Intervista condotta via e-mail il 27 aprile 2022. Siamo molto indebitati e grati ad Alvaro Sánchez per le sue parole e le sue straordinarie opere d’arte, che arricchiscono alcuni degli articoli del numero 24 de La Macchina Sognante.
Pina Piccolo (PP) Presentati, scegliendo 5 parole che descrivono la tua vita e le tue attività artistiche.
Alvaro Sánchez (AS) Mi chiamo Alvaro Sánchez, sono nato, cresciuto e attualmente vivo a Città del Guatemala. Se dovessi scegliere 5 parole per descrivermi sarebbero:
curioso, tenace, ambizioso, umanista, sopravvissuto, amante della musica.
PP: In alcuni dei tuoi materiali biografici ti descrivi come un artista di Città del Guatemala e delle sue strade. Puoi per favore ampliare questa descrizione? Potresti farci un esempio della genesi di una tua opera d’arte da un incontro per strada?
AS: Vivere in un posto come il Guatemala può essere bello: triste e selvaggio allo stesso tempo. È un posto davvero surreale in cui vivere. Qui si può assistere a cose che mai e poi mai avresti detto sarebbero state possibili. È un flusso costante di idee e immagini che ti prendono a pugni il cervello. Quindi, è impossibile non essere ispirati da tutte le cose che accadono intorno a te. Con questo in mente, divento una specie di cacciatore di quelle immagini e con il tempo sono anche diventato una calamita per cose strane. Cioè sono loro a venire da me, mi mentono, vogliono che le faccia mie. Quindi non faccio altro che tradurre tutte queste informazioni nella mia opera d’arte non appena il pennello o la matita toccano lo spazio bianco sulla carta. E da quel momento, l’opera d’arte prende una vita propria e io ubbidisco, sperando in qualcosa che parli a me e, si spera, anche ad altre persone.
PP: La caducità della vita e della morte hanno un ruolo di primo piano nel tuo lavoro e occupano un ampio spazio sia nell’arte precolombiana che nell’attuale arte centro e sudamericana. Come descriveresti l’evoluzione di questi tropi nella tua arte e nelle tendenze artistiche generali tra i tuoi contemporanei?
AS: La vita, la memoria e, naturalmente, la morte sono gli argomenti più importanti del mio lavoro. Immagino che tutto ciò che abbia a che fare o si riferisca all’essere umano faccia parte anche dei miei interessi artistici. Forse è perché sto sempre lì ad interrogarmi su tutto, in un certo senso il mio è un percorso in cui cerco risposte attraverso la mia opera d’arte. Vedo il mio lavoro come una lunga, lunga domanda in attesa di risposta. Tra quelli della mia generazione è più o meno lo stesso. Immagino che sia una cosa normale per noi, o forse ho questa percezione perché spesso creo una conversazione artistica tra artisti che cercano le stesse cose che inseguo anch’io. È come una riunione degli Alcolisti Anonimi, ma per artisti.
PP : Una delle prime cose che colpisce chi guarda la tua arte è il tuo uso del colore. Potresti darci qualche spunto su come ti relazioni ad esso come mezzo di espressione?
AS: Il colore è arrivato un po’ tardi nella mia vita, infatti ne avevo molta paura. La gente di solito pensa che per un artista il colore sia la cosa più facile da trasmettere, ma non lo è. Il mio primo corpus artistico è molto monocromatico. Ma poi ho capito che avevo bisogno di qualcos’altro. Quel qualcosa era colore. L’Art Brut e l’ Outsider Art hanno molto a che fare con quel mutamento di direzione. Mi hanno stupito le libere associazioni dei colori, i gesti, la violenza dei tratti. Sapevo di averne bisogno e da quel momento ho solo seguito il mio istinto. Tuttavia volevo farlo come un bambino, cercando di evitare le regole. Infatti, trovo che per farlo, ti devi resettare da tutte le cose che hai imparato in precedenza. In realtà sto ancora cercando di farlo. È la cosa più difficile da fare, forse è impossibile.
PP: I corpi umani (e talvolta quelli degli animali), visti sia esternamente che internamente, sono molto importanti nella tua arte. Puoi approfondire la tua visione distintiva e alcune delle sfide che potresti incontrare in un ambiente come quello di oggi in cui il corpo è ovunque, dalla pubblicità ai selfie, è al centro della sociologia e di movimenti umani come il femminismo e il transfemminismo.
