da: “Adua” (Igiaba Scego)

Aduacop

 

Capitolo 7

Adua

Un forte temporale si stava abbattendo sull’accampamento quando quell’uomo dalla barba rossa entrò nel nostro tuqul. È così che è cominciata con mio padre. È così che l’ho conosciuto, elefantino.
Quello sarebbe stato l’ultimo giorno felice della mia vita. Avrò avuto sette o al massimo otto anni.
Ricordo che la paglia del tetto era impregnata di acqua e all’interno la nostra precaria abitazione gocciolava da tutte le parti.

Erano gli anni ’60, ma io non lo sapevo ancora. Ero una pulce e combattevo con la natura traballante e provvisoria del nostro vivere quotidiano. Ero una nomade, una picco- la nomade con il naso a punta e pensavo che la vita fosse racchiusa nel belato ilare di una capretta. La pioggia quel giorno era stata violenta. Dovevamo resistere pochi minuti e poi sarebbe stato il paradiso.

Nella boscaglia la regola aurea durante una pioggia torrenziale è limitare i danni, a qualsiasi costo. Sapevamo tutti che, dopo quella piccola sofferenza iniziale, sarebbe spuntato il sole anche nel nostro cuore. La speranza, che aveva intrecciato i fili della nostra sopravvivenza, non ci avrebbe mai abbandonato. Una muffa verdastra, nel frattempo, si stava spandendo sotto i nostri piedi. Avrebbe portato i peggiori microbi, le peggiori insidie. Ma ci eravamo abituati. L’importante, lo ripeteva pure Howa la Storta, la vecchia matta dell’accampamento, era asciugarsi bene la pianta dei piedi quando sarebbe cessato tutto. Si fian uu tirtir era il motto. E già le pezze erano pronte sui nostri ganbeer di legno. Howa avrebbe apprezzato e forse, chissà, avrebbe sorriso felice per quella nostra febbricitante sollecitudine. Perché eravamo davvero felici di quella pioggia crudele che si stava abbattendo sulle nostre teste. Wallahi! Felici da morire. Quella pioggia era una vera manna dal cielo. Non a caso il pensiero di tutti correva ai nostri catini color ruggine colmi di buona acqua piovana per abbeverarci nei giorni a seguire. I sogni fanno presto a lasciare il posto alle angosce della siccità.

Alla pioggia ero abituata.

Ma quell’uomo dalla barba rossa stonava con l’insieme. Era così diverso dai pastori del nostro accampamento.

Era ripulito e liscio come una fanciulla.

Il suo turbante poi era di un chiarore spettrale che qua- si accecava. Tra il bianco e l’azzurrognolo, mi faceva così paura.

Poi inaspettato arrivò il fulmine.

Ma invece di scendere dal cielo uscì dalla bocca dell’uomo che fino a quel momento era stato il centro della mia esistenza.

«Quest’uomo è vostro padre, bambine» disse papà.

Io e mia sorella Malika rimanemmo in piedi a fissare l’uomo dalla barba rossa. Notai che aveva le gambe arcuate e un pizzetto da satanasso.

E la schiena era tutta una curva come quella delle donne gravide. E poi perché papà ce lo aveva presentato come nostro padre?

Avevo voglia di cagare tutta quella angoscia.

«Dovete stringergli le mani. È vostro padre. Non siete contente?»

Io e Malika avevamo una gran voglia di chiedere: “Ma non sei tu nostro padre?”. Ma nessuna delle due aveva il coraggio. Forse è stato lo sguardo di papà, di quello che fino a quel momento avevamo considerato nostro padre, a dissuaderci. Forse è stata anche la foga con cui ci spingeva verso quell’uomo sconosciuto e sbilenco che non ispirava nessuna fiducia. Sta di fatto che rimanemmo mute. Come se un coccodrillo ci avesse mangiato la lingua.

