Il Curdo non possiede che il vento
per Saleem Barakat
Il Curdo ricorda, quando lo vado a trovare, il suo domani
poi lo spazza con la scopa: pussa via da qui!
perché le montagne sono le montagne. Quindi beve
vodka per mantenere neutra l’immaginazione e dice: “Sono
il viaggiatore della mia metafora e le gru birichine
sono i miei sciocchi fratelli. E si scrolla di dosso le ombre
dell’identità. La mia identità è il mio linguaggio. Io… io…
sono il mio linguaggio. Sono l’esiliato della mia lingua.
E il mio cuore è la brace del Curdo sopra i suoi monti azzurri… /
Nicosia è al margine della sua poesia,
come qualsiasi altra città. Sulla bicicletta
portava le indicazioni, e disse: Mi fermo
dove mi lascia l’ultima indicazione. E’ così
che scelgo lo spazio e il sonno. Non sogna niente
da quando il jinn si è materializzato nelle sue parole
(le parole i suoi muscoli, i suoi muscoli le parole)
perché i sognatori santificano l’ieri, o corrompono
i cancelli dorati del domani…
Per lui non ci sono né ieri né domani
Il breve periodo è la sua piazza biancheggiante…/
La sua casa pulita come l’occhio del gallo…
dimenticata come la tenda del capo piantata per chi
si è disperso come piume. Un tappeto di lana
sgualcita. Un’ enciclopedia che marcisce. Libri frettolosamente
rilegati in pelle. Cuscini volanti ricamati dall’ago del cameriere
del cafè. Coltelli affilati per la macellazione
di polli e maiali. Una cassetta licenziosa.
Bouquet di spine che equivalgono ad eloquenza.
E un balcone aperto per la metafora: proprio qui
i Turchi e i Greci bestemmiano
a turno. Questo è il mio passatempo e il passatempo
di soldati che la notte fanno la guardia ai confini
di una commedia nera…/
Questo viaggiatore non è un viaggiatore diretto a un luogo qualsiasi…
Nel miraggio, il nord è il sud,
e l’est è l’ovest. E i venti non hanno valigia,
e la polvere non ha lavoro. Come se nascondesse
la sua nostalgia di un altro, non canta… non
canta quando l’acacia entra nella sua ombra
o quando la pioggerellina gli bagna i capelli…
Invece sfida a duello il lupo:
Vieni qui, figlio di cagna e battiamo il tamburo
della notte fin quando non avremo svegliato i morti. Perché
il Curdo affronta il fuoco della verità,
poi arde come la farfalla di un poeta/
Sa cosa desidera dal significato. Tutto
e invano. E a caccia delle antitesi le parole usano i loro trucchi,
invano. Strappa l’imene alle parole e poi le porta
riverginate al vocabolario. E conduce i cavalli
dell’alfabeto suo inganno come pecore, e rade
il pube del linguaggio: Mi sono vendicato dell’assenza.
Ho fatto quel che la nebbia ha fatto ai miei fratelli.
E mi sono arrostito il cuore come una preda catturata. Non sarò
come voglio. E non amerò la terra più
o meno che una poesia. Il Curdo
non possiede che il vento che lo possa dimorare e lui nel vento.
Drogarsi di vento e il vento di lui, essere salvato
dagli aggettivi della terra e delle cose… /
Si rivolgeva all’ignoto: Oh, figlio mio libero!
ariete dell’eterno labirinto, se vedi
tuo padre impiccato, non lo staccare dalla corda
del cielo, e non avvolgerlo nel cotone della pastorale
delle tue canzoni. Non lo seppellire, figlio mio, perché il vento
è un’eredità lasciata da un Curdo a un altro Curdo in esilio,
figlio … e le aquile che circondano me e te
sono innumerevoli nella spaziosa Anatolia.
Il mio funerale è riservato e simbolico, quindi porta la polvere
al suo destino, e trascina il tuo primo cielo
verso il tuo vocabolario magico. E attento
al bruciore della speranza ferita, quel mitico
mostro. E tu ora sei … ora sei
libero, figlio di te stesso, sei libero
da tuo padre e dalla maledizione dei nomi… /
Con la lingua hai superato l’identità,
dissi al curdo, con la lingua ti sei vendicato
dell’assenza
Rispose lui: non andrò nel deserto
E io dissi: Neppure io
Poi guardai verso il vento /
–Buona sera
— Buona sera!
di Mahmoud Darwish, da “Il Curdo non possiede che il vento”, in The Butterfly’s Burden, Copper Canyon Press 2007, traduzione dall’arabo in inglese di Fady Joudah, tradotto dall’inglese in italiano da Pina Piccolo, per gentile concessione di Fady Joudah.
Mahmoud Darwish (1941-2008), poeta e saggista palestinese, tradotto in molte lingue ma scarsamente in inglese e in italiano è autore di oltre 20 raccolte poetiche. Dal passato turbolento in quanto fin da bambino per le questioni politiche si trovava ad essere ‘cittadino ospite’ nella propria terra, e arrestato più volte per le sue letture pubbliche di poesie in Israele. Entra nel Partito Comunista d’Israele dai primi anni sessanta, poi direttore della rivista L’Unita’ ( locale) fin dal 1970. Ha vissuto a Beirut fino al 1982. Attivista politico parte dell OLP redattore del Dichiarazione d’Indipendenza dello Stato Palestinese, per via delle sue prese di posizioni politiche fino al 1996 non ha potuto vedere i propri famigliari. Alla sua morte gli sono stati concessi i funerali di stato.
Foto in evidenza di Melina Piccolo.