica un mozzicone di sigaretta.
Vedo le loro figure scure, le barbe ondeggianti al vento. Nulla so di loro, se non che sono prigionieri di guerra, e ciò appunto mi turba. La loro vita è senza nome e senza colpa. Se sapessi qualcosa di loro, come si chiamano, come vivono, che cosa aspettano, che cosa li affligge, il mio turbamento avrebbe una meta e potrebbe diventare compassione. Ma così non sento dietro di loro se non il dolore della creatura, la tremenda tristezza della vita e la crudeltà degli uomini.
Un ordine ha trasformato queste figure in nemici nostri; un altro ordine potrebbe trasformarli in amici. Intorno a qualche tavolo un foglio scritto viene firmato da pochi individui che nessuno di noi conosce, e per anni diventa nostro scopo supremo ciò che in ogni altro caso provocherebbe il disprezzo di tutto il mondo e la pena più grave. Chi può più distinguere e giudicare, quando vede quando vede questi esseri silenziosi con i loro volti di fancilulli e le loro barbe d’apostoli! Ogni sottufficiale per la sua recluta, ogni professore per i suoi alunni è un nemico peggiore che costoro non siano per noi. Eppure noi torneremo a sparare contro di loro ed essi contro di noi, se fossero liberi.
Qui mi fermo spaventato: non debbo spingermi oltre. Questi pensieri conducono all’abisso. Non è ancora tempo per approfondirli; tuttavia non li voglio lasciar dileguare, li voglio serbare, chiudere in me, per quando la guerra sarà finita. Mi batte il cuore: è questo dunque lo scopo, il grande scopo, inaudito, straordinario, al quale ho pensato in trincea, quello che cercavo come sola possibilità di esistenza, dopo questa catastrofe di ogni umanità: è questo il compito per la vita di domani, degno di questi anni di orrore?
Mi tolgo di tasca le sigarette, rompo ciascuna in due parti e le do ai russi. Si inchinano e le accendono. Ecco che sui loro visi brillano qui e là punti rossi, e mi consolano; sembrano piccole finestrelle chiare su buie case di villaggio, che celano, dentro, accoglienti rifugi…
(pp. 143-147)
Si fa pulizia straordinaria. Un appello dopo l’altro; ispezioni su ispezioni. La roba stracciata viene sostituita con roba nuova. Ci guadagno una giubba nuova in perfetto stato; Kat, naturalmente, una divisa completa. Si vocifera che sia la ace; più probabile però sembra l’altra supposizione, che si vada “travasati” al fronte orientale. Ma che bisogno c’è di vestirci meglio, in Russia? Finalmente la verità trapela: viene l’imperatore a ispezionarci. Ecco il perché di tutte quelle visite.
Per otto giorni pare d’essere tornati in una caserma di reclute, tanto si sgobba e si fanno esercitazioni. Tutti sono infastiditi e nervosi, questi eccessi di pulizia non sono di nostro gusto, e il passo di parata ancora meno. Queste cose indispettiscono il fante più che la trincea.
Finalmente giunge il gran momento. Davanti alla truppa allineata, sull’attenti, appare l’imperatore. Siamo curiosi di vedere che faccia ha. Ci passa in rassegna, e io rimango alquanto deluso: dai ritratti me lo ero figurato più grande, più poderoso, e soprattutto con una voce più tonante.
Distribuisce alcune croci di ferro, rivolge la parola a questo e a quello. Poi torniamo alle nostre baracche.
Tra noi si discorre dell’avvenimento. Tjaden esclama stupito: “Questo dunque è il capo dei capi, che sta più in su di tutti. Davanti a lui stanno sull’attenti tutti quanti, tutti indistintamente!”. Ci ripensa e poi: Anche Hinderburg deve stare sull’attenti, no?”.
“Sicuro” conferma Kat.
Ma Tajden non ha finito. Riflette ancora un po’ e poi: “Anche un re deve stare sull’attenti davanti a un imperatore?”.
Qui nessuno sa dargli una risposta precisa, ma non crediamo. Sono tutt’e due pezzi così grossi, che non è più il caso di parlare di stare sull’attenti.
“Che razze di scemenze tiri fuori” dice Kat. “L’importante è che ci devi stare tu sull’attenti.”
Ma Tajden ne pare affascinatissimo. La sua fantasia, di solito così arida, è in ebollizione.
“Ecco” ci dichiara “quello che non riesco a immaginarmi è un imperatore che debba andare alla latrina tale e quale come ci vado io.”
“Eppure puoi scommetterci la testa” dice Kropp ridendo.
“Ma dico, sei fuori di cotenna?” completa Kat. “Ti sono andati i pidocchi al cervello, caro Tajden; vacci tu subito, alla latrina, che ti si schiariranno le idee e non parlerai più come un bambino in fasce!”
Tajden sparisce.
“Una cosa però vorrei saperla” dice Albert, “se la guerra ci sarebbe stata egualmente, nel caso che l’imperatore avesse detto di no.”
“Ma certo” interrompo io, “anzi dicono che lui in principio non la voleva affatto.”
“Be’, se non proprio lui solo, mettiamo, se venti, trenta, persone nel mondo avessero detto di no.”
“In questo caso può darsi” ammetto, “ma il fatto è che quelle hanno detto di sì.”