Non riuscivamo nemmeno a respirare.
Nemmeno a pensare.
Intorno la boscaglia ululava feroce come ogni notte. Potevo sentire in lontananza le risate delle iene e la bramosia feroce dei loro banchetti osceni.
I corvi gracchiavano. I gor gor russavano.
I leoni facevano l’amore con leonesse sfinite di stanchezza.
Una donna partoriva nel dolore.
Io e Malika eravamo lì in piedi, scalze, in mezzo a due padri.
Il nuovo non mi piaceva affatto. Era troppo vecchio. Troppo curvo. Aveva i piedi storti, i denti marci e un mento sfuggente come quello delle finte vergini.

Guardai il mio papà e chiesi con gli occhi aiuto.

Distolse lo sguardo e capii in quel momento che mi stava rinnegando.

«Domani partirete con lui per la grande città, per Magalo» disse.

Partire? A Magalo? Noi?

Avevo sentito parlare della grande città. Qualcuno mi aveva detto che addirittura io e Malika ci eravamo nate.

Non ci volevo andare. Sentivo che la grande città si sarebbe mangiata tutta la mia purezza, tutti i miei sogni.

Io stavo bene lì con le mie capre, con i miei cammelli e poi quella terra dorata era ormai parte del mio scheletro. Io e la terra vivevamo l’una per l’altra. In armonia con il canto degli elefanti.

Ero una nomade. Non mi volevo radicare.

Ero una nomade. Volevo essere libera di correre nel vento.

Malika era diversa da me. Non aveva molti desideri, lei. Desiderava solo che gli altri le volessero bene. Era una che bastava darle un ordine e lo eseguiva. Anche l’ordine più atroce era per lei la migliore soluzione possibile. Si rifiutava di pensare, decidere. Non voleva esporsi. Facessero gli altri. Tanto la vita non mi appartiene.

Quindi si inchinò al nuovo padre. Gli strinse la mano. Firmò il patto. Divenne sua schiava.

E così con quel gesto da sottomessa acquistò il suo amore per sempre.

Io schiumavo rabbia.

«Non voglio,» gridai «voglio la mamma. Voglio rimanere con la mia gente.»

Il mio papà mi disse: «Asha la Temeraria era la tua vera mamma e noi non siamo la tua gente. Tuo padre, Zoppe, ci ha chiesto di tenervi. La donna che ti ha svezzato è una delle mie mogli. Chiamala “zia acquisita”. Avete diverso sangue nelle vene. Questo lo devi imparare, lo devi imparare presto. Noi siamo stati i vostri custodi».

Non volevo impararlo. Volevo rivedere la donna che per me sarebbe rimasta la mia mamma. Era bella la mia mamma. Odorava di gelsomino.

«Voglio la mia mamma.»

E fu allora che l’uomo dalle gambe arcuate intervenne in quella assurda conversazione: «La tua mamma è morta quando ti ha messo al mondo».

«Sì,» disse il mio ex padre «è morta.»
Ma se l’avevo vista appena un paio di ore prima.
«Ma se l’ho vista…» mormorai.
«Quella non è tua madre» urlò il padre nuovo.
«Ma…»
«Niente “ma”, mocciosa. Impara a dare credito alle mie parole. Sono io ad averti messo al mondo.»
Guardai mia sorella con disprezzo.
Lei si era già arresa al nuovo ordine.
Io non riuscivo a tollerare quell’orrore.
Vidi il vecchio, quello che non avrei mai chiamato padre, prendere un arbusto spinoso.
Poi mi attirò a sé e mi diede due colpi. Due colpi forti. Fu il mio battesimo.
Le spine mi si conficcarono nella carne.
Ero come il Gesù dei cristiani, martire per colpe non commesse.
Sentii una profonda pena sgorgare dal mio fegato infelice. «Mamma dove sei?» sussurrai in un lamento.
Nessuno rispose.
Il mio papà, quello che era stato il mio papà, uscì dal tuqul.

Sentivo i suoi passi allontanarsi velocemente. Mi sembrò di cogliere l’eco di un singhiozzo.

«Mamma» chiamai.
Poi svenni.
Quando mi rialzai ero diventata un’attrice. Nessuno avrebbe mai più visto il mio vero volto.