AS: Oggi è molto difficile e una sfida parlare del corpo, come dici tu, perché è diventato qualcosa di banale, non è quello che cerco. Parto sempre dalla premessa che il corpo umano è una cosa miracolosa. Come architettura è quella più perfetta mai realizzata. Per me anche solo muovere il mignolo è un miracolo. E questo va al di là di ciò che la pubblicità e i social media potranno mai catturare. Per loro è davvero impossibile farlo. Questo è il motivo per cui il corpo umano è così importante per me. Nel mio lavoro esprimo principalmente le cose che capisco. Ad esempio, il senso di invecchiamento del corpo è qualcosa di sorprendente, è bello e fa paura. Lo affronto nel mio lavoro perché capisco che qualsiasi dolorino nelle mie ossa, ogni volta che lo sento, fa parte di un processo che alla fine si concluderà con la mia stessa morte. E affrontare questo, immagino, vada oltre un atteggiamento o una posizione sociale o politica. Per me, è solo una parte dell’essere umano, e sarà così finché esisterà l’umanità.
PP: Vedi una connessione tra il tuo lavoro nelle arti visive e il tuo impegno con la musica?
AS: Per quanto mi ricordi, ho capito l’arte per la prima volta attraverso la musica. Dal momento che non avevo alcuna formazione artistica ufficiale, è stato attraverso le copertine delle band che mi piacevano, in particolare le band rock n’ roll che ho sviluppato il mio interesse per l’arte. L’estetica delle illustrazioni o forse il logo delle band mi hanno ispirato molto ai tempi. Posso dire con certezza che senza la musica il mio lavoro probabilmente non esisterebbe. In qualche modo la musica determina una parte molto ampia del dipinto, come si svilupperà o anche come si concluderà. Ad oggi, sono una persona che non può lavorare senza la musica. Penso che la musica ci possa toccare in innumerevoli modi, così tanti che è impossibile per me non esserne influenzato. Ecco perché penso che la musica abbia molto a che fare con la mia arte visiva più di quanto io stesso avrei potuto immaginare anni fa. O forse sono solo un altro di quei ragazzi frustrati che vorrebbero sapere suonare uno strumento musicale e creare melodie fantastiche.
Alvaro Sánchez (Città del Guatemala, 25 dicembre 1975) Artista visivo e scrittore nato a Città del Guatemala. Ha collaborato e pubblicato con riviste di arte, letteratura e design del Guatemala e di altre nazioni del mondo. Gran parte delle sue opere sono basate su tecniche miste e sono state esposte in numerosi paesi d’Europa, Asia e America. Nella creazione del suo corpus artistico riveste una grande importanza il gusto per i periodi storici e gli elementi organici. La maggior parte delle sue opere si ispira alla letteratura, alla pittura, alla musica e al cinema, ma la sua principale ispirazione è Città del Guatemala e le sue strade. Ha pubblicato il libro Mañana Muerta de Domingo 1a edizione (Editorial X). Tiene la rubrica quindicinale Reducto Sonico in cui scrive di musica e che appare su carta stampata. Ha ricevuto il premio per il miglior racconto internazionale in lingua spagnola al Festival degli scrittori di San Miguel de Allende, in Messico. Alcuni suoi testi sono apparsi su USAC Magazine (Universidad de San Carlos de Guatemala) e nell’antologia di racconti Microterrores VI pubblicata da Editorial Diversidad Literaria (Spagna), Territorios Olvidados: Quince cuentos del triángulo norte y uno más al sur publicada di Editorial X (Guatemala e Honduras)
Dichiarazione dell’artista in merito alle sue opere
La mia prospettiva e il mio modo personale di guardare all’arte si sviluppano sempre in maniera separata dalle cose che mi hanno incuriosito per tutta la vita tra cui la fragilità dell’essere umano. Cioè ritengo che nel mio lavoro l mia ricerca consiste nel riflettere sulla condizione umana, celebrarla insieme ai nostri errori e alle nostre tragedie. Sono convinto che la nostra vera natura si trovi negli spazi meno luminosi, quelli che visitiamo di rado, perché sicuramente ci ricordano l’essere imperfetto e limitato che siamo. Quando applico queste riflessioni al mio lavoro, esse mi conducono verso un processo in cui non ci sono regole o principi accademici., pur se tutto questo non significa che io non sappia da dove provenga tutto ciò che in generale mi ha ispirato. Tuttavia, perché funzioni per me, il tutto deve partire dal mio processo naturale, che è: prima distruggo tutto e poi lo ricostruisco dal mio punto di vista artistico o da ciò che penso si adatti a quel modo di vedere le cose. Alla fine, quello che voglio è che la persona che guarda e si ferma davanti al mio lavoro provi qualcosa di simile a quella sensazione che ti rimane nelle orecchie quando finisci di ascoltare una canzone punk a tutto volume.