“È curioso a pensarci” continua Kropp. “Noi siamo qui per difendere la patria, no? Ma anche i francesi sono qui per difendere la patria. Chi ha ragione?”
“Forse gli uni e gli altri” dico io, senza crederci troppo.
“Va bene” dice Albert, e vedo dalla sua faccia che vuole mettermi alle strette; “ma i nostri professori e pastori e giornalisti dicono che abbiamo ragione solo noi, ed è sperabile che sia così; mentre dall’altra parte professori e curati e giornali francesi sostengono che hanno ragione soltanto loro; come la mettiamo?”
“Questo non lo so” dico io; “quello che so è che la guerra c’è, e che ogni mese vi entrano altri Paesi.”
Ricompare Tajden, ancora eccitato, e si mescola subito al discorso, informandosi in che modo, innanzitutto, scoppi una guerra.
“Generalmente è perché un Paese ha fatto grave offesa a un altro” risponde Albert, con una certa aria di superiorità.
Ma Tajden insiste coriaceo: “Un Paese? Non capisco. Una montagna tedesca non può offendere una montagna francese: né un fiume, né un bosco, né un campo di grano”.
“Sei bestia davvero o ci prendi in giro?” brontola Kropp.
“Non ho mai detto niente di simile. È un popolo che offende un altro…”
“Allora non ho niente a che fare qui; io non mi sento affatto offeso” replica Tajden.
“Ma mettiti bene in zucca” gli fa Albert stizzito, “che tu sei un povero diavolo, uno zotico e non conti nulla.”
“E allora, ragion di più perché me ne vada a casa” insiste l’altro, e tutti ridono.
“Ma, porca miseria, si tratta del popolo come collettività, ossia dello Stato” grida Müller.
“Stato, Stato” e Tajden con aria furbesca fa schioccare le dita “gendarmi, polizia, tasse, ecco il vostro Stato. Se è tuo parente, ringrazialo tanto da parte mia.”
“Giusto” dice Kat “hai detto per la prima volta una cosa di buon senso, Tajden. Stato e terra natale sono veramente due cose diverse.”
“Ma sono connesse l’una con l’altra“ osserva Kropp, “terra natale senza Stato non esiste.”
“Vero: però rifletti un po’ che siamo quasi tutti gente semplice. E anche in Francia la maggioranza sono operai, manovali, piccoli impiegati. perché mai un fabbro o un calzolaio francese dovrebbe prendersi il aggredirci? Credi a me, sono soltanto i governi, Prima di venire qui, non avevo mai visto un francese, e per la maggior parte dei francesi sarà andata allo stesso modo quanto a noi. Nessuno ha chiesto il loro parere, come non hanno chiesto il nostro.”
“E allora a che scopo la guerra?” domanda Tajden.
Kat si stringe nelle spalle: “ Ci deve essere gente a cui la guerra giova.”
“Be’, io non sono del numero” sghignazza Tajden.
“Né tu, né altri qui.”
“E chi allora?” insite Tajden. “Neanche all’imperatore la guerra giova: lui ha già tutto quello che gli serve.”
“Non dire questo” interrompe Kat; “finora una guerra non l’aveva avuta. E si sa che ogni imperatore di una certa grandezza ha bisogno di almeno una guerra, sennò non diventa famoso. Guarda un po’ nei tuoi libri di scuola, se non è così.”
“Anche i generali diventano famosi con la guerra” osserva Detering.
“Più ancora degli imperatori” conferma Kat.
“Però è certo che dietro c’è altra gente che ci vuol guadagnare con la guerra” brontola Detering.
“Credo piuttosto che si tratti di una specie di febbre” dice Albert. “In fondo non la vuole nessuno, e poi, a un dato momento, ecco che la guerra scoppia. Noi non l’abbiamo voluta, gli altri sostengono la stessa cosa; e intanto una metà del mondo la fa, e come!”
“Però dall’altra parte si stampano più frottole che da noi” replico io; “pensate un po’ a quei volantini trovati sui prigionieri, dove si diceva che noi mangiamo i bambini belgi. Bisognerebbe impiccare le canaglie che scrivono cose simili. Sono loro i veri colpevoli.”
Müller si alza: “Meglio a ogni modo che la guerra si faccia qui piuttosto che in Germania. Guardate un po’ queste campagne devastate dai crateri delle bombe”.
“Giusto” conviene anche Tajden; “ però meglio ancora se non ci fosse guerra affatto.” E se ne va, tutto fiero di aver bagnato il naso a noialtri volontari. E in realtà la sua opinione è tipica qui: ogni momento ce la troviamo di fronte, senza poterle contrapporre nulla di efficace, perché va di pari passo con una incomprensione con ogni altro contesto di riferimento più vasto. Il sentimento nazionale del fante consiste in questo, che è qui a combattere. Ma in ciò pure si esaurisce, tutto il resto viene da lui giudicato in termini concreti e dal suo particolare punto di vista.
Alberto si sdraia sull’erba, di cattivo umore.
“Meglio non parlare di tutta questa storia.”
“Tanto più che non si modifica nulla” asserisce Kat.
per soprammercato ci tocca restituire quasi tutto il vestiario nuovo che avevamo ricevuto, e riprendere i nostri vecchi stracci. La roba buona serviva soltanto per la parata.