[…]

Dal Capitolo 30

Zoppe

 

[…]

*

A Zoppe cominciò a girare la testa. C’era qualcosa di diverso quel giorno, in quell’odore, in quelle facce, in quella stanza. Guardò il vecchio e suo figlio. E poi gli occhi si posarono sui servi. Avevano tutti la stessa espressione, lo stesso naso, la stessa aria assente. Erano stanchi, stufi, arrabbiati o forse solo rassegnati. Avevano tutti i capelli ricci e la pelle ambrata. Tutti una cintura tintinnante e grosse orecchie. Insieme formavano una distesa piana di pelle nera e sentimenti soffocati. C’era in quel quadro qualcosa di familiare e di perverso. Ma Zoppe non riusciva a cogliere cosa. Poi quasi inaspettate arrivarono le prime parole del vecchio e lo scossero da quei suoi pensieri nocivi.

«Tenastellen» esordì.

Zoppe dovette sintonizzarsi subito su quella voce opaca e traslucida. Era bella la voce del vecchio. Una cantilena aspra che sapeva ridestare un animo sopito dal sonno a una nuova vita. Ma le parole erano dure, affilate, terribili. Non doveva fermarsi sul loro significato, perché allora non avrebbe tradotto nulla. Sarebbe stato perduto. Una carcassa che anche un avvoltoio avrebbe scansato. Gli occhi del vecchio dominavano il buio. Svettavano imperiosi in quella stanza che puzzava di topo. Ma era lo sguardo cannibale del conte Anselmi a confondere Zoppe. In lui non c’era più grazia aristocratica. L’italiano del conte, un tempo leggiadro, si era trasformato in un urlo primordiale. Anche le sue mani, un tempo eleganti, erano le zampe di un facocero in calore. Zoppe in mezzo a loro si sentì solo. Attraversato dalle frecce avvelenate del tradimento. Ogni parola lo feriva. Ogni gesto lo oltraggiava. Il vecchio stava offrendo all’Italia il suo appoggio per la guerra futura. Avrebbe fornito armi, uomini, ristoro, approvvigionamenti. Prometteva di uccidere l’imperatore Hailé Selassié in persona, se necessario. Il vecchio stava firmando con l’Italia un patto di sangue, di non ritorno. E lui, Zoppe, lo stava traducendo. No, non doveva pensarci. Lui doveva aprire e chiudere la bocca. Solo questo. Aprire e chiudere la bocca. Non tralasciare niente. Nemmeno i sospiri.

Il conte accettò di buon grado e promise a quel patetico vecchio una carriera sicura per quel figlio in frac: «Non avrà nulla da temere con noi». E così dicendo fece volare per la stanza una manciata di talleri che il vecchio tentò goffamente di afferrare. «Naturalmente sarete ricompensati per la vostra lealtà all’Italia.» Un’altra pioggia di talleri inondò la stanza. Il conte rise soddisfatto. Era stato così facile corrompere quei negri. Un gioco da ragazzi portarli a tradire la propria gente. Fu in quel momento che il vecchio gridò al figlio: «Ringrazia il signor conte che è stato così buono con noi». Il giovane che per tutto quel colloquio non aveva mosso un muscolo cominciò a ridestarsi come un grosso Golem annientato dal tempo. Fu un attimo gettarsi ai piedi del conte e baciargli le punte infangate degli scarponi.

Brani dal romanzo  “Adua”,  Giunti 2015, per gentile concessione della casa editrice.

 

 

Foto igiaba

Igiaba Scego è nata a Roma nel 1974. Collabora con “Internazionale”, “lo straniero”, “la Repubblica”. Tra i suoi libri: Pecore nere, scritto insieme a Gabriella Kuruvilla, Laila Wadia e Ingy Mubiayi (Laterza 2005); Oltre Babilonia (Donzelli 2008); La mia casa è dove sono (Rizzoli 2010, Premio Mondello 2011), Roma negata (con Rino Bianchi, Ediesse 2014). Esperta di transculturalità, adora gli elefanti, i gatti, il parmigiano, la cedrata e Caetano Veloso.

 

Le foto del libro e dell’autrice sono a cura di Igiaba Scego.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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